Gennaio
2001

"PILLOLE"
DI MEDICINA TELEMATICA

Patrocinate
da
- SIMG-Roma
 
-A.S.M.L.U.C.
- eDott.it

  Periodico di aggiornamento e varie attualita' a cura di: 
Daniele Zamperini md8708@mclink.it, Amedeo Schipani mc4730@mclink.it,
Bollettino inviato gratuitamente su richiesta. Archivio consultabile su: http://utenti.tripod.it/zamperini/pillole.htm (Visitate anche le altre pagine, sono ricche di informazioni!). Il nostro materiale e' liberamente utilizzabile per uso privato, purche' se ne citi la fonte. Riproduzione e pubblicazione riservata.


INDICE GENERALE

  PILLOLE

MINIPILLOLE

  NEWS  

APPROFONDIMENTI

MEDICINA LEGALE E NORMATIVA SANITARIA
Rubrica gestita dall' ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale Universita' Cattolica


Pillola triste

L' amico carissimo Massimo Angeloni, entusiasta collaboratore, per un certo periodo, delle nostre Pillole, e' tragicamente mancato. Vorremmo dedicare questo numero a lui, al suo calore umano, all' entusiasmo fanciullesco che metteva in ogni sua azione.
Addio, amico, che la terra possa esserti leggera.


PILLOLE

Documento di consenso: nuovi criteri diagnostici del diabete mellito
Come gia’ e’ noto nel 1997 negli Stati Uniti e’ stato pubblicato un documento (del A.D.A.) appartenente ai nuovi criteri diagnostici del diabete mellito che rivoluzionavano i criteri precedenti. Tali criteri non venivano immediatamente recepiti dagli organismi internazionali (O.M.S. o a Societa’ scientifiche europee) in quanto si ritenne di dover verificare alcuni aspetti non ben definiti. Nel Marzo 2000 e’ stata tenuta a Mantova una "Consensus Conference" organizzata dalla Societa’ Italiana di Diabetologia per esprimersi sull’adozione dei nuovi criteri diagnostici.
Sonostati approvati a larga maggioranza 10 punti:

  1. Il diabete mellito si riscontra mediante glicemia digiuno = o > 126 mg/dl. Il dato va confermato con un secondo dosaggio. Il limite e’ valido anche per il diabete gestazionale. Per la diagnosi e’ sufficiente anche una glicemia casuale > a 200 con sintomi tipici di diabete.
  2. Una glicemia = o > a 200 mg/dl due ore dopo un carico orale di glucosio di 75g diagnostica un diabete mellito anche in presenza di glicemia a digiuno < ai 126 mg/dl. Il dato va confermato in una seconda occasione.
  3. Una glicemia compresa tra 140 e 199 mg/dl due ore dopo un carico orale di glucosio configura una condizione di ridotta tolleranza glucidica. Il dato va confermato in una seconda occasione.
  4. Una glicemia a digiuno compresa tra 110 e 125 conferma una presenza di alterata glicemia a digiuno. Il dato necessita di conferma in una seconda occasione.
  5. Si raccomanda fortemente l’individuazione dei soggetti che pur avendo glicemia a digiuno inferiore a 126 mg presentino una glicemia dopo carico > ai 200 mg in quanto essi sono a tutti gli effetti diabetici in quanto sviluppano complicanze croniche in maniera non diversa da quello che accade nei soggetti con glicemia a digiuno > di 126 mg.
  6. Si raccomanda l’identificazione della ridotta tolleranza glucidica in quanto tale condizione si traduce in un aumento rischio di diabete e di malattie cardiovascolari. Si raccomanda in questi soggetti l’esecuzione annuale di un carico orale di glucosio per svelare la progressione a diabete mellito.
  7. Si raccomanda l’identificazione dei pazienti con alterata glicemia a digiuno (110/125 mg/dl) in quanto tale condizione si traduce in una aumentato rischio di diabete mellito e in malattie cardiovascolari. Tale condizione non va confusa con la ridotta tolleranza glicidica in quanto, se associata a normale tolleranza glucidica, presenta un rischio di diabete e di malattie cardiovascolari inferiore a quello dei soggetti con ridotta tolleranza glucidica. Per tale motivo in questi soggetti e’ raccomandata l’esecuzione annuale del carico orale di glucosio.
  8. E’ raccomandata la misurazione della glicemia a digiuno con intervalli di tempo non superiori a tre anni in tutti i soggetti di eta’ superiore a 45 anni.
  9. E’ raccomandata una misurazione piu’ frequente della glicemia a digiuno e una periodica esecuzione del carico orale anche prima dei 45 anni di eta’ negli individui a rischio: famigliari di I grado di diabetici, soggetti con BMI > di 25, ipertesi, dislipidemici, donne con pregresso diabete gestazionale, donne che hanno partorito un feto di peso superiore a 4 kg.
  10. Per la diagnosi della ridotta tolleranza glucidica e del diabete mediante carico orale e‘ sufficiente misurare la glicemia due ore dopo l’assunzione di 75g di glucosio per via orale.

E’ stata confermata la suddivisione di diabete di tipo 1 (nelle varianti autoimmune e idiopatico) diabete di tipo 2, diabete gestazionale e altri tipi di diabete (difetti genetici nella funzione cellulare, nell’azione insulinica, da malattie del pancreas esocrine, ecc.).
Daniele Zamperini. Fonte: "Il Diabete" vol. 12 - n. 3 - Settembre 2000

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Statine utili nell'Alzheimer?
Data l' attenzione che si pone sempre di piu' sul morbo di Alzheimer e sulla sua crescnte importanza sulla salute pubblice e sull' economia sanitaria mondile, alcune ricerche hanno fatto recentemente scalpore:
La prima, effettuata a Chicago avrebbe dimostrato come alcuni farmaci finora utilizzati per tutt' altra patologia (certi farmaci ipocolesterolemici: le statine) siano capaci di prevenire il morbo di Alzheimer e di ridurre anche il rischio di demenza: i ricercatori hanno analizzato l’incidenza dell’ Alzheimer in oltre 60.000 pazienti che avevano assunto statine confrontandola con la diffusione della malattia nella popolazione generale. I soggetti assumevano lovastatina, pravastatina o sinvastatina. I dati provenivano da soggetti di eta’ superiore a 60 anni provenienti da tre diversi ospedali. Veniva effettuato anche un confronto con persone che avevano assunto farmaci per la prevenzione cardiovascolare ma che non fossero di tipo anticolesterolemico.
Secondo i ricercatori l’uso di lovastatina e provastatina riduceva di oltre il 70% la probabilita’ di ammalarsi di Alzheimer rispetto alla popolazione generale che al gruppo che aveva preso altri farmaci.
Deludente invece e’ stato il risultato della sinvastatina, anche se la struttura dei farmaci e’ piuttosto simile e l’efficacia farmacologica sull’ assetto lipidico e’ la medesima. La spiegazione di questa differenza secondo i ricercatori risiederebbe in una diversa azione di questo farmaco a livello dei vasi cerebrali ma l’ipotesi e’ ancora da verificare.
Un secondo studio, di tipo epidemiologico su 300 persone e’ stato condotto sulla base dei registri del "General Practice Researc Database" del Regno Unito. Sono stati confrontati i dati di questi soggetti, colpiti da varie forme di demenza, e sono stati posti a confronto con quelli di circa 1000 persone della stessa eta' mentalmente sane. Come gruppo di riferimento e’ stato preso un gruppo di persone che non soffrivano di iperlipidemie e non facevano uso di statine.
Fatte le correzioni per i vari fattori di rischio noti, il rischio di demenza non si modificava ne’ nei casi di iperlidemia non trattata ne’ in caso di uso di farmaci ipolipemizzanti di tipo diverso dalle statine. Chi invece presentava iperlipidemie e si curava con statine mostrava un calo del rischio di circa il 70%. Tale percentuale corrisponde a quella riscontrata nel primo studio citato sopra. Un punto debole di questo studio e' costituito pero' dal fatto che non veniva differenziata la demenza tipo Alzheimer da altri tipi eventuali di demenza. Il miglioramento riscontrato non sarebbe percio' tipico dell' Alzheimer ma coinvolgerebbe forme di demenza di tipo vascolare o di altro genere.
Si e’ aperto tuttavia un settore di notevole importanza dato l’elevato numero di soggetti e la mancanza di alternative terapeutiche tuttora presenti.

B. Wolozin e al.  Archives of Neurology 2000;57:1439-1443.
H. Jich e al. "Statins and the risch of dementia" Lancet 2000;356:1627-1631)
Rielaborazione di DZ

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Non cambiano i costumi alimentari americani
Benche’ esista da lungo tempo una campagna tesa a informare la popolazione dell’utilita’ di una corretta alimentazione e dei suoi risvolti positivi per la salute, non sempre i risultati ottenuti rispecchiano l’impegno. Da anni negli Stati Uniti e’ stato posto l’accento sull’importanza di una equilibrata alimentazione in cui vengano accuratamente calcolate le quantita’ ottimali di componenti alimentari come grassi, fibre, frutta, verdura e sale. Le analisi dei comportamenti alimentari dei consumatori ha pero’ evidenziato (cosa del resto gia’ ben visibile anche all’ osservazione empirica) come per coloro che iniziano un trattamento dietetico, dopo poche settimane di scrupolosi conteggi di calorie e di attenti dosaggi degli alimenti durante i pasti, si crei invece una situazione di abbandono e di distacco dalle buone regole appena imparate. Si e’ cercato di modificare tale processo con imponenti campagne di informazione e di istruzione ma, malgrado tali impegni, i comportamenti alimentari americani negli ultimi anni sono ben poco modificati: soltanto il 25% della popolazione americana consuma grassi nelle quantita’ raccomandate mentre ben il 75% ne assume in quantita’ eccessiva con conseguenze negative sulla colesterolemia, sul peso, e di conseguenza sull’apparato cardiovascolare. Alcuni alimenti come fibre, frutta e verdura sono consumate in quantita’ adeguate dai giovani di entrambi i sessi mentre, per fare un esempio, solo il 35% delle donne sopra i 60 anni segue adeguatamente tali indicazioni. Per quanto riguarda il sale poi soltanto il 20% della popolazione americana sembra seguire le dosi raccomandate mentre un 80% ne consuma certamente in eccesso. L’attenzione sulla qualita’ della dieta e’ superiore generalmente nella popolazione bianca ed e’ molto inferiore nella popolazione di colore (afro-americani, ispanici, ecc.).
Queste ricerche confermano quanto sia difficile abbandonare vecchie abitudini anche se le nuove sono piu’ corrette e piu’ sane. Questo perche’ la dieta e’ fortemente influenzata dagli usi e dalle tradizioni ed ha quindi una forte valenza culturale. Per riuscire a modificare efficacemente certi comportamenti e’ necessario lavorare non solo accentuando i lati negativi di una cattiva alimentazione ma influendo sulle abitudini che si mettono in atto nella preparazione del cibo stesso con idonee tecniche psicologiche e comportamentali. E’ possibile che soltanto promuovendo una nuova cultura del cibo, con strategie di convincimento e di convinzioni adeguate puo’ essere possibile che i cambiamenti nelle abitudini alimentari diventino duraturi e benefici.

Daniele Zamperini. Fonte: Paola Chiambretto "Psicologia contemporanea" Novembre-Dicembre 2000 n. 162

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Le pillole anticoncezionali non sono uguali per il tumore
Molto e’ stato discusso sul fatto se il supplemento di estrogeni fornito con le pillole anticoncezionale costituisse causa di un aumento di rischio di neoplasie mammaria. Gli studi finora effettuati non hanno dimostrato una cancerogenicita’ di tali prodotti; poiche’ sono state recentemente scoperte delle mutazioni genetiche (geni BRCA1 e BRCA2) che erano collegate a un aumento di rischio di tumore della mammella, un gruppo di ricercato americani hanno voluto indagare nell’insorgenza della neoplasia mammaria sotto il duplice aspetto della familiarita’ e dell’assunzione di anticoncezionali. Sono state indagate per questo motivo piu’ di 420 famiglie discendenti da donne a cui era stato diagnosticato un tumore tra il 1944 e il 1952. Sono stati presi in considerazione l’uso di anticoncezionali, l’eta’, le gravidanze, la menopausa, il fumo e altri fattori confondenti. E’ stato evidenziato che le donne che avevano assunto contraccettivi orali prima del 1975 avevano una probabilita’ di ammalarsi di tumore della mammella tre volte maggiore rispetto al resto della popolazione se erano figlie o sorelle di donne che avevano avuto lo stesso tipo di neoplasia. La probabilita’ aumentava con il numero di famigliari affetti da carcinoma mammario: nelle donne con 5 o piu’ casi in famiglia il rischio risultava moltiplicato per un fattore 11. Sembrerebbe percio’ che la pillola anticoncezionale agisse sinergicamente ai fattori familiari e genetici. Alle donne che invece avevano assunto la pillola anticoncezionale dopo il ’75 non e’ stato riscontrato alcun rischio aggiuntivo, neppure in presenza di famigliari affetti da carcinoma mammario. La causa di questa differenza "epocale" potrebbe essere legata al cambiamento di composizione della pillola avvenuta appunto nel ’75, allorche’ e’ stata ridotta drasticamente la dose degli estrogeni. Restano aperti numerosi interrogativi in quanto, le pillole di ultima generazione non sono state ancora testate per un periodo abbastanza lungo da fornire indicazioni conclusive; inoltre ci si chiede se l’effetto cancerogeno degli estrogeni sia specifico per le persone con caratteristiche genetiche particolari o se sia un meccanismo generico agente su tutte le donne. Non e’ ancora chiaro nemmeno se la diminuzione degli ormoni abbia in effetti ridotto l’incidenza del rischio.
In conclusione si consiglia un controllo piu’ stretto per tutte le donne che, avendo avuto in famiglia dei precedenti di carcinoma mammario, abbiano assunto anticoncezionali prima del 1975.

D. Zamperini. Fonte D. Grabrich e al. JAMA 2000; 284:1791-1798

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Aspirina a basso dosaggio e vitamina E in soggetti a rischio per malattie cardiovascolari
La Medicina Generale italiana può essere orgogliosa di questo lavoro, nato dalla collaborazione tra istituti scientifici (il Mario Negri di Milano, il consorzio Mario Negri Sud, lo CSeRMEG), medici di medicina generale e servizi ambulatoriali ospedalieri, senza sponsorizzazioni esterne.
Si tratta di uno studio controllato e randomizzato in aperto, condotto tra il 1994 e il 1998, fatto con lo scopo di valutare l’efficacia della terapia antiaggregante piastrinica e antiossidativa nella prevenzione primaria di eventi cardiovascolari in soggetti con uno o più fattori di rischio cardiovascolare. I fattori di rischio presi in considerazione sono stati ipertensione arteriosa, diabete mellito, ipercolesterolemia, obesità, familiarità per infarto miocardico prima dei 55 anni, età superiore a 65 anni. Come farmaci sono stati utilizzati aspirina alla dose di 100 mg/die e vitamina E alla dose di 300 mg/die. Sono state arruolati 4495 pazienti (di cui 2583 donne pari al 57.7%), con età media di 64.4 anni. 4258 pazienti (94.7%) sono stati reclutati negli studi di 315 medici di medicina generale in tutt’Italia, mentre 237 (5.3%) sono stati reclutati presso 15 centri ospedalieri per l’Ipertensione. Il follow-up medio è stato di 3.6 anni. 4150 pazienti hanno completato lo studio. Peraltro lo studio è stato interrotto prematuramente, prima della scadenza prevista, per motivi etici, alla luce dei risultati già ottenuti e di due grandi trials (il Thrombosis Prevention Trial e lo Hypertension Optimal Treatment study) recentemente pubblicati che hanno dato risultati simili.
Risultati. L’aspirina alla dose di 100 mg/die ha ridotto la mortalità cardiovascolare del 44% dopo 3.6 anni di follow-up, l’incidenza di morte per cause cardiovascolari è stata dell’1.4% nei pazienti che non prendevano aspirina e dello 0.8% in quelli che non la prendevano. Le corrispondenti proporzioni per gli eventi cardiovascolari totali sono state dell’8.2% e del 6.3%. Com’era prevedibile, il sanguinamento è stato più frequenti nei pazienti che assumevano aspirina (1.1% contro 0.3%, P < 0.0008). Però, su 5 ictus emorragici, 2 si sono avuti in pazienti trattati con aspirina e 3 in pazienti che non prendevano aspirina. La vitamina E non ha dimostrato nessun effetto sugli endpoint predefiniti.
Conclusioni. In persone a rischio di eventi cardiovascolari l’aspirina a basso dosaggio, somministrata in aggiunta alle terapie per specifici fattori di rischio, fornisce un effetto preventivo aggiuntivo, con un profilo di sicurezza accettabile. I risultati riguardanti la vitamina E confermano analoghi risultati negativi di altri grandi lavori già pubblicati.
A. Schipani: fonte:  Lancet, 13 gennaio 2001

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Terapia antiipertensiva e rischio di stroke ischemico
L’efficacia relativa dei vari farmaci antiipertensivi nei confronti dell’incidenza di ictus è incerta. Questo lavoro si propone di stabilire l’associazione tra primo ictus ischemico e uso di farmaci antiipertensivi.
Il lavoro consiste in uno studio di popolazione di tipo caso-controllo. Sono stati inclusi nello studio 380 pazienti ipertesi di età fra i 30 e i 79 anni in trattamento farmacologico, esenti da malattie cardiovascolari, che tra il 1° luglio 1989 e il 31 dicembre 1996 avevano subito un primo episodio di ictus ischemico, (21 fatali e 359 non fatali). Come controllo sono stati arruolati 2790 pazienti ipertesi senza storia di ictus. Sono state raccolte le informazioni sui fattori di rischio per ictus e sulla terapia antiipertensiva che i pazienti assumevano. L’associazione tra ictus ischemico e farmaci antiipertensivi è stata valutata separatamente per i soggetti con e senza malattie cardiovascolari.
Risultati. Fra i pazienti che utilizzavano un singolo farmaco e non avevano un’anamnesi positiva per patologie cardiovascolari il rischio aggiustato di ictus ischemico era più alto per quelli che prendevano un beta-bloccante (indice di rischio 2.03), un calcio-antagonista (2.30), o un ACE-inibitore (2.79), rispetto a quelli che prendevano solo un diuretico tiazidico. Fra i pazienti utilizzatori di un singolo farmaco con storia di patologia cardiovascolare gli indici di rischio erano rispettivamente 1.22, 1.18 e 1.45 in quelli che prendevano un beta-bloccante, un calcio-antagonista o un ACE-inibitore, rispetto a quelli che prendevano un diuretico tiazidico. L’uso di beta-bloccanti, calcio-antagonisti o ACE-inibitori in combinazione con un diuretico tiazidico non si associava in modo significativo ad aumento del rischio di ictus ischemico rispetto a coloro che assumevano un diuretico tiazidico in monoterapia. L’uso contemporaneo di 2 antiipertensivi qualsiasi con esclusione del diuretico tiazidico si associava ad un aumento di 2.48 volte del rischio di ictus ischemico, rispetto all’utilizzo del solo diuretico tiazidico.
Conclusioni. In questo studio su pazienti ipertesi in trattamento farmacologico, i regimi di farmaci antiipertensivi che non comprendevano un diuretico tiazidico erano associati ad un aumentato rischio di ictus ischemico, in confronto ai regimi che includevano un diuretico tiazidico. Questi risultati supportano l’uso dei diuretici tiazidici come farmaci antiipertensivi di prima scelta.
A. Schipani: fonte:Archives of Internal Medicine, 8 gennaio 2001

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ACE-inibitori (lisinopril) ed emicrania
La terapia dell’emicrania è tuttora insoddisfacente. Anche con i triptani molti pazienti hanno una risoluzione solo parziale dei sintomi, e un buon 30-40% non risponde affatto; in alcuni casi i triptani stessi provocano cefalea. Per questi pazienti, e comunque per i pazienti che hanno due o più attacchi di emicrania al mese, è indicata una terapia profilattica. Tra i farmaci che hanno dimostrato un certo effetto preventivo ci sono alcuni beta-bloccanti (propranololo), un antiepilettico (valproato di sodio), alcuni antagonisti dei recettori per la serotonina (pizotifene e metisergide), la flunarizina e parecchi farmaci antinfiammatori non steroidei. La maggior parte di questi farmaci ha però degli effetti collaterali che ne precludono l’utilizzo a lungo termine. C’è quindi bisogno di nuovi farmaci da utilizzare in profilassi, che siano più efficaci e meglio tollerati.
Alcune osservazioni sull’efficacia del lisinopril in alcuni casi di emicrania hanno spinto gli autori a fare uno studio randomizzato, in doppio cieco, controllato versus placebo, in crossover, sull’utilità del lisinopril nella prevenzione dell’emicrania. Sono stati arruolati sessanta pazienti (età 19-59 anni) che avevano da due a sei episodi di emicrania al mese. I partecipanti hanno tutti assunto placebo per un periodo iniziale di quattro settimane, per verificare la frequenza degli attacchi. Successivamente trenta pazienti hanno assunto lisinopril per 12 settimane (10 mg una volta al giorno la prima settimana, 10 mg due volte al giorno per le successive 11 settimane), quindi hanno fatto due settimane di wash out; dopo di ciò, per altre 12 settimane hanno assunto placebo con lo stesso schema. Gli altri trenta pazienti hanno seguito lo schema inverso, ossia prima placebo e poi lisinopril. Come end points primari sono stati considerati il numero di ore con cefalea, il numero di giorni con cefalea, il numero di giorni con emicrania. End points secondari sono stati l’indice di severità della cefalea, l’uso di farmaci sintomatici, la qualità della vita, il numero di giorni di malattia, l’accettabilità del trattamento.
Risultati. Quarantasette pazienti hanno completato l’intero periodo dello studio. Nei soggetti trattati con lisinopril, rispetto al placebo, il numero di ore con cefalea, il numero di giorni con cefalea, il numero di giorni con emicrania e l’indice di severità della cefalea si sono ridotti, in modo significativo, rispettivamente del 20%, 17%, 21% e 20%. Per 14 pazienti in trattamento attivo versus placebo si è avuta una riduzione del 50% del giorni con emicrania, e la stessa riduzione c’è stata per 17 pazienti in trattamento attivo in confronto al periodo iniziale di 4 settimane con placebo.
Conclusioni. L’ACE-inibitore lisinopril ha un’efficacia preventiva clinicamente importante nell’emicrania.

A. Schipani: fonte: British Medical Journal, 6 gennaio 2001

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Considerazioni sulla vitamina D
La produzione endogena di vitamina D è innescata dall'esposizione del corpo alla radiazione ultravioletta B (UVB). Pertanto, evitare l'esposizione ai raggi ultravioletti potrebbe provocare un deficit di vitamina D. D'altra parte, evitare l'esposizione ai raggi ultravioletti rappresenta un punto basilare nella prevenzione del cancro della pelle, che negli Stati Uniti rappresenta il tipo più diffuso di cancro, non comprendendo il melanoma. Anche l'incidenza di melanoma, associato all'esposizione intermittente e intensa al sole, è aumentata drammaticamente. Pertanto molti medici consigliano di evitare l'esposizione al sole quando la radiazione UVB è più intensa, di coprirsi bene e di usare creme solari protettive.
Fisiologia. La vitamina D nel nostro organismo ha un'origine in parte endogena e in parte esogena. L'esposizione della pelle ad una dose sufficiente di raggi UVB (da 290 a 320 nm) provoca la conversione di un proormone, il 7-deidrocolesterolo, in colecalciferolo, o vitamina D3. Attraverso l'alimentazione noi introduciamo vitamina D2 (poca, dai vegetali), che deve essere trasformata in vitamina D3, e vitamina D3 (la maggior parte, da alimenti di origine animale, soprattutto olio di fegato di merluzzo, di tonno, di ippoglosso, pesci tipo pesce spada, sardine, sgombri, aringhe, merluzzo, salmone, gamberi, uova, fegato, latte). La vitamina D3, o colecalciferolo, attraverso il sangue arriva al fegato, dove viene trasformata in 25-idrossicolecalciferolo, o calcidiolo, che è una forma metabolicamente più attiva della precedente; il calcidiolo, arrivato al rene, viene trasformato in 1,25-diidrossicolecalciferolo, o calcitriolo, che è la forma metabolicamente più attiva. La vitamina D aumenta l'assorbimento di calcio e fosforo dall'intestino, e il riassorbimento di calcio dal rene. Ciò serve a mantenere livelli di calcemia e fosforemia tali da inibire l'azione osteoclastica del paratormone (a sua volta tesa a mantenere livelli adeguati di calcemia e fosforemia). Pertanto, adeguati livelli di vitamina D consentono una normale mineralizzazione ossea durante l'accrescimento nei bambini e mantengono l'osso robusto negli adulti. I soggetti che assumono quantità insufficienti di vitamina D con la dieta e sono poco esposti alle radiazioni UVB possono andare incontro a rachitismo se bambini o ad osteomalacia se adulti. Studi recenti inoltre indicano che anche per la prevenzione dell'osteoporosi sono necessari adeguati livelli di vitamina D. Oggi si ritiene che il livello minimo accettabile di 25-idrossicolecalciferolo sia quello al quale l'azione osteoclastica del paratormone sull'osso è soppressa, ossia almeno 30 ng/ml, e probabilmente oltre 40 ng/ml nei soggetti anziani. Considerando la limitatezza delle risorse naturali di vitamina D e la scarsa esposizione al sole, molti anziani, soprattutto quelli che stanno in istituti di ricovero, hanno livelli di vitamina D inadeguati e sono a rischio di osteoporosi.
Studi recenti indicano che la vitamina D ha altri effetti fisiologici, oltre quelli sull'osso. E' stato dimostrato che livelli adeguati di vitamina D aumentano la resistenza alla tubercolosi. Studi epidemiologici hanno dimostrato un coinvolgimento della vitamina D nella regolazione della pressione arteriosa, nel senso che bassi livelli di 25-idrossicolecalciferolo sono associati ad aumento della pressione arteriosa, e livelli elevati si associano a riduzione della pressione arteriosa. E' stato infine dimostrato che il calcitriolo agisce come soppressivo nei confronti dei tumori della mammella, del colon-retto e della prostata.
Conclusioni. Alla luce di quanto è stato detto è evidente la necessità di mantenere adeguati livelli di vitamina D. Soprattutto in alcune categorie di persone (anziani ricoverati o comunque poco esposti al sole, soggetti a maggior rischio per tumori della pelle nei quali l'esposizione al sole è sconsigliata), è raccomandabile una supplementazione dietetica di vitamina D.
A. Schipani: fonte:
Southern Medical Journal, gennaio 2001

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Pillole di buonumore

(Oggi: "TUTTO E' RELATIVO", by "Insieme" http://www.inzona.com/ita/rubriche.htm)

Positivo: Tua moglie e' incinta.
Negativo: Sono tre gemelli.
Molto negativo: Hai fatto la vasectomia tre anni fa.
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Positivo: Tua moglie non ti parla.
Negativo: Vuole il divorzio.
Molto negativo: E' avvocato.

Positivo: Tuo figlio studia un sacco chiuso in camera sua.
Negativo: Trovi parecchi film porno nascosti nella sua stanza.
Molto negativo: Sei in alcuni di questi.
---------
Positivo: Tuo marito e' finalmente d'accordo: basta figli.
Negativo: Non trovi le pillole anticoncezionali.
Molto negativo: Tua figlia le ha prese in prestito.


MINIPILLOLE

E' vero, alla lettera: il riso fa buon sangue
Si dice da sempre che il riso fa buon sangue e questa affermazione dimostra di essere letteralmente molto vicina alla verita’. Infatti, come piu’ volte si era sospettato, alcune recenti ricerche hanno evidenziato come in condizioni stressanti gli ottimisti possano contare su difese immunitarie piu’ efficienti rispetto ai pessimisti. Gli ultimi studi sull’ argomento sono stati effettuati da Susanne Segerstrom della California University. Siccome precedenti ricerche avevavo gia’ evidenziato che nell’organismo sano, in condizioni di sovraccarico psichico, alcune linee cellulari deputate alle difese immunitarie mostrino una diminuzione di numero ed un complessivo indebolimento. La dott.ssa Segerstrom ha esaminato un campione di 50 studenti in legge confrontando alcuni parametri ematici all’inizio del corso di studio e, durante il corso. in un periodo particolarmente stressante (subito prima degli esami del semestre). Gli studenti erano stati prima sottoposti a un questionario psicologico che li aveva divisi in ottimisti e pessimisti rispetto alle aspettative di successo o insuccesso agli esami. E’ risultato che lo stress del primo semestre di studi deprimeva di piu’ lo stato d'animo dei pessimisti che degli ottimisti: questo puo’ apparire piu’ che normale. Meno normale puo’ apparire il fatto che si e’ evidenziata una stretta correlazione tra le aspettative dei soggetti e i valori ematici dei linfociti-T. Tale valore negli ottimisti aumentava del 13% mentre nei pessimisti calava del 3%. L’autrice interpreta tale andamento del parametro immunologico come una risposta a due diverse modalita’ di percezione e di reazione all’ evento stressante: mentre per i pessimisti lo stress rappresenta una minaccia (ed ha un effetto biologico "depressorio"), per gli ottimisti rappresenta una sfida da superare che consente, al contrario, la mobilitazione della risposta immunitaria. E’ evidente, al di la’ delle interpretazioni, che il legame biologico tra mente e corpo e’ assai piu’ stretto di quanto si creda.

Daniele Zamperini. Fonte:Klauss Brath "Psicologia contemporanea" - Novembre-Dicembre 2000 n. 162 

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Ecografia utilissima nel tumore epatico
E’ noto come la terapia delle neoplasie epatiche dipenda strettamente dalla precocita’ della diagnosi e dalla precisa stadiazione del tumore. Di norma ci si avvale di una TAC preoperatoria. Una ricerca biennale condotta nell’univerista’ di San Francisco (e pubblicata su Arch. Surg. 2000;135:933-938) ha messo in luce le potenzialita’ dell’ecocardiografia endoscopica. Sono stati esaminati 55 pazienti sottoposti prima alla TAC preoperatoria e successivamente alla ecografia. Alla TAC sono state identificate 201 lesioni tumorali mentre al successivo esame ecografico ne sono state localizzate altre 21 non riconosciute precedentemente. Il 28% delle lesioni sfuggite alla prima indagine erano di dimensioni inferiori a 1 cm., mentre il 16% erano comprese tra 1 e 2cm. L’ecografia si e’ dimostrata quindi superiore alla TAC nel riconoscere le lesioni tumorali di piccole dimensioni.
Secondo gli autori inoltre ha ulteriori vantaggi come la migliore definizione dei rapporti anatomici tra lesioni e strutture vascolari e biliari.

Daniele Zamperini: fonte "CENESTHESIS" n. 5 - Ottobre 2000

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Obesità (1): è forse colpa di un virus?
Tra le ipotesi patogenetiche sull’ obesita’ si e’ recentemente affacciata quella che individua in fattori virali la possibile causa di alcuni casi di tale condizione morbosa. Nell’ universita’ del Wisconsin un gruppo di ricercatori hanno inoculato animali da esperimento (polli e topi) con un adenovirus umano osservando che gli animali inoculati mostravano un sorprendente guadagno in peso e in tessuto adiposo rispetto agli animali utilizzati per il controllo.
Esperimenti simili erano stati gia’ effettuati inoculando nei polli un virus aviario denominato CELO. Gli animali inoculati da virus umano mostravano incrementi di peso ancora superiori.
Operazioni di questo tipo erano gia’ state effettuate in altri studi, tuttavia e’ la prima volta che viene utilizzato un virus umano per infettare i polli. E’ possibile ipotizzare un intervento virale anche nella patogenesi dei soggetti umani.

D.Z.: fonte "International Journal of Obesity" 2000;24 (8):989-996 citato su "CENESTHESIS n. 5 - Ottobre 2000- pag. 46-47

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Obesità (2): forse un nuovo farmaco
Dato il continuo incremento della prevalenza di casi di obesita' nei paesi dell' Occidente industrializzato, le ricerche su strategie utili per combattere tale condizione prendono sempre nuove direzioni. E’ stata infatti messa in commercio una nuova molecola dotata di effetti terapeutici utili:  la "sibutramina". Questo farmaco sembra essere dotato di effetti importanti sia a livello dei centri regolatori della fame posti nell’ipotalamo sia, con meccanismo periferico, sui recettori beta-adrenergici degli adipociti. Il farmaco avrebbe dimostrato anche una buona tolleranza con scarsi effetti collaterali; necessita pero’ sempre di una dietoterapia adeguata associata al trattamento farmacologico. Un recente studio ha evidenziato l’efficacia della sibutramina utilizzata a dosi crescenti da 5mg a 20mg/die in un trattamento durato complessivamente un anno. I soggetti obesi sottoposti a questo a studio (157 soggetti) hanno ottenuto una perdita di peso mantenutasi poi costante. Dallo studio sembrerebbe anche che la sibutramina sia sicura per i soggetti affetti da ipertensione moderata. I risultati sembrano incoraggianti anche se non conclusivi.
D.Z: ARCH. INTERN. MED. 2000;160:2185-2191

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Alendronato: è utile anche nei maschi
Com’e’ ben noto la maggioranza degli studi controllati sull’osteoporosi e’ stata effettuata finora in soggetti di sesso femminile in eta’ postmenopausale Su tali trials si basano soprattutto le linee di indirizzo terapeutico e le limitazioni terapeutiche del Ministero della Sanita’.Ma l' osteoporosi puo’ colpire i soggetti di sesso maschile dopo i 55-60 anni a causa di una ridotta produzione di androgeni che, similmente agli estrogeni, esplicano azione di protezione del tessuto osseo. Il 25-30% di tutte le fratture dell’anca si verificano tra uomini oltre i 55 anni; e’ stato dimostrato che anche gli uomini, seppure in misura minore rispetto alle donne, mostrano non di rado anche segni evidenti di fratture vertebrali. Esiste poi una frangia di soggetti maschili affetti da osteoporosi di tipo iatrogena soprattutto in rapporto alla somministrazione di glicocorticoidi. Recentemente e’ stato condotto un trial in doppio ceco per due anni su 241 uomini affetti da osteoporosi di eta’ compresa da 31 agli 87 anni. I soggetti sono stati divisi in due gruppi trattati con alendronato o con placebo. I soggetti sono stati sottoposti ad esami di controllo densitometrici sulle vertebre, al collo del femore e all’anca. I risultati hanno dimostrato che, nei soggetti trattati con alendronato, un aumento di massa ossea del 7,1% rispetto all’1,8% di quelli trattati con placebo a livello vertebrale mentre, a livello dell’anca, l’aumento e’ stato del 2,5 rispetto allo 0,1%. Ambedue i gruppi erano stati trattati anche con supplementi di calcio e di vitamina D come e’ consigliato nella terapia farmacologica dell’osteoporosi. Non e’ stata rilevata differenza significativa per l’ eta’, per il fumo di sigaretta e per i livelli di testosterone. Miglioravano anche i valori dei markers biochimici dell’ osteoporosi e diminuiva significativamente l' incidenza delle fratture femorali e vertebrali.
D. Zamperini. Fonte: N.E.J.M. 2000; 343:604-10

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Il favismo può costituire elemento protettivo nei diabetici di tipo 2
Due studi hanno segnalato, nei negri d’America e nei sardi, una riduzione della patologia cardiovascolare nei soggetti fabici (portatori di carenza di G6PD).
E’ stato ipotizzato che il meccanismo patogenetico sia costituito da una ridotta produzione di colesterolo e trigliceridi in quanto la G6PD produce NADPH che funge da coenzima nella sintesi di queste sostanze.
Gli autori hanno verificato l’attendibilita’ di tale ipotesi rilevando i parametri correlati al metabolismo lipidico in un gruppo non selezionato di diabetici di tipo 2 di sesso maschile dei quali era noto il fenotipo della G6PD. Sono stati esclusi i pazienti trattati con statine o fibrati. Sono stati trattati complessivamente circa 370 pazienti. Nel corso dello studio sono stati monitorati i principali parametri metabolici. I risultati sono stati compatibili con l’ipotesi che una ridotta attivita’ della G6PD a livello epatico (documentata nei soggetti G6PD carenti) possa portare a una ridotta sintesi di trigliceridi. Ne conseguirebbe una trigliceridemia meno elevata, una difficolta’ nell’immagazzinare l’eccesso calorico sotto forma di adipe, quindi un peso corporeo meno elevato, un aumento di colesterolo HDL. Non e’ stata documentata una significativa differenza nella colesterolemia totale. I dati complessivamente sembrerebbero compatibili con una alterazione nel metabolismo lipidico nei soggetti diabetici carenti di G6PD con una riduzione di rischio cardiovascolare.

D.Z. da: S. Zoccheddu e al. - G.I.D.M.- n.1 - Giugno 2000

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Un nuovo impiego della vitamina C: prevenzione della colelitiasi
La vitamina C e’ stata un farmaco fondamentale all’epoca della sua scoperta e sono state individuate sempre maggiori doti. Tra le sue doti sembra esserci anche quella di proteggere le donne dai calcoli alla cistifellea. Il razionale consisterebbe nel fatto che la vitamina C e’ capace di ridurre i livelli di colesterolo nel sangue e i calcoli biliari in genere sono costituiti perlopiù a partire da ammassi di colesterolo. Al "Medical Center" di San Francisco e’ stata percio’ studiata la possibilita’ di un effetto di questa vitamina sulla formazione dei calcoli alla cistifellea. Sono stati indagati 13.000 soggetti ed e’ stato appurato che, nelle donne con i livelli di vitamina C piu’ elevati, le possibilita’ di rilevare i calcoli erano inferiori rispetto a quelle con livelli inferiori di vitamina C. Un rapporto analogo non e’ stato riscontrato negli uomini.
Bisognera’ ora esaminare ulteriormente il problema per verificare se un eventuale aumento di assunzione quotidiana di vitamina C sia una misura efficace e sufficiente per prevenire i calcoli alla cistifellea.

D. Zamperini: Fonte: Archives of Internal Medicine 2000;160:931-936

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Pillole di buonumore  (Tutto e' relativo!)

Positivo: Fai a tua figlia il discorso delle api e dei fiorellini.
Negativo: Continua ad interromperti.
Molto negativo: Con correzioni.
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Positivo: Tuo figlio ha il suo primo appuntamento.
Negativo: E' con un uomo.
Molto negativo: E' il tuo miglior amico.


NEWS
(Scovate e riassunte da A. Schipani)

Anabolizzanti e capacità erettile
Da molto tempo si discute se gli anabolizzanti assunti dagli atleti o dai culturisti per gonfiare i muscoli siano capaci di ridurre nel tempo la capacita’ sessuale maschile. Non c’e’ unanimita’ di vedute sulla situazione. Una recente ricerca condotta da G. Piubello, andrologo e endocrinologo di Verona, avrebbe evidenziato che tali farmaci, assunti cronicamente, riducono il desiderio sessuale e la capacita’ di fecondare. L’autore ha analizzato 20 culturisti di eta’ compresa tra 19 e 26 anni, consumatori abituali di anabolizzanti. Ha evidenziato bassi livelli di testosterone e inoltre 17 soggetti hanno mantenuto ridotti livelli di ormoni maschili anche nei periodi di pausa tra un ciclo di somministrazione e l’altro. I cicli erano normalmente di 40-70 giorni con pausa di 20 giorni. Tutti gli esami seminali infine hanno evidenziato una considerevole diminuzione degli spermatozoi. Quindi i culturisti sembrano trovarsi al bivio: muscoli o virilita’.

(ADN Kronos Salute)

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Terapia sperimentale contro la sclerosi multipla
Le Scienze, 24.01.2001 – La sclerosi multipla è una malattia invalidante, che colpisce in prevalenza soggetti in giovane età, di sesso femminile e a latitudini medio-alte. Le lesioni consistono in una demielinizzazione delle fibre nervose, sia nel cervello che nel midollo spinale, provocata da un disordine del sistema immunitario. Le conseguenze sono molteplici, ma soprattutto sono interessati il movimento, la vista, il linguaggio.  Le terapie attuali provocano una forte soppressione immunitaria, e possono indurre gravi effetti collaterali. Ricercatori del National Institute of Allergy and Infectious Diseases statunitense hanno sperimentato, in scimmie affette da una malattia simile alla sclerosi multipla, una nuova terapia, chiamata immunoterapia antigene-specifica, che attacca solo i linfociti T, riconosciuti come causa della malattia. Normalmente i linfociti T, esposti a piccole quantità di proteine della guaina mielinica, vengono stimolati ad attaccare la guaina stessa. I ricercatori hanno notato che, esponendo i linfociti T a dosi massicce delle stesse proteine, nei linfociti T si innesca un processo di autodistruzione. Pertanto, introducendo nell’organismo una gran quantità di proteine mieliniche è possibile rimuovere le cellule T e fermare la progressione della malattia. Si pensa che gli effetti collaterali dovrebbero essere lievi.

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Ricordi falsi e ricordi veri
Le Scienze, 25.01.2001 – Si sa che la memoria umana non sempre è affidabile, infatti il nostro cervello è capace di creare falsi ricordi di eventi mai accaduti, facendoci credere che siano veri. I ricercatori dell’Università del Missouri-Columbia hanno ideato un metodo per distinguere i ricordi veri da quelli falsi, approfondendo così le conoscenze sul funzionamento della nostra mente.
Quando un evento reale viene memorizzato, vengono anche memorizzate informazioni sensoriali relative all’evento; al contrario, un evento non reale, quindi un ricordo falso, non è associato ad informazioni sensoriali. Quando recuperiamo dalla memoria il ricordo di un evento reale vengono riattivate anche le relative informazioni sensoriali. Rilevando l’attività cerebrale nel momento in cui la memoria viene stimolata, è così possibile distinguere i ricordi veri da quelli falsi, anche se i soggetti ritengono che i ricordi siano tutti veri.

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Effetti della glucosamina solfato sulla progressione dell’osteoartrite
Doctor’s Guide Review, 26.01.2001 – La glucosamina è un normale costituente dei glucosaminoglicani nella matrice cartilaginea e nel liquido sinoviale. La glucosamina solfato è il derivato solfato della glucosamina, utilizzato finora con un buon profilo di tollerabilità e con buoni risultati sulla sintomatologia dolorosa osteoarticolare in studi clinici a breve e medio termine. E’ stato fatto uno studio randomizzato, controllato versus placebo, in Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti, su 212 pazienti affetti da osteoartrite del ginocchio, ai quali sono stati somministrati glucosamina solfato o placebo una volta al giorno per tre anni. Nei 106 pazienti trattati con glucosamina solfato la riduzione della rima articolare del ginocchio dopo tre anni è stata di 0.06 mm, un valore non significativo. Nel gruppo placebo, invece, si è avuta una riduzione significativa della rima articolare di 0.31 mm. Inoltre, la sintomatologia dolorosa dopo tre anni era leggermente peggiorata nei pazienti del gruppo placebo, mentre era migliorata nei pazienti trattati con glucosamina solfato.
Lancet 2001;357:251-56

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Sulla probabilità di morire per "mucca pazza"
Roma, 29 gennaio 2001 – (Adnkronos) – La probabilità statistica di morire di BSE (encefalopatia spongiforme bovina) sono estremamente basse, circa le stesse che abbiamo di morire cadendo dal letto. Lo spiega sir John Krebs, capo dell’Agenzia per la sicurezza alimentare britannica. Infatti attualmente le morti attribuite al consumo di carne di “mucca pazza” sono circa 15 l’anno, lo stesso numero all’incirca delle morti per caduta dal letto. Se si considera che i decessi annui per cause da collegare all’alimentazione sono circa 73.000 per le malattie coronariche, 34.000 per i tumori e 50-300 per salmonellosi da consumo di uova infette, si può stare abbastanza tranquilli.

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La formazione delle sinapsi
Le Scienze, 30.01.2001 - Già nel 1997 il neurobiologo Ben Barres della Stanford University aveva scoperto che gli astrociti, ossia i neuroni cresciuti vicino alle cellule gliali, sono molto più reattivi dei neuroni cresciuti isolati. Lo stesso Barres coi suoi collaboratori ha ora scoperto il perché avviene ciò. Colorando le proteine che i neuroni usano per costruire le sinapsi, gli sperimentatori hanno visto che i neuroni cresciuti vicino alle cellule gliali aggregano queste proteine costruendo sinapsi in quantità sette volte maggiore rispetto ai neuroni che crescono isolati. I neuroni quindi hanno bisogno di ricevere il via dalla glia per poter costruire le sinapsi necessarie a comunicare tra di loro. Finora si riteneva che le cellule gliali avessero un ruolo secondario, per il rifornimento nutritivo, o di supporto per altre cellule.

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Aspirina più dipiridamolo nella prevenzione dell’ictus
30.01.2001 Westport, CT (Reuters Health) – L’American College od Chest Physician (ACCP) ha rivisto le linee guida per la terapia preventiva dell’ictus ischemico. Adesso vengono considerate accettabili tre opzioni terapeutiche: aspirina alla dose da 50 a 325 mg al giorno; aspirina 50 mg più dipiridamolo in formulazione ritardo 250 mg x 2 al giorno; oppure clopidogrel 75 mg al giorno. La combinazione aspirina/dipiridamolo sembra essere il regime terapeutico più efficace, superiore all’aspirina da sola più di quanto non lo sia il clopidogrel. Tuttavia il clopidogrel potrebbe essere preferito da alcuni pazienti a causa della monosomministrazione giornaliera. Inoltre, il clopidogrel provoca meno sanguinamenti del tratto gastroenterico, rispetto all’aspirina, mentre la combinazione aspirina dipiridamolo è sovrapponibile in questo all’aspirina da sola.
Chest 2001; 119:300S-320S

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APPROFONDIMENTI


Storia del tabacco: miseria e nobiltà di una pianta "sacra"
Tra le nuove meraviglie riportate dagli esploratori del Nuovo Mondo (fagioli, peperoni, pomodori, granturco) c'era anche una piantina della quale poco ancora si sapeva ma che era destinata a far discutere per i secoli a venire: il tabacco.
La pianta di tabacco e’ stata probabilmente il primo vegetale coltivato per scopi ricreativi o religiosi fin dai tempi piu’ remoti. Originaria del continente americano essa era conosciuta dalle antiche popolazione che avevano creato intorno ad essa un' aura divina e leggendaria i cui echi giungono fino ai giorni nostri.
Pochi sanno, ad esempio, che la parola "sigaro" (derivata dallo spagnolo "cigale") abbia le sue origini dal termine azteco "Zicar" con cui veniva chiamato il Dio del tabacco. Presso i Maya lo stesso Dio si chiamava invece "Zic-Ahuau".
Come e' nato?
I Pellerossa (popolazioni amerinde a noi piu’ note, di cui ricordiamo tutti il tradizionale calumet della pace fumato nei films) avevano intorno al tabacco una serie di pittoresche leggende:
-I Lakota (Sioux stanziati nel territorio occidentale) ritenevano che il tabacco fosse un dono di Wakan-Tanka, il "Grande Spirito", e che fosse stato consegnato agli uomini dalla bellissima Donna Bisonte Bianco, vestita di pelli di daino bianche. Secondo quanto narrato dal sacerdote Alce Nero la stessa emissaria del Dio aveva donato ai Sioux la "Sacra Pipa" con una descrizione precisa dei riti necessari per raggiungere attraverso il fumo la perfetta comunione tra uomo e Dio. Il Sioux "Cervo Zoppo" raccontava che "il fumo della Pipa Sacra e’ il respiro del Grande Spirito… quando sediamo e fumiamo insieme la nostra pipa formiamo un cerchio senza inizio e senza fine che circonda tutto quanto esiste sulla terra".
-I "Piedi Neri" invece narravano che il "Grande Spirito" aveva fatto conoscere il tabacco a quattro stregoni durante una visione. Poiche' pero’ gli stregoni non volevano condividere la sacra pianta con gli altri comuni mortali, alcuni castori inviati dal Dio misero riparo all’ingiustizia regalando i semi di tabacco a una coppia di comuni indiani e insegnando loro anche i rituali di coltivazione.
-Gli "Apaches" raccontano che fu Coyote (il Dio dell' inganno) a rubare il tabacco al Sole ma che voleva tenerlo per se'. Allora la gente della tribu’ escogito’ un espediente: fecero travestire un ragazzo da donna e fecero finta di volerlo dare in sposa a Coyote. Questi, consentendo al matrimonio, regalo’ alla promessa sposa come dono di nozze tutto il tabacco che aveva rubato al sole. Celebrate le finte nozze e scoperto l' inganno, Coyote si infurio’ e cerco’ di riavere indietro il regalo ma fu inutile perche’ gli uomini si tennero il tabacco, frutto di un doppio furto.
-I "Cree" invece narrano una romantica storia d' amore: un giovane si innamoro’ di una fanciulla di un altro accampamento e approfitto’ di un momento in cui erano rimasti soli per dichiararsi e chiederle di sposarlo. La giovane acconsenti’ e furono celebrate le nozze. In seguito, tornando dove era sbocciato l’amore tra i due, il giovane si accorse che era cresciuta una bellissima pianta, che porto’ alla propria gente. Alla pianta fu dato il nome di "hitci" ma quando fumavano le sue foglie il giovane e la sua gente usavano un altro nome, "haisa" che significa amplesso.
Il Tabacco in epoca precolombiana
In tutte le latitudini, quindi, e presso tutte le popolazioni americane il tabacco e’ stato visto come una pianta di origine sacra, la cui origine, coltivazione e consumazione era condizionata da una serie di riti e di cerimonie particolari. Veniva usato, a seconda delle popolazioni, in vari modi: poteva essere fumato (si potevano allora usare pipe di terracotta, pipe di pietra, poteva esser fumato, magari avvolto da foglie di pannocchie di mais); poteva essere masticato (da solo o mescolato ad altre sostanze); poteva essere fiutato, bevuto, succhiato o addirittura assunto per via rettale (Schultes 1979). L’uso piu’ comune era gia' comunque quello del fumo, come gia' si legge nel libro sacro dei Maya.
Tra gli Aztechi, gia’ nel primo millenio a.c., i sacerdoti soffiavano ritualmente il fumo direttamente verso il sole e ai quattro punti cardinali aspirandolo da pipe o direttamente dalle foglie arrotolate.
Presso di essi il tabacco veniva usato anche al temine di pasti rituali: i commensali si riunivano dopo la mezzanotte, si lavavano le mani e mangiavano mais, fagioli, tacchini, carne, e al termine del pasto venivano distribuite pipe di canna o di terracotta riccamente decorata, senza fornello, in cui veniva fumato un miscuglio di tabacco e resine aromatiche. Venivano inoltre distribuiti regali e altre sostanze come il cacao, anch'esso carico di forti significati simbolici rituali. Passeggiare con una pipa in mano era comunque ritenuto, per gli Aztechi, segno di nobilta’ e di eleganza.
I nativi del Rio delle Amazzoni (Thevet 1555) tenevano il tabacco in grande considerazione; sostenevano che esso purificava e consumava gli umori superflui del cervello e toglieva fame e sete per po’ di tempo. Veniva usato per le cerimonie di iniziazione degli adolescenti, che dovevano fumare un certo numero di sigari o ingoiare foglie di tabacco.
Gli indigeni Warraud del Basso Orinoco (Venezuela) usavano il tabacco come unica sostanza allucinogena nelle loro cerimonie spirituali. Consumavano fino a 30 sigari per stimolare il viaggio verso i loro spiriti. La cosa, viste le dosi, non dovrebbe destare meraviglia.
Il tabacco veniva pero’ considerato anche una pianta medicinale e veniva somministrato anche per altre vie e perfino, come gia’ detto, per via rettale. La differenza tra gli effetti psico-organici del tabacco riportati dai racconti (addirittura francamente allucinogeni ma comunque sempre diversi tra loro a seconda dell' origine dei racconti) e quelli riscontrati in epoca attuale puo' derivare da una serie di fattori di cui parleremo in seguito come ad esempio la diversa composizione e la diversa ibridizzazione delle piante coltivate.
Infatti la pianta di tabacco veniva coltivata in modo diverso nelle diverse zone dell’America quasi sempre con una procedura "sacrale" e accompagnata da complicati riti. Percio' veniva usato per le cerimonie religiose solo tabacco coltivato secondo l’ortodossia locale e avente determinate specifiche caratteristiche, diverse da tribu' a tribu'.
Gli indiani Crow avevano perfino organizzato una specie di Associazione di Garanzia che vegliava sulla qualita’ e sulle modalita’ di coltivazione del tabacco (Guasco 1999).
La sacralita' del tabacco era tale che i Kuruk, indiani tipicamente nomadi e dediti alla cacciagione, coltivavano esclusivamente tale vegetale rifiutando invece, per motivi religiosi, ogni altro tipo di coltivazione.
L' uso religioso del tabacco faceva si' che spesso esso venisse a costituire un' offerta sacrale alle divinita’. Strano a dirsi, molte di queste usanze sono state tramandate fino all’epoca nostra: ancora oggi, ad esempio, gli ultimi discendenti dei Maya nello Yucatan e nel Messico usano offrire agli Dei il primo sigaro della raccolta accendendolo con una lente che concentra i raggi solari: essi infatti si raffigurano il Dio del Tuono e della Pioggia come un vecchio con una lunga barba bianca, accanito fumatore, che produce le nuvole con il fumo del suo sigaro e le stelle del cielo con le braci accese.
E’ notevole il fatto come la maggior parte degli indigeni di California, Oregon, Columbia Britannica, ecc., coltivassero tabacco ma non coltivassero altre piante. Alcune tribu’ (come ad esempio i Kuruk di cui abbiamo gia' parlato) avevano sviluppato una raffinata conoscenza delle tecniche di coltivazione che pero’ applicavano al solo tabacco senza mai estenderlo ad altre piante alimentari
BIOLOGIA DEL TABACCO
Parlando di tabacco non ci si puo riferire pero' ad una pianta ben precisa: quello che noi attualmente usiamo e’ il tabacco derivato dalla "nicotiana tabacum", pianta delle solanacee (come la patata, il pomodoro e altre piante coltivate) originaria di una regione dell’America meridionale compresa tra Argentina, Bolivia e Paraguay. E’ una pianta esclusivamente coltivata in forma "domestica" e inesistente in forma selvatica. E' un allotetraploide (vale a dire che possiede un doppio corredo cromosomico derivato da due progenitori di ceppi diversi). Questo fenomeno, nei vegetali, e' abbastanza frequente: alcune piante possono incorporare un doppio corredo cromosomico derivato addirittura da specie diverse. I progenitori della "nicotiana tabacum", quelli che hanno fornito il doppio corredo cromosomico, sono probabilmente la "nicotiana silvestris" e la "nicotiana tormentosiformis" (D’Amato 1987).
Si tratta di due piante diffuse in zone diverse del Sud America ma non comunicanti direttamente tra loro: la particolare geografia "longitudinale" del continente sudamericano ha provocato la formazione di vere "barriere climatiche" che hanno impedito la diffusione delle specie vegetali, spesso rimaste limitate in un ristretto habitat. I due ceppi "progenitori" si sono ibridati probabilmente attraverso l’intervento di una terza sottospecie, la "nicotiana otophora", che vegeta in una regione intermedia e che puo’ aver agito da trait-d’union.
Il genere "nicotiana" comprende complessivamente circa 50 specie; in origine molte di queste venivano usate come produttrici di tabacco prima che si affermasse la specie ibrida. La specie piu' usata dalle popolazioni amerinde era probabilmente la "nicotiana rustica", con contenuto piu' alto di nicotina ma di combustione piu' difficile. Proprio per favorire tale combustione venivano usati strumenti appositi: sono state trovate pipe di diversa fattura, risalenti fino a 2000 anni a.c. in molte localita’ del Sud America.
Anche la "nicotiana rustica" e’ un ibrido tetraploide: deriva da "nicotiana paniculata" e "nicotiana ondulata" ed e’ originaria della regione Andina. Si sarebbe quindi curiosamente verificata nell' America del sud una ibridazione e una selezione indipendenti di specie affini difficilmente mescolabili tra di loro.
L' IMPORTAZIONE DEL TABACCO IN EUROPA   
Gia’ dal viaggio di Colombo si cominciarono ad avere in Occidente le prime notizie di questa strana pianta e dell’uso che se ne faceva nel Continente Nuovo.
Il diario di Cristoforo Colombo riporta come, allorche’ approdarono nell’isola di Hispaniola (attuale Cuba) si accorsero con meraviglia che gli Indios avevano l’abitudine di inalare fumo di tabacco. I famosi sigari cubani possono vantare quindi illustri antenati…
Ma gia' un mese prima Colombo, esplorando alcuni isolotti nella speranza di trovare oro e pietre preziose, aveva notato un indio su una piccola imbarcazione che "portavano con se' qualche foglia seccata che deve essere molto apprezzata da loro perche’ me ne hanno fatto dono". A Hispaniola gli uomini inviati a terra riferirono di aver visto in giro "molti uomini e donne che tenevano in mano un tizzone d’erbe per farne, com’e’ loro abitudine, delle inalazioni".
Nel 1495 un missionario, Francesco Pane, riferi’ che i nativi delle Antille impiegavano la polvere del tabacco, inalandola, contro vari malanni.
Tocco’ ad Americo Vespucci incontrare invece i primi masticatori di tabacco, a largo del Venezuela (1499).
Diversi altri studiosi indagarono su questo argomento: il frate domenicano Bartolome’ De Las Casas descriveva con precisione: "erbe secche avviluppate a loro volta in una foglia secca ... accesi a una estremita’ dall’altra risucchiano o aspirano verso l’interno ricevendo cosi’ il fumo".
Una descrizione analoga e ancora piu’ approfondita veniva effettuata da Gonzales Fernandez de Oviedo y Valdes, Governatore di San Domingo nel 1535.
Gli indigeni davano il nome di "cagioha" o "cahiba" alla pianta, quello di "tabaha" a quella strana pipa a forma di Y in cui fumavano le foglie ad uso soprattutto medicinale. I primi esploratori percepirono immediatamente l’importanza di questa pianta per le culture indigene tanto che praticamente tutte le pubblicazioni sul nuovo mondo riportavano descrizioni e illustrazioni riguardanti l’uso del tabacco.
LA DIFFUSIONE IN EUROPA   
Storicamente, sembra che i primi semi di tabacco per una coltivazione in loco furono importati in Spagna dal naturalista Hernandez da Toledo che nel 1559 li mise in coltura nei giardini reali. Il primato storico viene pero' invece attribuito quasi universalmente a Andre' Thevet che avrebbe portato i primi semi di tabacco (nicotiana tabacum) in Europa e seminati in Angoulonne nel 1556 tanto che la localita’ diede il primo nome a questa pianta (Herb D’Angoulenne).
Il nome latino della specie deriva pero’ da quello del Console Generale Francese a Lisbona, Jean Nicot che introdusse il tabacco in Francia dal Portogallo nel 1560. Infatti un dizionario del 1573 riporta gia’ il vocabolo "nicotiane" descrivendola come erba meravigliosa, utile contro ferite, ulcere, herpes e altre simili malattie. Da Nicot prende nome anche ovviamente la nicotina, alcaloide isolato tre secoli dopo (nel 1828).
Nei primi anni della sua introduzione in Europa il tabacco era utilizzato sotto forma di polvere di foglie disseccate, inalate dal naso per curare il mal di testa. Mornadez, famoso medico di Siviglia, la prescrisse contro il morso di serpenti e di insetti oltre che per il mal di testa, raffreddore e reumatismo. Barclay in Gran Bretagna contro l’apoplessia, le vertigini, la peste e l’asma.
Il primo fumatore bianco in assoluto sarebbe stato Rodrigo De Jerez che pero’ pago' caro il primato in quanto fu processato e incarcerato per stregoneria dall’Inquisizione per aver fumato in pubblico.
La moda del tabacco da fiuto venne introdotta da Caterina De Medici che veniva rifornita dal suo ambasciatore Nicot. La stessa Caterina curo’ le ulcere del figlio Francesco con un unguento preparato pestando le foglie in un mortaio e facendole cuocere in grasso di maiale. Per questo il tabacco ebbe per un certo periodo anche altri nomi come "erba dell’ambasciatore", "erba medicea", "caterinaria", ecc.
Quasi contemporaneamente al Thevet e al Nicot, il Nunzio Apostolico a Lisbona Cardinale Prospero di Santa Croce, porto’ in Vaticano alcuni semi di "nicotiana rustica" che vennero coltivati nei giardini del Papa nel 1561, ove questa pianta fu battezzata "herba panacea" o "herba sancta" (Cattabiani 1996).
In pochi anni l’uso di questa pianta si generalizzo’: gia’ alla fine del XVI sec. il tabacco era coltivato in molte regioni del Vecchio Continente e ne venivano vantate le portentose virtu’ medicinali. Nello stesso periodo venne introdotto in Oriente, e precisamente in India, dai Portoghesi, e si diffuse anche li’ molto rapidamente. E’ curioso notare che anche in India dove l’introduzione e’ recente e posteriore alla scoperta dell’America si siano sviluppati miti e leggende circa l’origine e la diffusione del tabacco (Mehra 1979).
Vi fu una violenta guerra commerciale per il predominio della coltivazione e della vendita dei prodotti del tabacco: gli spagnoli dettero vita alle prime piantagioni di tabacco ad Haiti nel 1530, gli Inglesi iniziarono nel secolo successivo in Virginia e nel Maryland dove estesero enormemente le piantagioni.
Nel XVII sec. la curiosa pratica di inalare il fumo di tabacco era gia’ diventata in Europa una piacevole attivita’ popolare. Fu alla meta’ del XVII sec. che il tabacco assunse il suo nome comune definitivo.
Nel 1619 la coltivazione del tabacco venne proibita in Inghilterra con il pretesto che sottraeva terreno alle colture alimentari. Gli Inglesi pero’ continuavano a coltivarlo, venderlo e diffonderlo ovunque tramite la Compagnia della Virginia.
Allorche' il cardinale Richelieu impose sul tabacco un pesante balzello, venne immediatamente imitato da tutti gli altri Stati, e questo segno' la fine di ogni opposizione all' abitudine del fumo. L' introduzione della tassa sul fumo fu infatti un elemento determinante per la diffusione di tale abitudine considerata ormai vantaggiosa e lucrosa da tutti i governi.
Nel '900 il tabacco e' una delle coltivazioni piu' diffuse: viene coltivato dai 60° al nord della Svezia ai 40° al sud dell’Australia e della Nuova Zelanda. Gli USA sono il paese maggiormente produttore con piu’ di 1/5 della produzione annua mondiale. Grande produttore e’ pure la Cina continentale con Italia, India, Brasile, Giappone e Turchia.
Evoluzione dell' uso del tabacco in Europa   
Per circa 300 anni dalla "scoperta" del tabacco, predomino’ l’uso della pipa, affiancato dal fiuto di foglie polverizzate. Il sigaro si affermo’ nel XIX sec. mentre le sigarette sono una invenzione piu’ moderna (risalente alla meta’ dell’800) ed hanno raggiunto la preminenza solo in epoca molto recente, tra le due guerre mondiali. Il "Morgagni" (rivista di aggiornamento medico) del 1881 riportava le statistiche dell’uso del tabacco in Italia: si rileva come all' epoca il tabacco da fiuto costituisse quasi un quarto del consumo; per quanto riguardava il tabacco da fumo circa il 60% era destinato alla pipa, il resto ai vari tipi di sigaro con irrisorio consumo di sigarette ("spagnolette"), per lo piu' di provenienza estera. Il tabacco importato era meno dell' 1% del totale, mentre il consumo medio pro-capite in Italia era inferiore ai 2 g. giornalieri, molto meno dell' attuale!
Le opposizioni al fumo   
Non sempre pero' il tabacco ha avuto vita facile, manifestandosi invece sin dall' inizio ostilita' e opposizioni.
Si e' gia' detto della condanna del primo fumatore, Rodrigo de Jerez, ad opera dell' Inquisizione. Papa Urbano VIII nel 1621 proibi’ il fumo sotto la minaccia addirittura della scomunica.
Nel 1690 cinque monaci di Santiago furono sotterrati vivi per aver contravvenuto agli ordini del Vaticano e fumato tabacco nella chiesa.
In Russia e in Turchia le pene erano gravi: sino alla mutilazione (taglio delle mani, del labbro o del naso) e alla decapitazione.
Lo Scia' di Persia faceva tagliare il naso ai fumatori (li' il tabacco veniva soprattutto fiutato).
In Inghilterra il celebre esploratore e fumatore Walter Raleigh (scopritore della Virginia), sarebbe stato decapitato, almeno ufficilmente, proprio per questo suo vizio. A decretarne la morte fu il Re Giacomo I che vedeva tale uso come disdicevole e dannoso per la salute.
La maggior parte delle opposizioni sono cadute, come gia' detto, con l' istituzione della tassa sul tabacco e sono riprese solo in epoca recentissima.
COSA SUCCEDERA’ DEL TABACCO ?  
Attualmente l’uso del fumo sta conoscendo un periodo di forte conflitto e di critica sempre piu' stringente dal punto di vista sanitario: e’ ormai pacifico che il fumo nuoccia gravemente alla salute e tale concetto sta diffondendosi sempre di piu’ tra la popolazione dei paesi sviluppati. Ci si sta forzando a cambiare la percezione di alcuni modelli che sembravano ormai consolidati in modo da annullare l’aura di fascino e di mistero che accompagnava il rituale della sigaretta. L' opposizione deriva anche dal fatto che, nel corso della storia, il tabacco ha diminuito sempre piu’ il suo aspetto di sostanza sacra, di sostanza per speciali occasioni  o di farmaco,  per acquisire sempre di piu’ i connotati di "sostanza di assuefazione", o simil-droga.
Recenti vicende giudiziarie americane avrebbero evidenziato come questo aspetto sia stato deliberatamente accentuato nella misura massima da Societa' produttrici mediante addirittura l' aggiunta di additivi che favorissero l' assuefazione; viene da chiedersi dunque quanta parte dei problemi di salute riscontrati siano in effetti derivati dall' uso spontaneo del tabacco e quanta invece dai comportamenti irresponsabili dell' uomo stesso.
La pianta di tabacco mantiene tuttavia una serie di particolarita' che la rendono utile, se non preziosa, per gli scienziati: essa viene facilmente usata come modello per esperimenti di biologia cellulare o molecolare in quanto molto adatta alle manipolazioni genetiche. La pianta di tabacco puo’ servire percio’ come base per la produzione, mediante tecniche di biologia molecolare e genetica, di altre sostanze di interesse farmaceutico. Non e’ detto quindi che tutto il male venga per nuocere.
Daniele Zamperini   
Parte del materiale di questo articolo e' stato pubblicato, con diverse integrazioni, da L. Carra e D. Zamperini su Airone di Settembre 2000. Una parte e' rinvenibile su www.zadig.it   Questa e' la prima versione
Fonti:
L. Figuier "La scienza in famiglia" Fratelli Treves ed., III Ed.,1890.
A. Sonnino: Biologi Italiani n. 7, Luglio 2000.
Sterpellone: "Stratigrafia di un passato".
F. Vizioli: "Il Morgagni" - 1881.
Alce Nero: "Alce Nero parla"
Enciclopedia della Scienza e della Tecnica- EST. Ed. Mondadori

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Pillole di buonumore (Tutto e' relativo!)

Positivo: Tua figlia trova subito lavoro dopo la laurea.
Negativo: Come prostituta.
Molto negativo: Ha diversi clienti tra i tuoi colleghi.
Troppo negativo: Guadagna più di te.
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Positivo: Tuo figlio sta maturando.
Negativo: Ha una storia con la signora della porta accanto.
Molto negativo: Anche tu.


MEDICINA LEGALE E NORMATIVA SANITARIA 
  Rubrica gestita dall' ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale Universita' Cattolica
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Il SSN deve rimborsare i farmaci in fascia "C" qualora non esistano valide alternative (Sentenza)

SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE - RICHIESTA DA PARTE DI UTENTE DI RIMBORSO PER ACQUISTO DI VACCINO PER LA CURA DI ALLERGOPATIA - DINIEGO PER NON ESSERE IL FARMACO INCLUSO NEL PRONTUARIO FARMACEUTICO - RICORSO - ACCOGLIMENTO.

(Il SSN e' tenuto al rimborso di farmaci anche se non inclusi tra quelli rimborsabili qualora esse siano indispensabili per tutelare il fondamentale diritto alla salute)

( Cassazione - Sezione Lavoro - Sent. n. 1665/2000 - Presidente S. Lanni - Relatore V. Castiglione )

Il diritto alla salute, nel solco di un indirizzo della Corte Costituzionale , viene a configurarsi come un diritto primario fondamentale che impone piena ed esaustiva tutela; la norma acquista così una diretta operatività, indipendentemente dall'intervento del legislatore ordinario.

Il dettato costituzionale acquista sì operatività immediata e non limitata , ma restano affidate al legislatore l'ampiezza e le modalità della tutela della salute attraverso anche la determinazione dell'entità dello sforzo finanziario, che la collettività deve sostenere a questo fine.

Si tratta, quindi di una tutela non illimitata in relazione a tutte le possibili esigenze preventive e terapeutiche dell'individuo, ma circoscritta a quella che la normativa vigente (peraltro in larga misura) prevede, stabilendo quali prestazioni le strutture sanitarie pubbliche sono tenute a garantire.

E' evidente, dunque, che vi siano necessariamente dei "limiti" definiti dalla giurisprudenza di legittimità, oltre i quali, cioè, l'interesse individuale del cittadino cessa di essere direttamente garantito, il che va detto, in particolare, per le prestazioni farmaceutiche limitate alla somministrazione di medicinali prevista dal prontuario terapeutico.

Peraltro,  di fronte ad un'eventuale insopprimibile esigenza, rispetto alla quale le strutture organizzative del Servizio Nazionale Sanitario non offrono rimedi alternativi, il diritto fondamentale dell'individuo alla salute si impone nella sua integrità ed assolutezza senza limite e condizionamenti sorta.

Sintesi di Daniele Zamperini

(La sentenza; conclusioni in esteso)

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Norme sul congedo parentale per maternità
La legge 53 dell’8 Marzo 2000 dispone che molti dei benefici previsti per la lavoratrice madre ora risultano estesi anche al padre. La legge suddetta e’ stata solo il coronamento di una serie di normative che nel tempo hanno esteso al genitore maschio i benefici previsti precedentemente per la madre.
I benefici sono:
-astensione obbligatoria: il padre puo’ assentarsi dal lavoro per il periodo di astensione obbligatoria successiva al parto in caso di morte o di grave infermita’ della madre o in caso di abbandono o di affidamento esclusivo. Il padre ha in questo caso lo stesso trattamento economico previsto per la madre (indennita’ economica pari all’80% della retribuzione, salvo migliori trattamenti contemplati dal contratto di lavoro). Come per la madre, tale periodo e’ utile ai fini dell’anzianita’, per le ferie e per la tredicesima ed e’ totalmente coperta a fini previdenziali. Per la domanda il padre deve inoltrare amministrazione opportuna domanda con stato di famiglia e altre prove attestanti le condizioni sopra dette (infermita’ della madre o morte della madre o esistenza in vita del bambino). E’ da osservare come non sia quindi un diritto assoluto ma sia condizionato a situazioni particolari coinvolgenti la madre, ritenuta prioritaria in questo settore.
-Astensione facoltativa: il padre puo’ assentarsi fino a un massimo di sei mesi (o sette se usufruisce per un periodo di piu’ di tre mesi) entro gli otto anni del bambino in contemporanea o in alternativa alla madre, anche se questa non e’ una lavoratrice dipendente. Non si devono superare complessivamente, tra entrambi i genitori i 10 mesi o gli 11 se c’e’ il mese aggiuntivo.
L’indennita’ economica e’ pari al 30% per un massimo di sei mesi comprensivi delle eventuali assenze della madre.
-Permessi giornalieri: al padre spettano i permessi giornalieri sino all’anno di vita del bambino in caso di affidamento esclusivo. In caso diverso se questi spettano alla madre lavoratrice possono essere presi in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga o alla madre che non sia lavoratrice dipendente.
I permessi sono fissati in una o due ore al giorno. I permessi sono retribuiti e sono utili a fini previdenziali.
-L’assenza per malattie del bambino: il padre in alternativa alla madre in caso di malattia del figlio puo’ assentarsi senza limiti fino al terzo anno del piccolo. Oltre al terzo e fino all’ottavo anno puo’ assentarsi, in alternativa alla madre, fino a un massimo di cinque giorni l’anno. Queste assenze non sono riconosciute a fini previdenziali e non danno a diritto a ferie, tredicesima ma servono ai fini dell’anzianita’, con diritto alla copertura figurativa previdenziale se il bambino ha meno di tre anni, dopodiché la copertura e’ ridotta.
-Divieto di licenziamento: il padre che ha diritto di astenersi dal lavoro nei primi tre mesi dalla nascita del figlio non puo’ esser licenziato fino a che il piccolo non abbia un anno.
-Esenzione dal lavoro notturno: il padre di un figlio di eta’ inferiore ai tre anni puo’ chiedere l’esenzione al lavoro notturno in alternativa alla madre.
La stessa cosa puo’ essere richiesta in caso di un figlio disabile che usufruisca della legge 104 del 5 Febbraio ’92 o se e’ l’unico genitore affidatario di un figlio convivente di meno di 12 anni.
La normativa che ha portato a tutto cio’ ha subito una continua evoluzione impartendo alla legge 903/97, che previde per il padre lavoratore, anche se adottivo e affidatario il diritto di fruire all’astensione facoltativa e dei permessi per la malattia del figlio di eta’ inferiore ai tre anni in alternativa alla madre lavoratrice. La norma era subordinata a una serie di adempimenti che miravano a evitare l’utilizzo congiunto dei benefici. La Corte Costituzionale con sentenza 150 del 21 Aprile ’94, chiari’ che il padre aveva diritto dell’astensione facoltativa solo nell’ipotesi che la madre fosse lavoratrice subordinata e non autonoma. La consulta riconobbe anche il diritto di godere del periodo di astensione obbligatorio e dei permessi giornalieri previsti dalla madre in base alla legge 1204/71, per impossibilita’ sopravvenuta della madre, per decesso o infermita’ grave. (Corte Costituzionale, sentenza n. 1 del 17 Gennaio 1987). La stessa Corte con sentenza 179 del 21 Aprile ’93, riconosceva il padre, nell’alternativa alla lavoratrice madre consenziente, il diritto di fruire i permessi giornalieri. Successivamente, mediante un’ordinanza 144 del 16 Aprile ’87, veniva a cadere il vincolo di lavoratrice subordinata che doveva avere la madre. Sempre la Corte Costituzionale con sentenza 341 del 15 Luglio ’91, estendeva al padre affidatario provvisorio del minore il diritto di fruire dell’astensione obbligatoria dal lavoro in alternativa alla moglie lavoratrice. Ora la legge 53/2000 ha definitivamente chiarito la situazione: il padre ha gli stessi diritti della madre anche se per diversi aspetti i suoi diritti sono ancora subordinati all’impossibilita’ o alla volonta’ materna di non usufruirne.
(Daniele Zamperini)

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Saranno più semplici le prossime convenzioni
E’ stata approvata in via definitiva dal Senato il 3 Dicembre 2000 la legge intitolata "Norme sull’organizzazione e sul personale del settore sanitario" che contiene una regola che, in modo diverso rispetto al passato, regola l’entrata in vigore degli accordi collettivi nazionali (le convenzioni dei medici generici e dei pediatri). Infatti viene stabilito (art. 6) che tali accordi sono resi esecutivi con Decreto del Presidente della Repubblica entro il termine di 30 giorni della sottoscrizione previa espletamento della procedura di cui all’art. 51 del D. Legisl. 3 Febbraio ’93 n. 29 e modif.
Tale norma stabilisce che, una volta raggiunto l’accordo tra le parti, il Consiglio dei Ministri, tramite il Ministro della funzione pubblica dal Consiglio stesso autorizzato, esprime entro 5 giorni dalla comunicazione il parere sul testo contrattuale e sugli oneri finanziari conseguenti diretti e indiretti. Questo parere verra’ poi trasmesso alla Corte dei Conti con la quantificazione dei relativi costi per la certificazione di contabilita’ con gli strumenti di programmazione bilancio. La Corte dei Conti deve deliberare a sua volta entro 15 giorni dalla trasmissione dei dati dopodiche’ la certificazione si intende effettuata positivamente. In caso che la Corte dei Conti respinga la convenzione il Presidente del Consiglio dei Ministri assume le iniziative necessarie per adeguare i costi contrattuali anche con una riapertura delle trattative.
In sostanza risulta non piu’ previsto il passaggio attraverso il parere del Consiglio di Stato. E’ noto come negli passati il Consiglio di Stato avesse spesso ritardato l’attuazione degli accordi convenzionali con una serie di rilievi non sempre giustificati.

D. Zamperini

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LE GUIDE PER LA VALUTAZIONE QUANTITATIVA DEL DANNO ALLA PERSONA,
IL 100% DI INVALIDITÀ PERMANENTE E LA MORTE

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(Questo articolo, editoriale di un prossimo numero della Rivista Italiana di Medicina Legale, viene qui pubblicato in anteprima assoluta per gentile concessione del Direttore della Rivista, Prof. Francesco Introna, e dell' Autore, Prof. Angelo Fiori, Direttore dell' Istituto di Medicina Legale dell' Universita' Cattolica di Roma), che ringraziamo.
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1. La recente pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 25 luglio 2000 delle nuove Tabelle per l’indennizzo dell’inabilità permanente nell’assicurazione sociale contro gli Infortuni e le Malattie Professionali, in applicazione del D.L. 23 febbraio 2000 n. 38, segue di pochi anni la 4^ edizione della nota Guida di Luvoni, Mangili e Bernardi, la seconda edizione della Guida della SIMLA e la pubblicazione di altre Guide, nonché le tabelle dell’invalidità civile e quelle sugli handicap. Ed anticipa la possibile elaborazione di una Guida europea, prevista da una Raccomandazione, indirizzata recentemente al Parlamento Europeo da una Commissione ad hoc, tendente a realizzare una omogeneizzazione tra gli Stati Membri nel risarcimento del danno alla persona da responsabilità civile.
Si tratta di Guide destinate alla valutazione quantitativa delle conseguenze dannose di menomazioni psicofisiche permanenti - dovute a cause diverse - con criteri derivanti dalle norme di riferimento e dalla giurisprudenza o da contratti. Le accomuna limpiego della stessa unità di "misura" costituito dalla quantificazione percentuale.
La diversità degli ambiti giuridici giustifica, ovviamente, anche le differenze riscontrabili nelle tabelle, alcune delle quali sono a carattere orientativo – come quelle per la responsabilità civile e per la valutazione dell’invalidità civile - altre sono tassative, perlomeno per le voci cardine, come quella dell’INAIL, e quelle delle polizze di assicurazione privata contro gli infortuni.

L’analisi che qui si intende compiere - nell’attesa, destinata probabilmente ad essere lunga, di una Guida europea per la valutazione del danno alla persona da responsabilità civile - è finalizzata ad accertare, per quanto riguarda l’Italia, se i profondi mutamenti avvenuti nella dottrina e nel diritto giurisprudenziale, nonché nella prospettiva di forse imminenti modifiche del Codice Civile che includano il cosiddetto danno biologico, abbiano o meno una corrispondenza coerente ed adeguate motivazioni nelle nuove Guide. La nuova tabella INAIL (Tabella delle menomazioni), riguardando l’indennizzo del danno biologico, propone anche problemi aggiuntivi, sia di natura dottrinale che di applicazione pratica, specie in relazione al regresso ed alla rivalsa, ma questi non appartengono al tema specifico di questo Editoriale. Vi rientra invece la possibilità di eventuali modifiche future di alcune voci tabellari consentita dal carattere sperimentale di una parte dell’art. 13 del D.L. 38/2000.
Lo studio della storia naturale di queste diverse guide-tabelle – che è indispensabile e deve opportunamente estendersi a comparazioni con qualche guida straniera - ne dimostra l’origine genetica comune chiaramente visibile nel loro impianto generale e nei principi che da esso traspaiono e porta a concludere che il processo di aggiornamento ha tendenzialmente mantenuto la struttura originaria privilegiando il decremento solidale delle varie voci in luogo di un rimescolamento delle voci tabellate che il mutare dell’oggetto della quantificazione avrebbe a nostro avviso richiesto.
Chi scrive è pienamente consapevole che il proporre un riesame critico delle strutture tabellari dopo la loro pubblicazione in epoche recenti, ha senso, se le conclusioni cui si perverrà venissero condivise, soltanto ai fini di una futura revisione. D’altro canto la ricerca scientifica, in questo settore come in qualsiasi altro, non può rinunciare alla propria connaturata esigenza di rimettere continuamente in discussione le conoscenze e la prassi.

2. L’impiego del metodo percentuale per la stima dell’invalidità permanente ha la sua indubbia validità pratica quale risulta da alcune elementari constatazioni.

E’ un metodo impiegato da quasi un secolo ed è quindi entrato largamente nell’uso, quantomeno in molti paesi. E’ convertibile in moneta con metodi diversi a seconda dell’ambito in cui viene utilizzato. Non è un metodo scientifico in senso stretto – pur basandosi su conoscenze scientifiche anatomiche e funzionali relative ai singoli organi od apparati – ma può avvalersi, come di fatto si avvale, di accordi convenzionali cui l’uso di numeri conferisce un alone di scientificità e nel contempo di asetticità.
E’ tuttavia evidente a chiunque che questo metodo è di per sé alquanto grossolano. A prima vista appare quanto sia temeraria l’idea di poter "misurare" il valore di una struttura estremamente complessa come l’uomo, disponendo dell’equivalente di un metro lineare, cioè di cento punti. Se la misura fosse espressa in millesimi, sarebbe forse uno strumento meno limitato, potendosi avvalere di mille punti per meglio quantificare situazioni intermedie ; ma il vantaggio così ottenibile non sarebbe comunque risolutivo.
E’ altrettanto evidente – ed è questo forse il punto più debole del sistema - che il metodo percentuale non è in grado di riprodurre, nel suo incremento lineare, l’esponenzialità dell’incremento del danno dovuto alle menomazioni più gravi, spesso concorrenti e plurime, in genere designate come "macropermanenti". E’ questo un limite ancor maggiore di quello che si riscontra all’estremo opposto della scala, cioè quello dei danni minimi, o "micropermanenti", difficili da quantificare attraverso punti percentuali, che spesso appaiono eccessivi. Appare dunque chiaro che non si tratta di un metodo di "misura" bensì di un metodo di "stima", molto approssimativa, del decremento anatomo-funzionale conseguente a lesioni configuranti stato di malattia generale o locale.

3. Nel corso del Secolo XX si possono individuare tre successivi periodi nell’elaborazione ed introduzione di tabelle per la stima dell’invalidità permanente.
Al primo periodo, che giunge fino alla prima metà degli anni sessanta, appartengono la Tabella dell’Assicurazione Sociale contro gli Infortuni inserita nel Regolamento del Testo Unico del 1904; la Tabella orientativa proposta da Antonio Cazzaniga nel 1928 per la responsabilità civile e le Tabelle delle polizze private di assicurazione contro gli infortuni.
Il secondo periodo si può far datare dal 1965, anno di pubblicazione del D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 che negli allegati n.1 e 2 conteneva nuove Tabelle della valutazione del grado percentuale di inabilità permanente dell’industria e dell’agricoltura, ampliate e modificate rispetto alla Tabella del 1904. Alcuni anni dopo una Commissione di giuristi, medici legali e assicuratori ha proposto in un convegno tenutosi a Como nel 1967, ed approvato nel 1968 in un ulteriore convegno a Perugia, una nuova Tabella orientativa per la valutazione del danno alla persona da responsabilità civile. Al 1969 risale la pubblicazione della Tabella proposta, con le stesse finalità, dalla Società Romana di Medicina Legale peraltro limitata al sistema locomotore Nel corso del "secondo periodo" sono state pubblicate anche altre tabelle citate nelle note n.5, 6 e 7.
Il terzo periodo si può datare dall’anno di pubblicazione della citata 4° edizione della Guida di Luvoni, Mangili e Bernardi (1995) che muta il titolo delle precedenti edizioni (Guida alla valutazione medico-legale dell’invalidità permanente) - le prime due dovute a Ranieri Luvoni e Ludovico Bernardi, la terza, anche a Franco Mangili - in "Guida alla valutazione medico-legale del danno biologico e dell’invalidità permanente" introducendo modifiche di talune voci e, soprattutto, mutando l’oggetto della quantificazione percentuale: dal danno patrimoniale a quello biologico in senso stretto. Nello stesso anno è stata pubblicata la "Guida –tabella del Danno Biologico a carattere permanente e invalidante" ad opera di Cittadini e Zangani (1995) seguita poco dopo dalla "Guida orientativa per la valutazione del danno biologico permanente" compilata sotto l’egida della Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni da Marino Bargagna, Marcello Canale, Francesco Consigliere, Luigi Palmieri e Giancarlo Umani Ronchi (1996 ) giunta ormai alla sua terza edizione.
E’ del 12 luglio 2000, come già detto, il Decreto del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, che pubblica le nuove tabelle da utilizzare per l’indennizzo degli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

4. La prima Tabella di legge è contenuta nell’art. 95 del "Regolamento per la esecuzione della Legge (testo unico) 31 gennaio 1904 n. 51 per gli infortuni degli operai sul lavoro". Per l’indennizzo delle inabilità permanenti parziali il legislatore ha ritenuto opportuno sin da allora evitare giudizi arbitrari e sperequazioni per cui ha stabilito alcuni punti fissi di riferimento costituiti da cifre percentuali di riduzione della capacità lavorativa misurata in rapporto alla riduzione del salario. La Tabella comprendeva 22 voci, 20 delle quali riferite alla "perdita" di arti o parti di essi, altre 2 relative alla perdita monolaterale dell’udito e della facoltà visiva di un occhio.
Il T.U. del 1904 ha stabilito che "in caso di perdita di più membra, od arti, od organi o di più parti dello stesso organo" si doveva determinare di volta in volta "la riduzione del salario" "tenendo conto di quanto effettivamente, in seguito all’infortunio, è stata diminuita l’attitudine dell’operaio al lavoro" rispettando le norme concernenti le riduzioni corrispondenti alla singole lesioni. "L’abolizione assoluta e inguaribile della funzionalità di membra, arti od organi" era equiparata alla perdita anatomica. Inoltre quando "le membra, gli arti o gli organi" fossero resi "soltanto parzialmente inservibili", la riduzione del salario si doveva determinare "sulla base della riduzione assegnata per la perdita totale di essi, in proporzione del grado della funzionalità perduta, senza però che la riduzione medesima possa essere inferiore al cinque per cento".
I criteri generali di utilizzo della Tabella per gli infortuni sul lavoro erano dunque fissati con molta precisione e chiarezza sin dal 1904.
E’ interessante rilevare che le analoghe voci contenute nelle due Tabelle successive, allegate al Testo Unico D.P.R. n. 1124 del 30 giugno 1965 (quella per l’Industria composta di 58 voci, ed una tabella per la valutazione dell’acuità visiva, quella per l’Agricoltura di 40 voci) presentano differenze di percentuali, alcune di minore rilievo, altre più radicali. La perdita delle dita della mano destra, analogamente alla perdita totale dell’avambraccio sinistro, era tariffata nel 1904 con il 70%, quella di tutte le dita della mano sinistra con il 65%, valori rimasti uguali nella Tabella dell’Agricoltura del 1965, abbassati nella Tabella dell’Industria rispettivamente al 65% per le dita della mano destra, al 55% per quelle della mano sinistra. La perdita del pollice destro era tariffata nel T.U. del 1904 con il 30%, quella del sinistro con il 25%, valori che nel 1965 sono stati ridotti rispettivamente al 28% ed al 23% nella Tabella dell’Industria, ma sono rimasti identici in quella dell’Agricoltura. La perdita della facoltà visiva di un occhio è rimasta immutata al 35 % dal 1904 al 1965, nelle due tabelle. Ma la sordità completa di un orecchio, valutata con il 10% nel 1904, è stata aumentata nel 1965 al 15% per l’Industria, al 20% per l’Agricoltura.
Non sappiamo quali siano stati i criteri seguiti per effettuare queste variazioni. Non appaiono comunque sufficientemente giustificate le differenze nei valori percentuali assegnati dalla tabella per gli infortuni nell’Agricoltura rispetto a molte identiche voci della tabella dell’Industria anche se può facilmente immaginarsi che siano state prodotte da considerazioni pratiche inerenti la diversa soglia di franchigia che allora era del 10% per l’Industria e del 15% per l’Agricoltura, differenze scomparse a causa dell’omologazione di tutte le franchigie al 10% operata dalla Corte Costituzionale.
Queste tabelle, com’è noto, contenevano percentuali più elevate rispetto a quelle orientative proposte per la responsabilità civile nell’epoca antecedente il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno biologico. Tale ipervalutazione dipendeva dal riferimento alla "attitudine al lavoro" e quindi ad un aspetto reddituale (sia pure in regime indennitario) connesso alla prevalente attività lavorativa manuale svolta dagli operai dell’industria e dell’agricoltura specie nel periodo storico che ha visto la nascita delle tabelle.
E’ interessante notare la rilevante conseguenza che ha avuto l’esclusione dell’indennizzabilità della perdita di un testicolo in entrambe le Tabelle del 1965. Su questa decisione del legislatore del 1965, razionalmente giustificata dal riferimento all’attitudine al lavoro, si è di fatto incagliato il Testo Unico del 1965 in quanto ha fornito lo spunto per la richiesta di intervento della Corte Costituzionale motivata con la mancanza di indennizzo del cosiddetto danno biologico. Dopo anni di attesa colmata in modo disuguale dalla giurisprudenza, il Parlamento ha accolto i ripetuti inviti della Corte Costituzionale prevedendo con la Legge delega n.144/1999 (art. 55, comma 1, punto s) la "idonea copertura e valutazione indennitaria del danno biologico", quest’ultimo definito nell’art. 13 del successivo D.L. 23 febbraio 2000 n. 38. La nuova Tabella delle Menomazioni del 12 luglio 2000 che tale articolo prevede, sostituisce le precedenti del 1965 all’interno di un impianto molto più complesso, ed originale, costruito per la necessità di conciliare l’obbligo di indennizzare oltre il danno reddituale presuntivo anche il danno biologico, nel contempo salvaguardando per quanto possibile la salute del bilancio dell’INAIL.
Non è questa la sede per un’analisi approfondita delle nuove "Tabelle Inail", in particolare di quella denominata "Tabella delle Menomazioni" che pure ha evidenti connessioni generali con il tema di questa nota. E’ sufficiente ricordare che essa si avvale di importanti indicazioni criteriologiche, consta dei 387 voci e di 3 allegati (allegato n. 1 udito; n. 2 pneumopatie ostruttive e restrittive, interstiziopatie, asma; n. 3 vista).
Interessa invece riferirsi, a titolo esemplificativo per quanto si discuterà più avanti paragrafi, ad alcune voci relative e menomazioni motorie messe a confronto con menomazioni di organo od apparato quali la "cecità assoluta bilaterale" (n. 369) tariffata con l’85%, la nefrectomia (n. 356) con il 18%, la splenectomia con necessità di accorgimenti terapeutici (n. 109) quantificabile fino al 9%, la perdita di un testicolo (n. 349) tariffata con il 6%; la "tetraplegia alta" (n. 138) 100%, la paraplegia (n.141) 85%, la "perdita totale del pollice" (n. 243) d. 20 s. 16.

5. Nella responsabilità civile la valutazione percentuale dell’invalidità permanente ha avuto un suo strumento nella breve ma significativa Tabella orientativa proposta da Antonio Cazzaniga nella sua fondamentale monografia del 1928, ancora insuperata, perlomeno sotto il profilo metodologico. Se la tabella degli Infortuni sul Lavoro del 1904 aveva come parametro di riferimento l’incidenza negativa delle menomazioni sull’attività prevalentemente manuale degli operai, la tabella orientativa di Cazzaniga doveva estendersi a qualsiasi categoria di cittadini. Dovendo comunque fare riferimento alla capacità di produrre reddito, il Cazzaniga ha utilizzato efficacemente l’espressione di capacità lavorativa "ultragenerica" per distinguerla dalla capacità lavorativa generica dell’operaio. Di conseguenza egli ha proposto, per voci analoghe a quelle della tabella infortuni del 1904, valori percentuali più bassi ma senza rivoluzionare l’impianto generale della tabella e mantenendo sostanzialmente uguale il rapporto interno delle singole percentuali. In altri termini la diversità dei due settori – gli Infortuni nell’assicurazione sociale e la Responsabilità Civile - ha comportato una differenziazione tra i più elevati valori percentuali della legge sugli infortuni e quelli più bassi suggeriti dal Cazzaniga per la responsabilità civile, ma senza un rimescolamento delle voci e senza variazioni essenziali nei rapporti quantitativi tra di esse il che era giustificato dal contenuto reddituale del danno in entrambi gli ambiti.

A quanto ci risulta, pur senza aver potuto compiere analisi approfondite, le polizze private di assicurazione sin da allora hanno adottato contrattualmente voci e valori percentuali sovrapponibili a quelli del Cazzaniga.
Un quarto di secolo ha separato l’opera di Cazzaniga dalla proposta innovativa di Cesare Gerin di risarcire l’invalidità biologica in quanto tale, indipendentemente dalle sue conseguenze economiche, ed un tempo ancora più lungo è trascorso prima che iniziasse, alla metà degli anni sessanta, la lunga stagione delle nuove tabelle (che ha occupato il secondo ed il terzo "periodo").
L’iniziativa che ha portato alla compilazione della Tabella di Como e Perugia (1967-1968), ispirata da Aldo Franchini, è nata dall’esigenza di convogliare il contenzioso stragiudiziale e giudiziario per responsabilità civile entro binari per quanto possibile sottratti ad arbitrii valutativi.
La Tabella di Como e Perugia è stata compilata nel perdurante regime di risarcibilità limitata al danno patrimoniale e al danno extrapatrimoniale. Appare tuttavia un segno evidente della evoluzione dottrinale già allora in corso il fatto che la definizione del danno tariffato nella Tabella di Como e Perugia sia stata quella "danno biologico di rilevanza patrimoniale", espressione coniata da Aldo Franchini.
La Tabella di Como e Perugia è stata pubblicata con il corredo di un Decalogo che ne ha costituito parte integrante indicandone i criteri applicativi, ovviamente a carattere orientativo. Il Decalogo è riportato nell’introduzione della citata "Guida alla valutazione medico-legale dell’invalidità permanente" così denominata da Luvoni e Bernardi nelle due prime edizioni.
Questa Guida, che per comodità designeremo come Guida LMB, ha avuto un ruolo rilevante nella diffusione della Tabella di Como e Perugia e per molti anni, fino alla pubblicazione della Guida della SIMLA, è stata lo strumento più usato da coloro che hanno svolto attività valutativa medico legale, sia in ambito di responsabilità civile che nell’assicurazione sociale e in quella privata contro gli infortuni. Tale indiscusso successo si deve sicuramente al fatto che gli Autori hanno aggiunto, sin dalla prima edizione (1970), molte voci intermedie rispetto a quelle principali della Tabella di Como-Perugia, includendo utili nozioni, commenti e suggerimenti di natura medica e medico-legale, e proponendo le percentuali indicative affiancate su tre colonne, relative ai tre diversi settori quelli sopra menzionati: la responsabilità civile (R.C.), gli infortuni sul lavoro (I.L.) e gli infortuni nell’assicurazione privata (I.P.).
Il mutamento radicale della giurisprudenza in tema di danno alla persona da responsabilità civile - iniziato a Genova nel 1974, ma affermatosi definitivamente solo dopo la sentenza della Corte Costituzionale n.184/ 1986 - ha indotto gli Autori della Guida LMB ad operare nella 4° edizione delle modificazioni sia nel titolo del manuale (cfr. supra e nota n.2) sia in molte percentuali orientative.
Questi cambiamenti sono stati sommariamente giustificati dagli Autori nell’Introduzione alla 4° edizione. All’origine la Guida, come già detto, aveva come parametro di riferimento il "danno biologico di rilevanza patrimoniale" concetto che nelle pagine introduttive della 4° edizione gli Autori ritengono coincidente con il sopravvenuto concetto di "danno biologico". Ma in realtà si tratta di una identità apparente perchè la differenza è invece sostanziale, relativa alla natura del danno tariffato.
La diversità consiste infatti nel titolo e nel metodo risarcitorio, che nella Tabella di Como e Perugia erano strettamente ed esclusivamente inerenti il danno patrimoniale economico. Le percentuali stimate dal medico legale venivano tradotte in moneta principalmente attraverso il calcolo di capitalizzazione, a sua volta basato sul reddito reale o figurato del danneggiato. In altri termini, la natura del danno che veniva percentualizzato nella Tabella di Como e Perugia era esclusivamente riferita al danno patrimoniale da lucro cessante, in linea, del resto, con il concetto espresso dal Franchini: "danno biologico di rilevanza patrimoniale".
Il cambiamento di titolo della Guida LMB nella 4° edizione coincide in realtà con il radicale mutamento dell’oggetto della valutazione perchè attua il trasferimento della quantificazione percentuale dalla stima del danno patrimoniale a quella del danno biologico: una decisione inevitabile, cui peraltro ha fatto seguito la perdita di uno strumento tabellare di stima del danno patrimoniale vero e proprio da ridotta capacità di guadagno, perdita alla quale finora non si è apportato univoco rimedio. In altri termini lo stesso sistema di stima (quello percentuale), è stato spostato, con modeste modifiche, dalla quantificazione del danno patrimoniale da invalidità permanente alla quantificazione di un tipo di danno sostanzialmente diverso (il danno alla salute) sia pure ricondotto anch’esso al "danno ingiusto" previsto dall’art. 2043 c.c.
Le differenze "quantitative" che si riscontrano nel confronto tra le percentuali della Tabella di Como e Perugia, e quelle della 4° edizione della Guida LMB non sono invece molto rilevanti, come segnalano gli stessi Autori, i quali giustificano questa loro scelta argomentando anche che "il riferimento al valore medio di capacità lavorativa [utilizzato nelle precedenti edizioni] in realtà non rappresentava per quel tempo che il modo di consentire la risarcibilità, nell’ambito del danno patrimoniale, anche delle menomazioni che con la capacità lavorativa di fatto non avevano a che fare. Basti pensare alle menomazioni dell’apparato genitale, pur considerate nella tabelle, a certe menomazioni dell’efficienza estetica e così via".
Tuttavia alcune tra le modificazioni introdotte, a carattere riduttivo, ed in particolare quelle riguardanti gravissimi handicap, assumono invece una rilevante importanza sul piano concettuale ed etico, oltre che sul piano pratico (anche se si tratta di menomazioni poco frequenti): ed è questo il problema che più di altri ha offerto spunto per questo Editoriale.

La successiva Guida orientativa elaborata dalla Società Italiana di Medicina Legale attraverso l’opera impegnativa ed apprezzabile di alcuni autorevoli membri, è stata invece dedicata esclusivamente al "danno biologico" da responsabilità civile. Rispetto alla Tabella di Como-Perugia e alla Guida LMB si registrano, oltre ad una articolazione molto ampia di voci accompagnata da suggerimenti e spiegazioni, ulteriori modifiche, il più delle volte riduttive della quantificazione percentuale.
Il principio del diritto alla risarcibilità od almeno alla indennizzabilità (in ambito Inail) del cosiddetto danno biologico è stato alla fine trasfuso anche nella nuova tabella INAIL che per molte voci si differenza in misura evidente dalle tabelle Inail del 1965,in misura molto minore anche dalla 4° edizione della Guida di LMB e da quella della SIMLA, risultando sovrapponibile, o quasi, per molte voci.

6. Le domande che sembra giustificato porsi, a questo punto, anche nella prospettiva di una eventuale tabella europea, sono le seguenti:

- le attuali Guide orientative per il danno da responsabilità civile, e la nuova Tabella Inail, destinate ormai tutte alla valutazione dell’invalidità permanente "biologica", sono il prodotto di una reale ristrutturazione tabellare tale da fornire percentuali essenzialmente espressive non già della ridotta capacità lavorativa bensì della salute compromessa, ovvero la struttura di base delle nuove tabelle è rimasta nella sostanza quella tradizionale, con correttivi di minore rilievo, prevalentemente a carattere riduttivo delle percentuali?

- il confronto con le tabelle per la responsabilità civile adottate in alcuni altri paesi, fonti da cui potrebbe nascere il barème europeo, consente di riscontrare identità dell’oggetto della valutazione, tale da giustificare scelte identiche, ovvero identifica solo delle generiche analogie?

La risposta che crediamo si possa dare alla prima domanda, attraverso un semplice confronto tra le varie tabelle italiane, induce a concludere che in realtà l’impronta genetica delle antiche tabelle è rimasta abbastanza visibile. Permane - benché attenuato attraverso riduzioni di varia entità dei valori percentuali - il rilievo attribuito alle menomazioni motorie che mantengono una relativa preminenza (in taluni casi giustificata) rispetto ad altre menomazioni anatomo-funzionali a carico di fondamentali apparati od organi. Il rapporto quantitativo tra queste due categorie di menomazioni rimane infatti prevalentemente immutato in quanto la riduzione delle percentuali le colpisce talora entrambi: come nel caso del passaggio dal 100% all’80% della cecità assoluta o dal 100% all’80% per la perdita di entrambe le mani (Guida LMB). Ma nella stessa Guida LMB alla riduzione sostanziosa della percentuale assegnata alla cecità assoluta (80%) si contrappone immutato il 70% assegnato, come nelle precedenti edizioni, alla perdita dell’arto superiore destro (appena 10% in meno della cecità assoluta), che invece è tariffato con il 60% nella Guida SIMLA.
Nella tabella esemplificativa allegata abbiano messo a confronto alcune voci più tipiche di menomazioni motorie e di menomazioni a carico di altri importanti organi rilevabili in alcune guide per la responsabilità civile, passate e recenti, nonché le tabelle Inail del 1965 e del 2000.

Responsabilità civile Inail

C.G.

CO-PE

L.M.B.-4°

SIMLA

Inail 1965

Inail 2000
Arto Superiore dx*

Arto superiore sin*

Dita mano dx*

Dita mano sin*

Pollice dx*

Pollice sin*

Arto inf. alla coscia*

Piede*

Alluce*

Tetraplegia

Paraplegia

Sordità bilaterale

Sordità monolaterale

Cecità bilaterale

Cecità monolaterale

1 Rene*

Milza*

1 Testicolo*

Epatite cronica

60

50

 

20

18

60

35

 

 

40

18

100

20

70

60

55

48

25

20

80

40

7

100

100

60

12

100

25

10

5

70

60

55

48

25

20

80

40

7

80

80

60

12

80

25

25

10

5

10-15

60

55

48

43

20

18

60

30-35

6

90

80

50

10

85

25

15

5-10

5

11-40

85

75

65

55

28

23

80

50

7

100

100

60

15

100

35

25

15

0

25-30

60-65

50-55

48

41

20

16

45-60

30

4

100

85

50

12

85

28

18

9

6

Fino a 25

C.G. Cazzaniga-Giolla CO-PE Como-Perugia (i numeri in corsivo sono suggeriti da LMB 3° edizione) LMB-4° (Luvoni, Mangili Bernardi 4° edizione), SIMLA: Guida Bargagna, Canale, Consigliere, Palmieri, Umani Ronchi.
* Perdita

Appare evidente, da queste voci cardine, che la scelta prevalente operata dalle nuove guide è stata quella di confermare la maggiore rilevanza attribuita alle menomazioni motorie.
E’ giustificata questa scelta a fronte del mutato oggetto della stima percentuale costituito dal risarcimento, o l’indennizzo del danno biologico, anziché di quello patrimoniale da ridotta o perduta capacità reddituale? O non è forse doveroso compiere uno sforzo di ristrutturazione dell’antico impianto delle tabelle per renderle più coerenti con la natura giuridica del danno medicolegalmente quantificato, operando una più radicale rielaborazione nel rapporto tra le varie voci per tenere maggiormente in conto il rispettivo valore anatomo-funzionale di ciascuna di esse in relazione al bene tutelato cioè l’integrità psicosifica –salute?

7. La scelta finora operata, anche nelle tabelle più recenti, ci sembra abbia dunque obbedito ad un criterio sostanzialmente conservatore.
Pur comprendendo le ragioni pratiche di tale scelta, intesa a realizzare anche una omologazione internazionale – perché molte voci sono simili a quelle di altre guide, come quella francese, che tuttavia ha un differente oggetto della quantificazione - non crediamo si possa tuttavia rinunciare ad una analisi nella prospettiva dell’opzione più radicalmente innovativa. Per evitare che questa nostra analisi sia giudicata sterile, in quanto superata dai fatti, essa può almeno proporsi di far riflettere i compilatori dell’elaborando barème europeo – ma anche coloro che elaborano guide-tabelle italiane per la responsabilità civile e coloro che possono operare correzioni dell’appena pubblicata tabella INAIL delle menomazioni - affinché accettino di confrontarsi in una pubblica discussione, eventualmente accedendo all’ipotesi, concordata, di opportuni correttivi nell’impianto generale e nella quantificazione di talune menomazioni.
Nel proporre questa riflessione siamo pienamente consapevoli del fatto che l’ostacolo principale, ed intrinseco, ad una più soddisfacente strutturazione delle tabelle è costituito comunque, ed insuperabilmente, dalla povertà dello strumento percentuale, il quale non è in grado di rispondere ad esigenze così complesse come quelle che si manifestano nella varietà delle possibili menomazioni psicofisiche e delle loro possibili associazioni. Né ci si può nascondere il fatto un altro ostacolo che la rielaborazione delle tabelle sicuramente incontra, rappresentato dalla consuetudine ormai secolare di privilegiare determinate menomazioni (quelle motorie) che d’altro canto figurano tra le più frequenti in ambito traumatologico.
Esiste in realtà uno spazio di approfondimento del problema, collocato al centro di qualsiasi tabella per la valutazione percentuale dell’invalidità permanente. Le percentuali adottate dall’inizio del secolo XX, poi più volte adattate e corrette, sono senza dubbio il frutto di decisioni convenzionali: ma ciò non significa che queste convenzioni non si siano avvalse di un razionale criterio di base, e che questo non debba essere adattato alla nuova realtà.
Tale criterio, che invero non ci risulta sia mai stato esplicitato in quanto tale, riteniamo si possa identificare nel principio della focalità, termine che si trae dal ben noto ed antico concetto, elaborato in patologia, di malattie focali (foci tonsillari, dentari ecc.) tuttora ritenuto valido in ambito clinico. Si tratta notoriamente di una concezione che attribuisce valore patologico rilevante a modeste patologie localizzate, sedi di colonie batteriche pericolose per la possibilità di diffusione e di danno a livello di apparati vitali come il cuore ed il reni. Utilizzando il concetto nel nostro ambito, per lata analogia, può ritenersi "focale", sotto il profilo funzionale e non già eziopatogenetico, quella menomazione che, pur essendo il più delle volte localizzata, esercita per sede e per natura una rilevante influenza dannosa sull’intera persona.
Tale influenza dannosa - che chiamiamo focale esclusivamente per sottolineare l’influenza generale di una menomazione locale - può essere considerata secondo due distinte prospettive, cioè in rapporto ai differenti effetti dannosi prodotti da una identica menomazione psicofisica:
la focalità con effetti dannosi generali sulla capacità di lavorare e produrre
la focalità con effetti dannosi generali sullo stato di salute o comunque sull’integrità psicofisica della persona.

E’ ovvio che esistono, tra le due categorie, delle intersezioni ed interazioni in quanto la fonte biologica del danno è la stessa.
E’ palese, sin dalle percentuali assegnate a determinate menomazioni dalla Tabella del Testo Unico del 1904, il valore "focale" loro attribuito nei confronti dell’intera capacità lavorativa (quindi reddituale) del danneggiato. Pertanto se la perdita di un pollice destro, in un destrimane, veniva quantificata con il 30% (in seguito con il 28%) - cioè con poco meno di 1/3 della valore complessivo della persona (100%) - significa che a quella menomazione anatomica, indubbiamente modesta rispetto all’intero corpo umano, si attribuiva una assai rilevante influenza "focale" sulla globale capacità lavorativa, prevalentemente manuale, del leso.
Mutando l’oggetto della quantificazione percentuale- dal danno reddituale al danno biologico - il concetto di focalità mantiene intatta la sua essenza ma poiché il danno considerato ai fini del risarcimento o dell’indennizzo non è più quello lavorativo in quanto tale, bensì il danno alla salute nel suo aspetto statico, cioè l’integrità psicofisica (quello "dinamico" non è considerato nelle tabelle fatta eccezione per la Tabella Inail delle Menomazioni che al comma 2 del D.L. 38/2000 include nelle percentuali di legge gli "aspetti dinamico-relazionali") è evidente che per ogni menomazione permanente l’ottica di attribuzione dei valori percentuali deve mutare e, in linea di principio, le menomazioni motorie dovrebbero essere riequilibrate rispetto a quelle che interessano gli organi più importanti per l’integrità psicofisica attuale e futura dell’individuo.    

Si deve indubbiamente prendere atto del fatto che l’integrità biologica (la cui menomazione costituisce il fondamento naturalistico del danno biologico, presupposto dell’aspetto giuridico del danno alla salute) ha gradi diversi di "visibilità" organica e funzionale. Perdere un pollice è nel contempo dotato di elevata visibilità anatomica e, per gli adattamenti che richiede in alcune attività, è anche molto visibile nella funzionalità perduta. La perdita di un rene, al contrario, è sostanzialmente priva di "visibilità" anatomica (al più si può vedere una cicatrice cutanea chirurgica) e può esserlo anche di visibilità funzionale ma solo sotto il profilo della mancanza di alterazioni cliniche e bioumorali pur configurando una menomazione rilevante specie per i rischi futuri che può implicare. Queste differenze hanno una loro importanza psicologica anche dal punto di vista del danneggiato, che istintivamente tende a dar maggiore rilievo alle menomazioni facilmente visibili.
A questo proposito occorre anche richiamare la necessità di una revisione delle conoscenze scientifiche nella compilazione delle moderne tabelle. Per quanto riguarda il monorene, ad esempio, le conoscenze odierne dimostrano che nel fisiologico processo di invecchiamento, ed indipendentemente dal sopravvenire di patologie a carico del rene superstite, si realizza in quest’ultimo una progressiva scomparsa di molti glomeruli che rende ben diversa la situazione funzionale rispetto a chi possiede entrambi i reni. Un altro esempio può essere la milza, tanto sottovalutata, le cui funzioni da tempo note oggi sono meglio conosciute. I due esempi riportati rientrano nel grande problema delle menomazioni delle grandi funzioni "vitali" – la respirazione, la circolazione, la digestione, gli emuntori - che in genere danneggiano nell’attualità o in prospettiva con maggiore evidenza medica tutto l’organismo, rispetto alle funzioni motorie che hanno un maggiore grado di indipendenza dall’economia generale.
Se il concetto, per ora provvisorio, di danno biologico come "lesione dell’integrità psicofisica della persona (art. 13 del D.L. 38/2000) che il legislatore ha individuato aggiornando il Testo Unico Inail, dovesse essere esteso anche al risarcimento del danno alla persona da responsabilità civile – come per ora sembra di poter prevedere – appare evidente che questo concetto, del resto già compreso in quello di danno-base elaborato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, specie dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 184/1986, coincide con il decremento della globale integrità psicofisica dell’individuo indipendentemente da fatto che la menomazione implichi, nell’attualità, sintomi clinici: la perdita del rene e della milza, ad esempio, sono assai spesso quasi, o del tutto, asintomatiche.
Il concetto di danno alla integrità psicofisica appare omologabile, benché non totalmente sovrapponibile, a quello che la giurisprudenza - e la medicina legale – hanno elaborato in tema di esiti permanenti di malattie configuranti lesione personale ex artt. 582, 583 e 590 c.p. in cui il bene tutelato è appunto l’integrità anatomo-funzionale della persona. Se la Cassazione penale ha sempre ritenuto integrare l’aggravante dello "indebolimento permanente di organo" una menomazione anche minima purché apprezzabile, a fortiori costituiscono grave "indebolimento permanente" menomazioni importanti come la perdita di un rene od anche la pur "svalutata" perdita della milza (che alcune sentenze della Suprema Corte hanno ritenuto addirittura perdita di organo a causa della sua indubbia unicità anatomica).
La lesione dell’integrità psicofisica – che in sede penale richiede soltanto il superamento di valori di soglia per integrare il livello delle lesioni gravi e quelle delle lesioni gravissime – in sede civile comporta il riferimento ad una scala di valori basati sulle comuni e fondamentali conoscenze della medicina aggiornate con le acquisizioni degli studi più recenti.
Ci sembra infatti evidente che in ambito di risarcimento (o indennizzo) del "danno biologico" la menomazione permanente deve essere quantificata percentualmente tenendo conto primariamente del valore anatomo-funzionale dell’organo con riguardo marginale (non certo nullo) alle conseguenze "visibili" ed anche all’eventuale attualità di una sintomatologia clinica.
Attribuire all’anchilosi di un’anca in posizione favorevole il valore percentuale di danno biologico del 40% (Guida LMB) od anche il 30% (Guida SIMLA) significa avvalersi esplicitamente, e correttamente, del concetto di focalità dannosa. La menomazione anatomica, rispetto all’intero organismo è infatti di modesta entità ma i riflesso generale sull’integrità, e sulla salute, è rilevante e può risultare tale, a seconda dei casi, anche sulla capacità di produrre reddito. Analoghe considerazioni si possono svolgere prendendo ad esempio il pollice destro (25% Guida LMB, 20% Guida SIMLA), struttura che non ha molto peso anatomico, ma ne ha uno ben maggiore sul piano funzionale, comprendendo nella "funzione" anche l’aspetto estetico di decremento visibile dell’integrità della persona.
Se questo è indiscutibilmente il principio, che abbiamo denominato di focalità, che sta alla base delle tabelle (se così non fosse le due menomazioni esemplificate dovrebbero essere fortemente declassate a causa del loro scarso "peso" anatomico)", non è in alcun modo giustificabile l’abbassamento operato nella tariffazione di organi di primaria importanza anatomo-funzionale quali il rene, un testicolo, la milza, il fegato, l’organo dell’equilibrio e così via. Sotto il profilo dell’integrità psicofisica della persona la loro svalutazione non è scientificamente giustificata e quindi non è medicolegalmente accettabile.

8. Delle due domande che ci siamo poste in un paragrafo precedente (cfr. supra 6) la seconda domanda poneva il problema del confronto con le tabelle per la responsabilità civile adottate in alcuni altri paesi, dal quale potrebbe nascere il barème europeo, per verificare se l’ipotesi di omologazione delle tabelle esistenti risponda, oltrechè a motivi di mera opportunità, anche ad una reale identità di oggetto, che giustifichi scelte identiche, ovvero solo forti analogie.  
La nota Guida dell’American Medical Association precisa, nella Introduzione, che i valori percentuali proposti riguardano il medical impairment che può produrre a sua volta la disability. Il medical impairment è defininito "an alteration of health status assessed by medical means" mentre la disability è "an alteration of the patient’s capacity to meet personal, social and occupational demands, or to meet statutory or regulatory requirements, which is assessed by nonmedical means".
Se la salute (health) è dunque alla base della Tabella statunitense dell’A.M.A. potrebbe desumersi che nessuna ragionevole differenza possa sussistere in una tabella italiana relativa all’aspetto statico del danno biologico e quindi anche l’85% attribuito alla cecità assoluta dalla Guida SIMLA sia nel tutto omologo all’84% della Guida A.M.A. che assegna inoltre il 25 percento alla perdita di un occhio ed il 22 percento alla perdita del pollice dominante. Non è tuttavia chiaro a sufficienza se il concetto di salute su cui si basa la Tabella AMA - che ha indubbiamente molte coincidenze di valori percentuali rispetto alla Guida LMB e alla Guida SIMLA – coincida con il concetto più restrittivo che si va prospettando nel nostro ordinamento, a partire dal D.L. 38/2000, cioè quello di integrità psicofisica, sovrapponibile all’originaria concezione di Cesare Gerin.
In sede europea, dove è in atto il sopra citato tentativo di una armonizzazione, sono invece di chiara evidenza le differenze che, a titolo di esempio, possono evidenziarsi rispetto al sistema risarcitorio francese del "dommage corporel en droit commun". Il confronto con la Francia è importante perché la Guida orientativa della Società francese di Medicina Legale, proposta in prima edizione nel 1982, quindi posteriore alla Tabella di Como e Perugia ma di molto anteriore alla Guida SIMLA, ha molte percentuali "cardine" sostanzialmente sovrapponibili a quest’ultima (ed ora, sia pure parzialmente, con la Tabella Inail delle menomazioni) ed è da ritenere abbia avuto molta influenza sui barème che si sono pubblicati in Europa successivamente, ad esempio in Spagna, e che possa averla anche in futuro sul barème europeo.
Occorre ricordare che in Francia, come è stato illustrato recentemente da Michel Penneau, i cosiddetti "chefs de préjudice" non hanno definizione legale ma derivano dalla dottrina e dalla giurisprudenza e si distinguono in "patrimoniali" economici, ed "extrapatrimoniali" o personali, non economici: solo relativamente ai primi la Securité Sociale può esercitare diritto di rivalsa.
Il Barème indicatif des incapacités en droit commun francese apparso per la prima volta sul n. 25 de Le Concours Médical (19 giugno 1982) contiene le tariffe indicative per una forma di danno che non a caso è denominato dommage physiologique, non già "dommage biologique". Questa forma di danno è essenzialmente a carattere funzionale al punto che la perdita anatomica di un rene o della milza, se privo nell’attualità di conseguenze clinico-funzionali, può essere valutato con lo 0%. Questa concezione, del tutto rispettabile, ma ben lontana dall’attuale principio italiano di lesione dell’integrità psicofisica, spiega perché il barème, pur mantenendo la tariffazione del 25% per la perdita della vista di un occhio abbia abbassato anch’esso all’85% la valutazione percentuale della cecità assoluta.
La guida francese ha fornito una motivazione di questa modifica restrittiva che è da ritenere illuminante per l’analisi che qui stiamo prospettando e che induce a concludere non sia per ora mutuabile in Italia dove l’oggetto della quantificazione percentuale è la lesione dell’integrità psicofisica e non il danno prevalentemente funzionale. Si motiva testualmente, nella nostra letterale traduzione italiana dell’introduzione del barème francese del 1982: "Il tasso del 100% è concesso attualmente con troppa facilità, il che obbliga i giudici e gli assicuratori a distinguere tra piccoli e grandi 100%. Per lo stesso tasso, l’entità del risarcimento può in effetti variare molto a seconda dello stato reale del danneggiato. Non è anormale attribuire il 100% ad un paraplegico che può muoversi da solo, guidare la sua automobile, avere un’attività professionale ed una vita famigliare? Certo, la diminuzione della sua capacità è grande, ma la sua percentuale è lontana dalla cifra massima. L’approccio all’incapacità attraverso lo studio della capacità residua è un buon metodo. Per valutare le incapacità elevate, è in effetti necessario controllare il risultato attraverso l’apprezzamento inverso della capacità residua. E’ talora più facile stabilire il tasso di capacità che persiste dopo un danno importante che non assegnare tassi dell’ordine dell’80 o 90%. E’ così che un cieco mantiene la propria intelligenza intatta, ed intatto l’uso dei suoi arti. Certo, le sue attitudini sono ridotte e le possibilità di riadattamento variano in base ad una serie di fattori, in particolare l’età. Percentualizzare una tale diminuzione di capacità non può essere che arbitrario: il presente barème propone un tasso dell’85% per la perdita della visione". Il chiarimento concettuale definitivo, che dimostra la rilevante differenza rispetto al danno biologico italiano, si desume dall’intoduzione della Guida-barème pubblicata successivamente. L’incapacité permanente è definita come "la riduzione a causa delle sequele traumatiche della capacità fisiologica, cioè del potenziale fisico, psicosensoriale e intellettuale della persona lesa. Il campo di applicazione di questa capacità è quello della vita quotidiana: si tratta dunque di una incapacità generale, o funzionale, di un disturbo, di una difficoltà o di una impossibilità negli atti della vita corrente, la vita di qualsiasi persona in ciascuno dei suoi componenti diurni e notturni, la vita per sé e per l’entourage, la vita personale e familiare". E poco dopo: "l’incapacità permanente si situa al livello funzionale: è dunque il deficit personale permanente". Questa è dunque la ragione per la quale il danno oggetto del risarcimento, e quindi della tariffazione mediante il barème, non è denominato in Francia dommage biologique bensì dommage physiologique e quindi ha un connotato prevalentemente funzionale, relativo alla ridotta "capacità".
E’ evidente, che questo tipo di danno non coincide se non in parte con il danno biologico statico elaborato dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiana, bensì dà prevalenza assoluta all’aspetto dinamico che in Francia, inoltre, è per una sua parte ulteriormente distinto, e risarcito, sotto le voci autonome dei "préjudices dits annexes" come il Préjudice estethique, il préjudice sexuel, il préjudice d’agrément (limitazioni nella vita sportiva, artistica ecc.) oltre alle souffrances endourées (pretium doloris).
Appare dunque improprio, perlomeno allo stato attuale, omologare in Italia talune percentuali a quelle francesi, proposte con finalità in discreta parte diverse. Il concetto di focalità dannosa per l’integrità psicofisica, nell’ottica dell’ordinamento italiano che da pochi mesi ha definito sia pure in forma sperimentale il danno biologico in ambito Inail e si accinge a definirlo anche per la responsabilità civile ci induce pertanto a ritenere inaccettabili le riduzioni della tariffazione percentuale di alcuni handicap gravissimi, in particolare quelli che riguardano la cecità assoluta, la tetraplegia, la paraplegia, dal 100% all’85% o all’80%.Non è infatti la capacità residua che deve considerarsi in questa valutazione bensì, all’inverso, l’entità della compromissione globale "focale" dell’integrità psicofisica dell’individuo in relazione all’importanza della struttura danneggiata.  
E’ agevole considerare che se si dovesse far riferimento alla "capacità residua" il ragionamento proposto dai francesi per il danno del cieco assoluto, del tetraplegico ma anche del paraplegico, indurrebbe ad abbassare la perdita di un pollice a 5-6 punti in percentuale essendo evidente che il residuo anatomo- funzionale di chi abbia perso un solo pollice destro, sia esso valutato con il 20 o, a fortiori, con il 25%, è in realtà ben maggiore dell’80 od 85% che la differenza 100-20, o 100-25, fa risultare. Ci si dovrebbe spiegare, insistendo nell’emblematico esempio del pollice, come la perdita di un solo dito su dieci delle due mani, possa essere valutata un quarto della paralisi completa (non già paresi) degli arti inferiori e la necessità di vivere in carrozzella.

9. L’abbattimento contestuale e solidale dei valori percentuali per la quantificazione del danno biologico, ha dunque mantenuto, non solo in Italia, la tradizionale supremazia delle menomazioni motorie deprimendo in modo ingiustificabile le menomazioni a carico di altre strutture ed organi che, ai fini dell’integrità psicofisica dell’uomo, hanno spesso un valore comparativamente più rilevante.
Con lo stesso meccanismo, ed anche con motivazioni aggiuntive che non ci sentiamo di condividere, si sono trascinati al ribasso percentuali massime, pari al cento percento, tradizionalmente attribuite a gravissimi handicap, quali la cecità assoluta, la tetraplegia, la paraplegia. La nuova Tabella Inail ha seguito questo esempio pur mantenendo al 100% la tetraplegia.
Abbiamo visto (cfr. supra par. 8) che in qualche misura tale abbattimento può forse giustificarsi nel barème francese che fa riferimento essenzialmente alla funzione e alla capacità, non già all’integrità. Questa decisione, in Italia, si è avvalsa anche di un argomento utilizzato dai colleghi francesi, cioè l’imbarazzo concettuale creato da menomazioni ancora più gravi, quale ad esempio uno stato di coma apallico. Assegnare il 100% alla cecità assoluta, si afferma, non rende disponibile un punteggio maggiore per condizioni di ancora maggiore gravità.
Si è anche udito affermare che il 100% coinciderebbe con la morte dell’individuo: motivazione singolare che commenteremo brevemente al prossimo paragrafo.
Noi possiamo rinunciare - anche se con gravi dubbi circa la giustificazione etica di questa scelta imposta da necessità pratiche di semplificazione - a dotarci di un metodo di quantificazione medico-legale del danno alla persona che sia capace di tener conto dell’incremento esponenziale, e non meramente lineare, della compromissione del bene integrità e salute, accontentandoci di compensare questa grave insufficienza tecnica mediante l’incremento esponenziale del valore economico del punto, nella fase di traduzione della percentuale in moneta. Ma questa accettazione dei nostri limiti non può giungere ad impoverire ulteriormente il già grossolano metodo di misura di cui disponiamo.
Vari sono gli argomenti che si devono opporre al declassamento delle tariffazioni assegnate a gravissimi handicap.
Il più elementare di questi argomenti è costituito dall’assurdità di avvalersi di un metodo di quantificazione per proprio conto rozzo, del tutto convenzionale, e comunque insufficiente – costituito da cento punti – e di aggravare il già grave problema riducendo ulteriormente lo strumento di misura cioè privandolo dei valori dal 95 al 100.
Più decisivo a dirimente è l’argomento che l’operazione restrittiva entra in insanabile conflitto con il principio di focalità (cfr. supra par. 7) che, ove anche non lo si voglia definire con questo termine, rimane la sostanza della tecnica di tariffazione percentuale. Non sarebbe agevole spiegare ad un danneggiato, come la perdita del pollice dominante sia valutata con il 20% cioè un quarto, o poco meno, della cecità assoluta, e l’anchilosi dell’anca, con la metà ovvero più di un terzo: valori accettabili in sé e per sé ma a condizione che la cecità, la tetraplegia e la stessa paraplegia riprendano le posizioni percentuali che sono proporzionali all’enorme gravità dell’handicap potendo giungere a saturare lo strumento di quantificazione di cui disponiamo.
Non può neppure affermarsi che il 100% appiattisce le valutazioni perché la sua soglia è di fatto superabile, nella responsabilità civile, attraverso lo strumento complementare dell’equità ed il risarcimento del danno morale e, nell’assicurazione obbligatoria, attraverso le prestazioni per superinvalidità.
Si deve anche considerare che questi gravissimi handicap sono infrequenti nella pratica peritale e quindi gravano in misura molto modesta sul costo globale delle assicurazioni private e di quella obbligatoria rispetto a quello enorme delle micropermanenti.
E’ infine doveroso riflettere su questo problema anche dal punto di vista dell’etica del consenso sociale. Queste decisioni tabellari restrittive hanno certo obbedito a considerazioni che, pur a nostro avviso non condivisibili, possono forse trovare una loro motivazione. Ma è indubitabile che, effettuate dopo quasi un secolo di utilizzo del 100% per quantificare menomazioni molto gravi – poco importa se motivato dall’aspetto reddituale delle menomazione o da quello attuale dell’integrità psicofisica – devono essere sottoposte al vaglio di un’opinione pubblica allargata per quanto sia possibile oltre l’area degli esperti, proprio in ragione della discrepanza palese tra la comune sensibilità di fronte ai gravissimi handicap, e il marginale rilievo di considerazioni aritmetiche, per di più in contrasto con la logica interna del sistema tabellare, come abbiamo cercato di dimostrare.
E’ da considerare un segno positivo, ed incoraggiante, il fatto che la Commissione europea, come ha riferito Borovia, abbia a lungo discusso la quantificazione ed il risarcimento delle menomazioni gravi, da taluno considerate tali le "macropermanenti" che superano il 70%, ed abbia proposto che il barème europeo progettato non venga obbligatoriamente applicato in queste particolari evenienze.

10. Abbiamo dunque udito, ma senza trovarlo scritto, (e se abbiamo appreso esattamente) che la cifra massima del 100% non si potrebbe comunque assegnare se non in caso di menomazioni gravi plurime e numerose perchè equivarrebbe alla morte della persona. E’ un’idea bizzarra ed inaccettabile sia dal punto di vista biologico che da quelli umano, filosofico e giuridico ed anche contraddittoria perché se il 100% è la morte non si dovrebbe poterlo usare neppure in casi di menomazioni plurime.
La morte è la fine irreversibile della vita biologica che implica il passaggio nel regno dei trapassati e la cancellazione dell’individuo dal registro dello stato civile.
Nel lungo dibattito, non ancora concluso, che in Italia si è sviluppato sulla trasmissibilità ereditaria del risarcimento del danno biologico (per ora la Corte di Cassazione ha deciso positivamente a condizione che il leso sopravviva per qualche tempo, peraltro non quantificato) Giannini e Pogliani, tra gli altri, ci hanno ricordato che nel nostro Paese il diritto alla salute ed il diritto alla vita, pur avendo origine entrambi dai diritti della personalità (art. 2 della Costituzione) sono considerati e regolati separatamente per mezzo del differente trattamento che le leggi loro riservano.
Alcuni potrebbero forse citare Georg Wilhelm Hegel che nella sua Enciclopedie des Sciences Philosophiques (1817) ha affermato che la malattia fisica non può generare la perdita intera della salute coincidente con la morte. Ma si tratta di una affermazione che farebbe la felicità di Monsieur de La Palisse. In realtà non è necessario essere un grande filosofo per comprendere la differenza radicale tra la vita e la morte.
Quanto al nostro povero ma indispensabile strumento di stima percentuale dell’invalidità permanente di persona ancora in vita è non solo necessario, ma addirittura doveroso, impiegarlo tutto, in modo coerente, senza ridurne le già ridotte possibilità.

11. Le conclusioni che si possono trarre da questa analisi, che non ha la pretesa di essere esaustiva di un così complesso problema, sono in breve le seguenti.

a. Le percentuali orientative contenute in alcune Guida-Tabelle (la Guida di Luvoni-Mangili-Bernardi; la Guida della SIMLA elaborata da Bargagna-Canale-Consigliere-Palmieri-Umani Ronchi) per la valutazione del danno biologico a da responsabilità civile – ed anche quelle tassative recentemente pubblicate dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale per l’indennizzo del stesso tipo di danno nell’assicurazione sociale contro gli infortuni e le malattie professionali – propongono percentuali simili ma spesso non coincidenti.
Questi valori sono a loro volta simili a quelli di alcune Guide straniere molto note. E’ da ritenere che il Barème francese, in particolare, abbia esercitato una rilevante influenza su alcuni paesi europei, tra cui l’Italia, ma le analogie di molte tariffazioni non sono giustificate da una identità di oggetto della valutazione perché il dommage physiologique francese non coincide con il danno biologico statico, elaborato dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiana ora coincidente con la lesione dell’integrità psicofisica.

b. Le nuove tabelle italiane recano ancora "l’impronta genetica" della loro origine legata alla quantificazione della riduzione della capacità lavorativa, in quanto pur contenendo valori percentuali ridotti nella tariffazione delle menomazioni motorie, queste hanno conservato e talora accentuato la loro preminenza rispetto alle menomazioni di organi ed apparati di maggiore rilevanza rispetto all’integrità psicosomatica. Infatti la riduzione consistente (da 10 a 20 punti) del punteggio percentuale assegnato a gravissimi handicap quali, per fare alcuni esempi, la cecità assoluta, la tetraplegia, la paraplegia, le gravissime alterazioni della favella, le sindromi dissociative, le forme gravi di sindrome psicorganica e di deterioramento psichico, appare in contrasto con la finalità radicalmente mutata delle tabelle destinate alla quantificazione del danno biologico rispetto a quelle compilate per il danno "lavorativo".
Il concetto di focalità dannosa che rappresenta la chiave metodologica nella costruzione di tabelle deve infatti ispirarsi ad una chiara differenziazione nella quantificazione degli effetti dannosi della menomazione psicofisica sulla capacità dell’individuo rispetto alla quantificazione degli effetti dannosi sulla salute-integrità costituzionalmente protetta.

c. Ai gravissimi handicap, sia di tipo sensoriale (cecità totale) sia motorio (tetraplegia, paraplegia) deve a nostro motivato avviso essere restituita la percentuale del 100% potendosi invece variare, caso per caso, il calcolo del danno economico da lucro cessante prodotto da queste menomazioni.

d. L’utilizzo del 100% di invalidità permanente biologica è del tutto giustificato dalla natura dello strumento di stima impiegato, la percentuale, e non ha comunque alcuna connessione con la morte dell'individuo.

e. L’evoluzione delle norme che è in atto, ed il prevedibile ulteriore riassestamento della giurisprudenza nei prossimi anni, rende indispensabile un confronto ad ampio raggio sui complessi problemi della valutazione medico-legale del danno alla persona da responsabilità civile ed anche delle sue relazioni con la nuova normativa per la quantificazione medico-legale del danno da infortunio sul lavoro e da malattia professionale.
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Note:

1 D.M. del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale 12 luglio 2000.. pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 25 luglio 2000 n. 119.Le Tabelle sono pubblicate e commentate in G. Cimaglia e P. Rossi, Danno Biologico. Le Tabelle di Legge, Giuffrè, Milano 2000.

2 Luvoni R., Mangili F. e Bernardi L. Guida alla valutazione medico-legale del danno biologico e dell’invalidità permanente, Giuffrè, Milano 1995 4° edizione.

3 Bargagna M., Canale M., Consigliere F., Palmieri L. e Umani Ronchi G., Guida orientativa per la valutazione del danno biologico permanente, Giuffrè, Milano 1998.E’ in corso di stampa la terza edizione.

4 Cittadini A. e Zangani P. Guida-tabella del Danno Biologico a carattere permanente e invalidante, Morano Napoli 1995 ; Luvoni R., F. Mangili F. e Ronchi E. Guida alla valutazione medico-legale dell’invalidità permanente da malattia nell’assicurazione privata, Giuffrè, Milano 1992; Bruno G., Cattinelli L., Cortivo P., Farneti A., Fiori A. e Mastroroberto L. Guida alla valutazione del danno in ambito dell’infortunistica privata, Giuffrè, Milano 1998.Un’ampia rassegna delle guide internazionali è stata elaborata da I. Pitzorno Guida breve alla valutazione del danno alla persona nel Trattato di Medicina Legale e di Scienze Affini diretto da G. Giusti, CEDAM, Padova 1999 vol. 5° pag. 1309 segg.

5 Decreto Ministeriale 5 febbraio 1992 Approvazione della nuova tabella indicativa delle percentuali di invalidità per le minorazioni e malattie invalidanti, Gazzetta Ufficiale 26,2,1992 n.47. Questa tabella è molto diversa dalla precedente contenuta del D.M. 25 luglio 1980, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 14 ottobre 1980 n. 282.

6 In applicazione della Legge 5 febbraio 1992 n.104 sono state elaborate tabelle analitiche di valutazione dell’handicap: cfr. Scorretti C. Colafigli A., Dal Pozzo C., Fallani M., Consigliere F. e F. Fratello. L’analisi delle capacità. Implicazioni e prospettive medico-legali. Riv. t. Med. Leg. 18,435,1996. Cfr. anche Scorretti C. Dall’invalidità civile all’handicap, Liviana ed. Napoli 1993.

7 La Raccomandazione elaborata nel giugno 2000 dalla Commissione internazionale di giuristi e medici legali, coordinata da Francesco Busnelli è stata illustrata da César Borobia, dell’Università Complutense di Madrid, nel corso del 33° Congresso della SIMLA, Brescia 25-28 ottobre 2000, Atti Preliminari pag. 203.

8 L’art. 13 del D.L. 38/2000, al comma 1 recita "In attesa della definizione di carattere generale di danno biologico e dei criteri per la determinazione del relativo risarcimento, il presente articolo definisce, in via sperimentale, ai fini della tutela dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali il danno biologico come lesione dell’integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona." Nel n. 2, lettera a) il D.L. stabilisce che "le menomazioni conseguenti alle lesioni dell’integrità psicofisica di cui al comma 1 sono valutate in base a specifica ‘tabella delle menomazioni’, comprensiva degli aspetti dinamico-relazionali".

9 Cazzaniga A. Le basi medico-legali per la stima del danno alla persona da delitto o quasi delitto, Ist. Editoriale Scientifico, Milano 1928.L’analisi delle forme di danno alla persona, pur riferita al danno patrimoniale economico, era quasi sovrapponibile alle voci di risarcimento attualmente previste nella giurisprudenza francese. La monografia è stata ripubblicata da P. Giolla con l’aggiunta di parti rilevanti: Valutazione del danno alla persona nella responsabilità civile, Giuffrè, Milano 2da edizione 1967.

10 La Tabella Como-Perugia è stata pubblicata da Duni A.,Cattabeni M.e Gentile G. La valutazione del danno alla persona. Criteriologia e tabella delle invalidità. Giornate medico-legali di Como 30 giugno – 2 luglio 1967, Giuffrè, Milano 1968

11 Tabella ufficiale della Società Romana di Medicina Legale e delle Assicurazioni per la valutazione delle menomazioni interessanti il sistema locomotore, Zacchia 44,269,1969.

12 Cfr. la nota n. 9.

13 Gerin C., in Atti delle giornate medico-legali triestine della società italiana di medicina legale e delle assicurazioni. Trieste 1952. Il pensiero di Cesare Gerin, nei suoi sviluppi, è ampiamente riportato nella successiva monografia La valutazione medico-legale del danno alla persona da responsabilità civile, Giuffrè, Milano 1987.

14 Franchini A. La valutazione medico-legale del danno biologico di rilevanza patrimoniale. Giornate medico-legali di Como 30 giugno-2 luglio 1967, Noseda, Como 1967.

15 Cfr nota n. 10.

16 Cfr. nota n.3

17 La milza è il maggior organo linfoide dell’organismo che svolge svariate importanti funzioni: immunologica, di filtro, di riserva cellulare, di ematopoiesi, di relazione del volume ematico (riceve un flusso di circa 300 ml al minuto corrispondente al 5% della portata cardiaca) e "possiede strutture vascolari e parenchimali qualitativamente specifiche" cfr. C. Sacchetti e A. Ponassi, Metodologia Diagnostica, Piccin, Padova 1991, 2° edizione. E’ nota anche la specifica attività della milza nei confronti della infezione da pneumococco.

18 Guides to the evaluation of permanent impairment, Americn Medical Association, Chicago 4° ed., 1993.

19 Barème fonctionnel indicatif des incapacités en droit commun, Le Concours Médical , suppl. al n. 25 del 19 giugno 1982.

20 Penneau M. Relazione al 33°Congresso della SIMLA, Brescia 25-28 ottobre 2000.

21Les séquelles traumatiques.Evaluation médico-légale des incapacités permanentes en droit commun, edita congiuntamente dalle edizioni A.Lacassagne e da Le Concours Médical, 1991. La nuova edizione, in corso di stampa, è pubblicata da ESKA e Lacassagne. Sono in corso di pubblicazione altre tabelle orientative, proposte da differenti organismi.

22 cfr. nota n. 7

23 Giannini G. e Pogliani M. Il danno da illecito civile, Giuffrè, Milano 1997.

 

Angelo Fiori

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