Medici dipendenti da strutture sanitarie pubbliche - Responsabilità
professionale - Rapporto contrattuale di fatto o da contatto sociale
CASSAZIONE CIVILE SEZIONE III n. 589/99 13 ottobre 1998 - 22 gennaio 1999. Pres. Bile,
Est. Segreto (Ric. Massa)
La responsabilità dell'ente gestore del servizio ospedaliero e quella
del medico dipendente hanno entrambe radice nell'esecuzione non diligente o errata della
prestazione sanitaria da parte del medico, per cui, accertata la stessa, risulta
contestualmente accertata la responsabilità a contenuto contrattuale di entrambi
(qualificazione che discende non dalla fonte dell'obbligazione, ma dal contenuto del
rapporto).
Nei casi di rapporti che nella previsione legale sono di origine contrattuale e tuttavia
in concreto vengono costituiti senza una base negoziale e talvolta grazie al
"contatto sociale" (secondo un'espressione che risale agli scrittori tedeschi),
si fa riferimento, "rapporto contrattuale di fatto o da contatto sociale".
L'attività diagnostica e terapeutica è dovuta nei confronti del paziente, nell'ambito di
un preesistente rapporto, sia dall'ente ospedaliero sia dal medico dipendente, ma da
ciascuno di questi sotto un diverso profilo e nei confronti di un diverso soggetto. Quanto
all'ente ospedaliero, l'attività è dovuta nei confronti del paziente quale prestazione
che l'ente si è obbligato ad adempiere con la conclusione del contratto d'opera
professionale. Quanto al medico dipendente, l'attività è dovuta nei confronti dell'ente
ospedaliero nell'ambito del rapporto di impiego che lo lega all'ente e quale esplicazione
della funzione che è obbligato a svolgere.
La responsabilità professionale dei medici dipendenti dal servizio sanitario nazionale dopo la sentenza della Cassazione civile n. 589/1999 detta del "contatto sociale". Trentadue anni dopo il fatto il medico apprende che la sua responsabilità non era extracontrattuale, bensì contrattuale: con le relative conseguenze.
1. La sentenza n. 589/1999 della sezione terza civile della Corte di
Cassazione è nota ormai da tempo, essendo stata pubblicata e commentata in più riviste
sotto il profilo giuridico. Con essa si rafforza, pur con motivazioni diverse, un
precedente orientamento della Corte secondo cui il medico dipendente dalle strutture
sanitarie pubbliche risponde a titolo di responsabilità contrattuale, non già di
responsabilità extracontrattuale come affermato da un più antico indirizzo, peraltro
ancora seguito in epoca recente. Afferma la sentenza, infatti, che l'obbligazione del
medico dipendente dal servizio sanitario nazionale nei confronti del paziente ha natura
contrattuale benché non fondata sul contratto quanto invece sul cosiddetto "contatto
sociale" caratterizzato dall'affidamento che il malato pone nella professionalità di
chi esercita una professione protetta e che si collega alla teoria degli "obblighi di
sicurezza" e di "protezione" miranti a garantire la corretta esecuzione
delle prestazioni assunte dalle parti del contratto.
Non abbiamo competenza per poter commentare sotto il profilo giuridico questa sentenza che
taluni dei commentatori (cfr. nota n. 1) ritengono basata su di un impianto teorico
fragile tale da richiedere ulteriori interventi integrativi e chiarificatori riguardo al
recepimento della categoria del "rapporto contrattuale di fatto o di contatto
sociale". Non condivide la sentenza anche l'autorevole civilista Francesco Busnelli -
il cui pensiero speriamo di riferire correttamente - che ritiene eccessivo l'allargamento
dell'area contrattuale, giustificato in Germania dove la tipicizzazione delle ipotesi di
responsabilità extracontrattuale rende necessario talora ricorrere alla responsabilità
contrattuale, ma non in Italia dove tale tipicizzazione non esiste. L'estensione della
responsabilità contrattuale ai medici dipendenti dagli enti pubblici, con le correlative
maggiori difficoltà per i medici, potrà accentuare, osserva Busnelli, il già grave
fenomeno della Medicina Difensiva che si risolve in danni per i pazienti.
Ulteriori riflessioni, in margine alla sentenza, sono possibili ed opportune sul versante
generale della professione medica - a causa della sempre più grave incertezza del
diritto giurisprudenziale in tema di responsabilità medica, in evoluzione continua,
ma nel contempo tardiva rispetto al momento dei fatti - e sui riflessi che questo
orientamento giurisprudenziale, il quale sembra stia consolidandosi, è destinato ad avere
sulle metodologia delle consulenze medico-legali d'ufficio e su quelle effettuate
nell'interesse delle parti.
Il principio centrale affermato dalla sentenza n. 589 della terza sezione civile della
Corte di Cassazione, depositata il 22 gennaio 1999 - che per sottolineare il punto
cruciale delle motivazioni è stata chiamata la sentenza del contatto sociale
è dunque lestensione della responsabilità contrattuale medica ai sanitari che
operano nelle strutture pubblica. Ne consegue, se abbiamo ben compreso, che questa
sentenza chiama gran parte dei medici a rispondere a titolo di responsabilità
contrattuale, sia nellattività privata che in quella svolta per il servizio
sanitario nazionale.
La maggior parte dei casi oggetto di contenzioso giudiziario infatti appartiene a
prestazioni fornite in strutture sanitarie pubbliche o private e ciò in ragione del fatto
che prevalgono tra essi i trattamenti chirurgici di vario tipo. La posizione dei medici
implicati viene dunque ulteriormente indebolita dall'attribuzione di una responsabilità
contrattuale rendendo spesso ardua la loro difesa anche da parte dei consulenti medici che
si assumono l'onere di sostenerla. Di converso si generalizza l'alleggerimento dell'onere
probatorio della parte danneggiata e si facilita in misura rilevante il compito dei suoi
consulenti medici e, a ben vedere, quello degli stessi consulenti d'ufficio (cfr infra
par. 5).
Le conseguenze dell'annotata sentenza - e di quelle che in precedenza hanno affermato la
responsabilità contrattuale del medico appartenente alle strutture pubbliche - non sono
di poco conto se si considera che il termine di prescrizione è di cinque anni nella
responsabilità extracontrattuale, di dieci anni nella responsabilità contrattuale e che,
soprattutto, la ripartizione dellonere probatorio in questultima è senza
dubbio più favorevole al danneggiato e decisamente sfavorevole al medico.
Lorientamento della Cassazione, come già detto, non è invero del tutto nuovo
perché altre sentenze dello stesso segno sono state pronunciate in passato anche se con
diverse motivazioni giuridiche. Come non di rado avviene, dette sentenze non hanno avuto
la risonanza riservata a quella qui commentata la quale, forse, si è posta in maggiore
evidenza per la peculiarità delle motivazioni. E per tale ragione che non è per
noi agevole prevedere se questo orientamento diventerà univoco o se persisterà una linea
giurisprudenziale alternativa, ribadita anche di recente, secondo cui la responsabilità
del medico pubblico dipendente è extracontrattuale mentre è comunque,
notoriamente, sempre di natura contrattuale quella dellente posta in capo
allente.
2. La vicenda clinica e giudiziaria è così compendiabile. Il 4 agosto 1967 la minore Maria Pia Q., caduta accidentalmente sui vetri di una bottiglia, fu ricoverata durgenza presso lospedale S.G. in Roma e sottoposta ad intervento chirurgico alla mano destra eseguito dal dr. E. M. Non avendo recuperato la funzionalità della mano la Q. fu sottoposta a nuovo intervento da parte del prof. G. F. presso il Policlinico G. ma con risultato non del tutto soddisfacente. Dopo un procedimento penale nel quale il dr. M. è stato prosciolto in istruttoria, il padre della minore conveniva in giudizio civile i due chirurghi e lUSL di appartenenza.
Il Tribunale ha condannato il primo chirurgo, ed il Comune, al risarcimento del danno. Hanno proposto appello sia il Comune che la danneggiata.
La Corte dappello con sentenza del 19.4.1995 ha accolto
lappello incidentale della danneggiata confermando la condanna ed elevando la somma
risarcita alla parte attrice. La responsabilità del primo chirurgo nel causare i postumi
- costituiti da limitazione dellestensione delle dita, ipotrofia muscolare ed ossea
delle dita e ridotta sensibilità è stata individuata dalla Corte dappello
nella "non tempestiva sutura della doppia sezione del nervo mediano e di quello
ulnare, la cui lesione non fu né diagnosticata né trattata, come emergeva dalle
conclusioni della consulenza collegiale dufficio e dalla cartella clinica
dellospedale S.G. nonché dallesame elettromiografico preliminare al secondo
intervento, mentre, data la posizione dei due nervi, una ferita con recisione dei tendini,
interessava necessariamente le dette strutture nervose".
La Corte ha dunque ritenuto che la minore abbia avuto conseguenze di maggior danno di
quello che "era lecito attendersi da una corretta terapia della lesione". Hanno
ricorso per Cassazione sia il Comune che il primo chirurgo. La Cassazione ha riunito i
ricorsi e li ha entrambi rigettati.
3. La sentenza in epigrafe respinge anzitutto due dei motivi di ricorso
del Comune e del medico considerando, fra laltro, che "entrambi i motivi
riposano sul presupposto implicito che nella fattispecie ricorra lipotesi della prescrizione
quinquennale di cui allart. 2947 c.c. trattandosi di responsabilità aquiliana
sia dellEnte gestore del servizio sanitario sia del medico". Ma la Corte
ritiene invece che detta responsabilità abbia natura contrattuale. Nei punti 3 - 6
della sentenza vengono ampiamente esposti i motivi di tale pronuncia sui quali intendiamo
soffermarci cercando di riassumerne i punti salienti.
Nel suo ricorso il medico aveva lamentato la violazione e la falsa applicazione di norme
di diritto, in particolare dellart. 2043 c.c., in relazione allart. 360 n. 3
c.p.c., perché sarebbe stata affermata illegittimamente una sua responsabilità solidale
di medico dipendente della struttura ospedaliera, senza specificare a che titolo e sulla
base di quale norma. Il diritto alleventuale risarcimento del danno, ha sostenuto il
medico del primo ospedale, poteva essere esercitato dalla danneggiata esclusivamente nei
confronti dellente ospedaliero, e non nei confronti del medico dipendente, il quale,
se del caso, poteva rispondere del suo operato al suo datore di lavoro.
Inoltre, ha lamentato il ricorrente, poiché la sentenza impugnata ha ritenuto che gli
effetti negativi dellintervento fossero riconducibili alla mancanza di diligenza e
prudenza del primo chirurgo, di fatto ha riconosciuto la sussistenza di una colpa lieve
del medico, "per cui a norma dellart. 2236 c.c., non poteva sussistere una sua
responsabilità civile, essendo la stessa limitata ai casi di dolo o colpa grave."
4. In relazione a questi motivi di ricorso la Corte affronta il
centrale problema della natura della responsabilità professionale del medico
osservando preliminarmente che, a differenza di quanto avviene negli ordinamenti
dellarea di common law - ove persiste la tendenza a radicare detta
responsabilità nellambito della responsabilità aquiliana (torts) - nei
paesi dellarea romanistica, responsabilità si inquadra nellambito
contrattuale.
Tuttavia, rileva la Corte è "controversa in giurisprudenza la natura della
responsabilità del medico dipendente di una struttura pubblica nei confronti del
paziente".
Esiste infatti un primo orientamento secondo cui "laccettazione del
paziente nellospedale, ai fini del ricovero oppure di una visita ambulatoriale,
comporta la conclusione di un contratto dopera professionale tra il paziente e
lente ospedaliero, il quale assume a proprio carico, nei confronti del malato
lobbligazione di compiere lattività diagnostica e la conseguente attività
terapeutica in relazione alla specifica situazione patologica del paziente preso in
cura".
Poiché tuttavia il medico dipendente non partecipa a questo rapporto contrattuale
"la responsabilità del predetto sanitario verso il paziente per danno cagionato da
un suo danno diagnostico o terapeutico è soltanto extracontrattuale, con la conseguenza
che il diritto al risarcimento del danno spettante al paziente si prescrive in cinque
anni". Ricorda anche la sentenza che "costantemente si è affermato che la
extracontrattualità dellillecito del medico dipendente non osta
allapplicazione analogica dellart. 2236, in quanto la ratio di questa norma
consiste nella necessità di non mortificare liniziativa del professionista nella
risoluzione di casi di particolare difficoltà e ricorre, pertanto, indipendentemente
dalla qualificazione dellillecito (Cass. S.U. 6.5.1971, n. 1282; Cass. 18.11.1997,
n. 11440)".
Questo orientamento non è ritenuto condivisibile dalla sentenza in epigrafe perché,
anzitutto "proprio colui (il medico) che si presenta al paziente come apprestatore di
cure alluopo designato dalla struttura sanitaria, viene considerato come
lautore di un qualsiasi fatto illecito (un quisque)". Osserva testualmente la
Corte: "Detta impostazione riduce al momento terminale, cioè al danno, una vicenda
che non incomincia con il danno, ma si struttura prima come rapporto, in cui
il paziente, quanto meno in punto di fatto, si affida alle cure del medico ed il medico
accetta di prestargliele. Inoltre se la responsabilità del medico (dipendente) fosse
tutta ristretta esclusivamente nellambito della responsabilità aquiliana, essa
sarebbe configurabile solo nel caso di lesione della salute del paziente conseguente
allattività del sanitario e quindi di violazione dellobbligo di protezione
dellaltrui sfera giuridica (inteso come interesse negativo)".
In questa prospettiva la responsabilità aquiliana del medico - violazione del principio alterum
non laedere - sarebbe configurabile solo nel caso di esito peggiorativo del
trattamento medico colposo, non già se non si è raggiunto lo sperato esito positivo
della cura mancando il danno rispetto alla situazione qua ante. Il risultato
migliorativo è dovuto invece, rileva la Corte, nellambito di un rapporto di natura
contrattuale.
Il secondo orientamento giurisprudenziale riepilogato dalla
sentenza n. 589/1999 trae origine dalla sentenza della Cassazione n. 2144 dell'1.3.1988,
ma è stato successivamente ribadito da altre sentenze secondo le quali "la
responsabilità dellente ospedaliero, gestore di un servizio pubblico sanitario, e
del medico suo dipendente per i danni subiti da un privato a causa della non diligente
esecuzione della prestazione medica, inserendosi nellambito del rapporto giuridico
pubblico (o privato) tra lente gestore ed il privato che ha richiesto ed usufruito
del servizio, ha natura contrattuale di tipo professionale".
Secondo questo indirizzo giurisprudenziale lo Stato od altro Ente pubblico che esercita un
servizio pubblico hanno il dovere di effettuare la prestazione, nei confronti del privato
il quale ha il diritto soggettivo che gli deriva dalla richiesta di prestazione. In
siffatta situazione si costituisce un rapporto giuridico tra i due soggetti, per cui la
responsabilità dellente pubblico verso il privato per il danno a questo causato per
la non diligente esecuzione della prestazione non è extracontrattuale, essendo
configurabile questo tipo di responsabilità solo quando non preesista tra il danneggiante
ed il danneggiato un rapporto giuridico nel cui ambito venga svolto dal primo
lattività causativa del danno.
Pertanto nel servizio sanitario lattività svolta dallente gestore a mezzo dei
suoi dipendenti è di tipo professionale medico, similare allattività svolta
nellesecuzione dellobbligazione privatistica di prestazione, dal medico che
abbia concluso con il paziente un contratto dopera professionale. "La
responsabilità dellente gestore del servizio è diretta, essendo riferibile
allente, per il principio dellimmedesimazione organica, loperato del
medico dipendente inserito nellorganizzazione del servizio, che con il suo operato,
nellesecuzione non diligente della prestazione sanitaria, ha causato danni al
privato che ha richiesto ed usufruito del servizio. Questo orientamento desume che vanno
applicate analogicamente le norme che regolano la responsabilità in tema di prestazione
professionale medica in esecuzione di un contratto dopera professionale; in
particolare quella di cui allart. 2236 c.c.
Inoltre nel valutare la natura della responsabilità del medico il predetto
orientamento rileva che, "per lart. 28 Cost., accanto alla responsabilità
dellente esiste la responsabilità del medico dipendente; che tali responsabilità
hanno entrambe radice nellesecuzione non diligente della prestazione sanitaria del
medico, nellambito dellorganizzazione sanitaria, che, stante detta comune
radice, la responsabilità del medico dipendente è come quella dellente pubblico di
tipo professionale contrattuale; che pertanto ad essa vanno applicate analogicamente le
norme che regolano la responsabilità del medico in tema di prestazione professionale, in
esecuzione di un contratto dopera professionale."
La sentenza n. 589/1999 non ritiene tuttavia che il predetto orientamento, pur
riconoscendo la natura contrattuale della responsabilità del medico di enti pubblici, sia
esaustivo nel motivare il fondamento della tesi ed adotta un terzo orientamento che
peraltro si conclude anchesso, pur con diverse motivazioni, affermando la
responsabilità contrattuale del medico dipendente dallente pubblico.
Ritiene infatti la sentenza n.589/1999 che non possa essere considerato esaustivo il
richiamo allart. 28 della Costituzione il quale si limita ad affermare una
responsabilità diretta dei funzionari e dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici
per gli atti compiuti con violazione dei diritti, rinviando però alle leggi penali,
civili ed amministrative. Tale norma non stabilisce la natura della responsabilità - che
è rimessa alle leggi ordinarie - ma solo sulla natura diretta di essa.
La natura di una responsabilità contrattuale od extracontrattuale - afferma la
sentenza, "va determinata non sulla base della condotta in concreto tenuta dal
soggetto agente, ma sulla base della natura del precetto che quella condotta viola".
La questione non può essere risolta, osserva la Corte, richiamando il fatto che la
responsabilità del medico e quella dellente gestore hanno radice
nellesecuzione non diligente della prestazione sanitaria da parte del medico
dipendente, nellambito dellorganizzazione sanitaria. Nellordinamento
italiano, infatti, una stessa condotta può violare due o più precetti, uno di natura
contrattuale ed uno di natura extracontrattuale, fondando quindi due diverse
responsabilità.
Pertanto la citata comune radice della responsabilità del medico e dellente gestore
del servizio sanitario pur costituendo un importante elemento fattuale, non comporta di
per sé che le responsabilità di entrambi i soggetti siano di natura contrattuale di tipo
professionale, come pare desumersi dallorientamento giurisprudenziale che fa capo
alla citata sentenza n. 2144 del 1988. La stessa considerazione dellunicità della
"radice" è ritenuta, dalla sentenza in epigrafe, la base dei tentativi di
soluzione proposti da quella parte della dottrina che sostiene la natura contrattuale
della responsabilità del medico pubblico dipendente.
Altra, secondo la sentenza n. 589/1999, è invece la motivazione che deve essere addotta.
"Lattività diagnostica e terapeutica rileva la Corte
- è dovuta nei confronti del paziente, nellambito di un preesistente rapporto, sia
dallente ospedaliero sia dal medico dipendente, ma da ciascuno di questi sotto un
diverso profilo e nei confronti di un diverso soggetto. Quanto allente
ospedaliero, lattività è dovuta nei confronti del paziente quale prestazione che
lente si è obbligato ad adempiere con la conclusione del contratto dopera
professionale.
Quanto al medico dipendente, lattività è dovuta nei confronti dellente
ospedaliero nellambito del rapporto di impiego che lo lega allente e quale
esplicazione della funzione che è obbligato a svolgere".
Lorientamento dottrinale più recente, cui alla fine la sentenza n. 589/1999 si
richiama, per aderirvi, ha ritenuto che nei confronti del medico, dipendente ospedaliero,
si configuri pur sempre una responsabilità contrattuale nascente da
"unobbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto", in
quanto poiché sicuramente sul medico gravano gli obblighi di cura impostigli
dallarte che professa, il vincolo con il paziente esiste, nonostante non dia adito
ad un obbligo di prestazione, e la violazione di esso si configura come culpa in non
faciendo, la quale dà origine a responsabilità contrattuale.
Rilevato "che non si può criticare la definizione come contrattuale
della responsabilità del medico dipendente di struttura sanitaria, limitandosi ad
invocare la rigidità del catalogo delle fonti ex art. 1173 c.c., che non consentirebbe
obbligazioni contrattuali in assenza di contratto" osserva la sentenza che la più
recente ed autorevole dottrina ha messo in evidenza "che lart. 1173 c.c.,
stabilendo che le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito o da altro atto o
fatto idoneo a produrle in conformità dellordinamento giuridico, consente di
inserire tra le fonti principi, soprattutto di rango costituzionale (tra cui, con
specifico riguardo alla fattispecie, può annoverarsi il diritto alla salute), che
trascendono singole proposizioni legislative". E quindi, inserendo il concetto di
"contatto sociale" con cui emblematicamente è stata designata la
sentenza, richiama" i casi di rapporti che nella previsione legale sono di origine
contrattuale e tuttavia in concreto vengono costituiti senza una base negoziale e talvolta
grazie al semplice contatto sociale (secondo unespressione che risale
agli scrittori tedeschi), si fa riferimento, in questi casi al "rapporto
contrattuale di fatto o da contatto sociale".
Si può ammettere dunque "che le obbligazioni possano sorgere da rapporti
contrattuali di fatto, nei casi in cui taluni soggetti entrano in contatto, senza che tale
contatto riproduca le note ipotesi negoziali, e pur tuttavia ad esso si ricollegano
obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli
interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso. In
questi casi non può esservi (solo) responsabilità aquiliana, poiché questa non nasce
dalla violazione di obblighi ma dalla lesione di situazioni giuridiche soggettive altrui
(è infatti ormai acquisito che, nellambito dellart. 2043 c.c.,
lingiustizia non si riferisce al fatto, ma al danno); quando ricorre la violazione
di obblighi, la responsabilità è necessariamente contrattuale, poiché il soggetto non
ha fatto (culpa in non faciendo) ciò a cui era tenuto in forza di un precedente vinculum
iuris, secondo lo schema caratteristico della responsabilità contrattuale".
La sentenza ricorda a questo punto che il medico svolge "una professione cd.
protetta (cioè una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione da
parte dello Stato, art. 348 c.p.)" che ha per oggetto beni costituzionalmente
garantiti ed incide sul bene della salute, tutelato dallart. 32 della Costituzione.
Ed aggiunge "a questo tipo di operatore professionale la coscienza sociale, prima
ancora che lordinamento giuridico, non si limita a chiedere un non facere e cioè il
puro rispetto della sfera giuridica di colui che gli si rivolge fidando nella sua
professionalità, ma giustappunto quel facere nel quale si manifesta la perizia che ne
deve contrassegnare lattività in ogni momento (labilitazione
allattività, rilasciatagli dallordinamento, infatti, prescinde dal punto
fattuale se detta attività sarà conseguenza di un contratto o meno)".
La prestazione sanitaria del medico nei confronti del paziente "non può che essere
sempre la stessa, vi sia o meno alla base un contratto dopera professionale tra i
due. Ciò è dovuto al fatto che, trattandosi dellesercizio di un servizio di
pubblica necessità, che non può svolgersi senza una speciale abilitazione dello
Stato, da parte di soggetti di cui il pubblico è obbligato per legge a
valersi (art. 359 c.p.), e quindi trattandosi di una professione protetta,
lesercizio di detto servizio non può essere diverso a seconda se esista o meno un
contratto".
Conclude la sentenza, su questo punto, affermando che, in base a tutte le argomentazioni
addotte - talune soltanto ricordate in questa nota - "la responsabilità
dellente gestore del servizio ospedaliero e quella del medico dipendente hanno
entrambe radice nellesecuzione non diligente o errata della prestazione sanitaria da
parte del medico, per cui, accertata la stessa, risulta contestualmente accertata la
responsabilità a contenuto contrattuale di entrambi (qualificazione che discende non
dalla fonte dellobbligazione, ma dal contenuto del rapporto)".
4. La soluzione della questione adottata dalla sentenza n. 589/1999
produce i suoi effetti sui veri nodi della responsabilità del medico e cioè il grado
della colpa e la ripartizione dellonere probatorio. Il medico-chirurgo, pertanto,
"nelladempimento delle obbligazioni inerenti alla propria attività
professionale è tenuto ad una diligenza che non è solo quella del buon padre di
famiglia, come richiesto dallart. 1176, c. 1°, ma è quella specifica del debitore
qualificato, come indicato dallart. 1176, c. 2°, la quale comporta il rispetto di
tutte le regole e gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della
professione medica".
Riportata la responsabilità del medico, dipendente della struttura sanitaria, nei
confronti del paziente nellambito della responsabilità contrattuale - aggiunge
ancora la sentenza - trova applicazione diretta lart. 2236 c.c., a norma del quale,
qualora la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà,
il prestatore dopera risponde dei danni solo in caso di dolo o colpa grave, senza la
necessità di effettuarne unapplicazione analogica, come pure era avvenuto da parte
dellorientamento che sosteneva la responsabilità extracontrattuale del medico
dipendente (Cass.11.8.1990, n. 8218; Cass. 7.5.1988, n. 3389; Cass. 5.4.1984, n.
2222)". Ricorda ancora la sentenza la limitazione che dalla nota sentenza della Corte
Costituzionale n. 166 del 28 novembre 1973 era stata posta allart. 2236 c.c.
ritenendovi inclusa esclusivamente la perizia professionale richiesta, per la
soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, con esclusione
dellimprudenza e della negligenza.
Pertanto il professionista risponde anche per colpa lieve quando per omissione di
diligenza ed inadeguata preparazione provochi un danno nellesecuzione di un
intervento operatorio o di una terapia medica.
Unaltra conseguenza della conclusione della Corte circa la natura contrattuale della
responsabilità del medico di ente pubblico riguarda ovviamente anche la (per lui) sfavorevole
ripartizione dellonere probatorio, che pone in capo al paziente, in ordine alla
condotta del medico, lonere di provare che il trattamento era di facile o routinaria
esecuzione nel quale caso "non si verifica un passaggio da obbligazione di mezzi
in obbligazione di risultato, che sarebbe difficile dogmaticamente da giustificare a meno
di negare la stessa distinzione tra i due tipi di obbligazioni (come pure fa gran parte
della recente dottrina), ma opera il principio res ipsa loquitur, ampiamente
applicato in materia negli ordinamenti anglosassoni (dove la responsabilità del medico è
sempre di natura aquiliana), inteso come quellevidenza circostanziale che crea
una deduzione di negligenza". "Incombe invece al professionista, che
invoca il più ristretto grado di colpa di cui allart. 2236 c.c., provare che la
prestazione implicava la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà", e
che "linsuccesso delloperazione non è dipeso da un difetto di diligenza
propria (Cass. 30.5.1996, n. 5005; Cass. 18.11.1997, n. 11440; Cass. 11.4.1995, n. 4152).
"mentre incombe al paziente danneggiato provare quali siano state le modalità di
esecuzione ritenute inidonee (Cass. 4.2.1998, n. 1127; Cass. 3.12.1974, n. 3957)".
Su questultima affermazione della sentenza n. 589/1999 occorre tuttavia fare
osservare che altre sentenze della Suprema Corte ponendo in capo al danneggiato
lonere di provare il danno, il nesso di causalità materiale e lassenza di
speciale difficoltà, invertendosi a quel punto lonere della prova, affermano che la
colpa del professionista si presume salvo sua dimostrazione della correttezza
professionale della sua condotta.
Conclude infine la sentenza su questi importanti aspetti sottolineando che "omologhe
le responsabilità della struttura sanitaria e del medico come responsabilità entrambe di
natura contrattuale, sia ai fini della rilevanza del grado della colpa che della
ripartizione dellonere probatorio, non esiste una differenza di posizioni tra i due
soggetti, né per leffetto una diversa posizione del paziente a seconda che agisca
nei confronti dellente ospedaliero o del medico dipendente".
5. La sentenza annotata è stata riportata in suoi ampi stralci per poter svolgere, sia pure brevemente, alcune considerazioni.
I. La prima considerazione, sicuramente la più importante,
riguarda le influenze negative che questo indirizzo (peraltro sottoposto a critica
da non pochi giuristi) eserciterà sulla professione medica riflettendosi
pericolosamente anche sulla salute dei pazienti.
L'aumento progressivo e preoccupante del contenzioso giudiziario - che non esprime in
alcun modo un peggioramento della qualità delle prestazioni mediche bensì in gran parte
dei casi la non accettazione dei rischi connessi alle malattie ed ai trattamenti
medico-chirurgici - e la riduzione sempre maggiore operata dalla giurisprudenza degli
spazi di difesa del medico, stanno spingendo quest'ultimo sul terreno della cosiddetta
Medicina Difensiva. Si tratta dell'adozione di condotte professionali non ispirate, come
dovrebbe essere, unicamente al bene del paziente bensì condizionate dal timore di
conseguenze giudiziarie del proprio operato e tradotte quindi in eccessi di prescrizioni
ovvero in scelte cautamente omissive.
Questa reazione difensiva dei medici - certamente di segno negativo - è destinata a
crescere di fronte all'orientamento recentemente assunto dalle compagnie di assicurazione
che, a causa dei cattivi risultati economici del settore, tendono a disdire le polizze
ovvero a rifiutarne la stipula o comunque a restringere la garanzia. E' evidente che
l'estensione ai medici del servizio sanitario nazionale della responsabilità contrattuale
, che riduce notevolmente le possibilità di difesa da ingiuste o non provate accuse di
violazione del contratto (cfr. infra 9), non potrà che accelerare questo
orientamento delle compagnie di assicurazione.
II. La seconda considerazione (che in ultima analisi si
ricollega alla precedente) riguarda la durata inaccettabile dei processi e la loro
possibile conclusione dopo un arco di tempo durante il quale la giurisprudenza è mutata
giungendo alla fine del suo iter a giudicare la condotta del medico con criteri modificati
rispetto a quelli che la giurisprudenza avrebbe ritenuto validi all'epoca del fatto.
La vicenda clinica che ha provocato la sentenza in epigrafe costituisce in proposito un
esempio rilevante ed inequivoco. Il fatto risale allagosto 1967, la sentenza della
Corte di Cassazione giunge dopo 32 anni. E attendibile che questa durata, maggiore
di altre già lunghe per proprio conto, sia da addebitare ai mutamenti avvenuti in Roma a
seguito dellestinzione del Pio Istituto di S. Spirito cui apparteneva il nosocomio
citato in giudizio. Tuttavia, qualunque sia stata la causa dell'enorme ritardo - del resto
non raro - sta di fatto che i principi che la Corte di Cassazione ha individuato nel
1998-1999, pur analoghi nella sostanza anche a precedenti sentenze della Corte, vengono
applicati dopo un lasso di tempo che ha mutato i criteri di riferimento.
Non si comprende infatti su quale certezza del diritto abbia potuto fare
affidamento il medico citato in giudizio, il quale nel 1967 rispondeva a titolo di
responsabilità extracontrattuale (perché quello era l'orientamento giurisprudenziale
dell'epoca) e si ritrova dopo 32 anni a rispondere invece per responsabilità
contrattuale, magari con lelegante motivazione del "contatto sociale": con
le relative conseguenze specie in ordine alla ripartizione dell'onere probatorio che, come
ricorderemo tra poco, rappresenta il nodo medico-legale della responsabilità medica in
sede civile.
Il tormentato percorso del diritto vivente relativo alla responsabilità medica, che si è
evoluto restringendo progressivamente lo spazio di difesa dei medici nei confronti di
richieste risarcitorie (oltreché di denunce penali) per danni spesso correlati unicamente
alla rischiosità intrinseca degli stati di malattia da curare ed alla rischiosità degli
stessi trattamenti farmacologici e chirurgici, porta continuamente i sanitari ad
apprendere da tardive sentenze quale avrebbe dovuto essere la loro condotta e quali i
criteri per giudicarla.
Nel volgere dei decenni cambia la medicina, cambiano gli ospedali, le coperture
assicurative degli enti e dei medici diventano progressivamente insufficienti e alla fine
drammaticamente irrisori a fronte di richieste risarcitorie che i soli interessi hanno
fatto lievitare in misura esponenziale.
Potremmo forse dichiararci fiduciosi, per incompetenza giuridica, nelle motivazioni
fornite dalla sentenza qui annotata e da altre consimili che testimoniano sicuramente
l'impegno dei Giudici di legittimità in una materia così complessa. Ma quanto alla
valutazione che da cittadini, e da medici, possiamo dare di una Giustizia che si vorrebbe
regolata da norme di riferimento note e conoscibili - e non variabili continuamente solo
in forza dellevoluzione dottrinale e giurisprudenziale - questa non può essere che
molto negativa.
La Giustizia versa indiscutibilmente in grave stato di malattia, perlomeno
nellambito dei giudizi penali e civili sui casi di asserita responsabilità medica.
I medici, pertanto, si aspettano con sempre maggiore preoccupazione qualche intervento che
possa in qualche misura restituire la serenità necessaria ad esercenti di una professione
sempre più delicata e difficile.
III. La terza considerazione che la lettura della sentenza ci ispira
è di natura metodologica medico-legale ed è ovviamente quella che maggiormente
riguarda la nostra competenza. Essa, invero, implica solo un richiamo ad
osservazioni e riflessioni già esposte di recente inerenti le conseguenze sulla
metodologia della consulenza medico-legale connesse alla natura contrattuale della
responsabilità degli enti sanitari e dei medici.
La stessa sentenza in epigrafe richiama, nella sua ultima parte, le conseguenze che
derivano da questa conclusione. Per quanto ci riguarda, come medici legali, la massima
importanza deve attribuirsi alla diversa ripartizione dell'onere probatorio che
consegue alla natura contrattuale della responsabilità medica, tema che da oltre
vent'anni la Cassazione aveva impostato senza più modificare il proprio orientamento.
Tale ripartizione è diversa da quella che invece sussiste nell'illecito civile che
configura responsabilità extracontrattuale, nella quale la parte attrice deve dimostrare
sia il danno che la colpa del convenuto.
Nella responsabilità contrattuale, invece, l'onere probatorio del
danneggiato si alleggerisce e quello del convenuto, ente e medico dipendente, si
appesantisce. Poiché di fatto una parte centrale, ed in genere decisiva, delle prove,
risiede nella consulenza medico-legale, è nella sua metodologia che si riflette la
riversa ripartizione dell'onere probatorio.
Queste conseguenze, per ovvi motivi, sono diverse per quanto riguarda i consulenti
delle parti. Infatti il consulente di parte attrice si avvale della facilitazione
probatoria concessa al danneggiato, mentre al contrario il consulente del convenuto
condivide con quest'ultimo situazioni che spesso confinano con la probatio diabolica.
Infatti l'onere probatorio che nella responsabilità contrattuale è posto in capo
all'attore è limitato a provare:
il danno o maggior danno;
il nesso di causalità materiale con il trattamento medico-chirurgico;
il carattere routinario della prestazione e comunque l'assenza di speciale difficoltà.
Se tale onere è assolto positivamente, si inverte l'onere è spetta a
parte convenuta dimostrare, a contrario, di aver assolto con adeguatezza tecnica,
diligenza e prudenza la propria obbligazione e che non sussisteva alcuna "speciale
difficoltà".
Se tale prova contraria non è fornita la colpa si presume, perlomeno secondo
quanto affermano alcune sentenze e la stessa sentenza qui annotata. In questa si legge
infatti : " Nel caso di intervento di facile esecuzione, non si verifica un
passaggio da obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato, che sarebbe difficile
dogmaticamente da giustificare a meno di negare la stessa distinzione tra i due tipi di
obbligazioni (come pure fa gran parte della recente dottrina), ma opera il
principio res ipsa loquitur, ampiamente applicato in materia negli ordinamenti
anglosassoni (dove la responsabilità del medico è sempre di natura aquiliana), inteso
come 'quell'evidenza circostanziale che crea una deduzione di negligenza'".
Appare dunque di chiara evidenza come sia spesso - ma non sempre - facile dimostrare che
dopo il trattamento il paziente presenta un danno in precedenza assente (nel caso
di malattie iatrogene insorte ex novo dopo il trattamento) o di maggior danno
rispetto ala patologia che ha richiesto il trattamento; e che tale danno o maggior danno
è in nesso di causalità materiale con la prestazione sanitaria. Altrettanto
facile è, nella gran parte dei casi, dimostrare l'assenza della speciale difficoltà
della prestazione d'opera in ragione dell'interpretazione molto restrittive riservata
a tale concetto contenuto nell'art. 2236 c.c.. Il consulente di parte attrice,
dunque, se non dispone di argomenti tecnici per dimostrare il carattere colposo del
convenuto, è comunque in grado di aiutare il proprio assistito nell'assolvere il proprio
onere probatorio, limitato, come già detto, in ambito di responsabilità contrattuale.
Al contrario il consulente di parte convenuta è spesso nella oggettiva difficoltà
sia di contrastare le argomentazioni probatorie relative al danno, al nesso causale ed
alla speciale difficoltà: ma ben maggiori ostacoli, spesso insormontabili, incontra nel
dimostrare la correttezza professionale e ciò a causa della natura stessa delle prove
tecniche richieste, spesso non disponibili di fatto e causa del dinamismo stesso delle
prestazioni e della mancanza di documentazione diretta delle modalità con cui sono state
fornite: non bastano certo le annotazioni contenute nelle cartelle cliniche e le
testimonianze spesso generiche.
Il consulente di ufficio può trovarsi anch'egli, in definitiva, nella comoda
posizione del consulente di parte attrice: a condizione che i quesiti che gli vengono
affidati dal Giudice rispettino la sequenza che deriva dalla predetta ripartizione
dell'onere probatorio.
In ambito di responsabilità medica civile contrattuale è dunque doveroso, e non soltanto
possibile, porre in quesiti in due gruppi successivi.
Il primo gruppo di quesiti deve includere la natura della malattia e dei
trattamenti diagnostici subiti dal paziente; l'accertamento del danno o maggior danno; il
nesso di causalità materiale tra i trattamenti ed il danno; la natura routinaria
della prestazione medica ovvero la sussistenza di "speciale difficoltà" della
prestazione d'opera.
Il secondo gruppo di quesiti deve invece riguardare la qualità della condotta
professionale del convenuto ed il nesso causale tra quelle fasi della condotta di cui si
individuasse un connotato colposo, commissivo od omissivo, ed il danno.
Può accadere che il CTU non sia in possesso di dati che consentano una risposta
motivata al secondo gruppo di quesiti, ma soltanto a quelli del primo gruppo. Questo
tipo di "prodotto peritale" incompleto, è tuttavia sufficiente a fornire a
parte attrice quanto basta per assolvere al proprio onere probatorio in quanto, se il
convenuto non è in grado di fornire la prova della propria adeguatezza professionale la
colpa si presume e parte attrice raggiunge il proprio scopo. Una scelta di questo
tipo, che a nostro avviso è ormai da ritenere indispensabile quando sia in discussione
una responsabilità professionale contrattuale, eviterebbe forse a molti consulenti
d'ufficio di inoltrarsi negli impervi, impropri sentieri di risposte, positive o negative,
sul carattere colposo della condotta del medico, anche in assenza di elementi di giudizio
concreti ed affidabili.
6. La nuova tappa segnata dalla sentenza in epigrafe - che consolida
del resto un indirizzo ormai decennale sia pure con motivazioni giuridiche diverse - non
è stata a sufficienza resa nota nel mondo medico che, del resto, potrebbe non
comprenderne appieno la portata in termini di pericolosità. Le compagnie di assicurazione
ne sono ovviamente consapevoli e i loro orientamenti per il prossimo futuro ne terranno
sicuramente conto nel contesto di un ramo che è da tempo in sofferenza economica
rilevante.
Non ci stancheremo di invocare una riesame globale del problema della responsabilità dei
medici nella quale un diritto vivente senza più freni - se non episodici - grava ormai
come una minaccia su vaste aree delle professioni sanitarie, le più delicate e cruciali,
minacciando conseguentemente tutto il funzionamento della sanità pubblica e privata. E'
un allarme che deve essere lanciato con sempre maggiore preoccupazione, sperando in una
presa di coscienza collettiva, che deve coinvolgere primariamente il legislatore ed i
giudici: prima che sia troppo tardi.
Angelo Fiori - Ernesto d'Aloja