INDICE
GENERALE
PILLOLE
APPROFONDIMENTI
MEDICINA LEGALE E
NORMATIVA SANITARIA
Rubrica gestita da D. Z. per
l'ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale Università Cattolica
PILLOLE
Warfarin, un anticoagulante sempre attuale
Il "New England Journal of
Medicine" ha pubblicato in anteprima nella sua edizione online, i risultati di uno
studio, che ha coinvolto più di 500 pazienti, sulla prevenzione del tromboembolismo
venoso con il Warfarin a basso dosaggio.
Il Warfarin è un anticoagulante che è entrato nell'uso terapeutico agli inizi degli anni
50.
Mentre la sua efficacia come anticoagulante non è stata mai messa in discussione, il suo
impiego nella profilassi delle malattie tromboemboliche è stato limitato dalla possibile
insorgenza di emorragie, soprattutto nei soggetti anziani, nel corso del trattamento.
Ora grazie allo Studio PREVENT (Prevention of Recurrent Venous Thromboembolism), il
Warfarin ha riacquistato interesse.
Lo Studio PREVENT, iniziato nel 1998 avrebbe dovuto terminare nel 2005, ma nel dicembre
2002 il Data and Safety Monitoring Board ha raccomandato l'interruzione prima del tempo
dello studio per gli evidenti benefici prodotti dal Warfarin.
Il Warfarin, utilizzato a bassi dosaggi, ha infatti ridotto del 64% il rischio di recidive
di trombosi venosa profonda o di embolia polmonare, presentando nel contempo
un'accettabile profilo di sicurezza.
Emorragia maggiore è stata riscontrata in 2 pazienti nel gruppo placebo ed in 5 nel
gruppo Warfarin (p = 0.25). Otto pazienti nel gruppo placebo sono morti contro 4 nel
gruppo Warfarin (p = 0.26).
Associando il rischio di recidive di trombosi al rischio di emorragie e morte, il Warfarin
a basso dosaggio ha ridotto il rischio totale del 48%.
Attualmente la prevenzione della trombosi venosa profonda idiopatica e dell'embolia
polmonare consiste nella somministrazione di Eparina o di Eparina a basso peso molecolare,
seguita dall'assunzione per 3-6 mesi di Warfarin a dosaggio pieno.
Spesso il trattamento con il Warfarin a dosaggio pieno deve essere sospeso a causa del
rischio di emorragie.
Lo Studio PREVENT ha dimostrato invece che l'impiego del Warfarin a basso dosaggio
permette di instaurare una profilassi del tromboembolismo venoso, di lunga durata.
The New England Journal of
Medicine, Edizione online, 2003
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Il Verapamil è associato ad un aumento del rischio di
cancro nei pazienti anziani
Il dibattito riguardo alla possibile
relazione tra assunzione di farmaci calcioantagonisti ed insorgenza di cancro, è ancora
aperto.
I Ricercatori del Department of Pharmacoepidemiology & Pharmacotherapy dell'Utrecht
Institute for Pharmaceutical Sciences in Olanda hanno analizzato i dati dello Studio
Rotterdam, uno studio prospettico di coorte.
Allo studio avevano preso parte 3.204 persone anziane, di 71 anni ed oltre.
Il rischio relativo di insorgenza di tumore nei pazienti che facevano uso di
calcioantagonisti è stato di 1,4 (1,2 dopo aggiustamento).
Il Verapamil è risultato significativamente associato allo sviluppo di cancro con un
rischio relativo di 2,1 (2,0 dopo aggiustamento), mentre nessuna associazione è stata
trovata con altri calcioantagonisti (Diltiazem, Nifedipina).
Altri farmaci antipertensivi (beta-bloccanti, diuretici, ACE inibitori) non sono risultati
associati a neoplasie.
Sulla base di questi dati, il Verapamil sembra associato ad un aumento del rischio di
tumore. Il dato andrà verificato da altri studi.
Eur J Cancer 2003; 39: 98-105
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Possibile correlazione tra ipertensione polmonare e
ipertensione arteriosa
L'ecocardiografista segnala spesso
la presenza di ipertensione polmonare in pazienti in cui questa patologia non appare
supportata da cause congruenti.
Per spiegare questo fenomeno gli autori di questo studio hanno cecato di correlare
l'ipertensione polmonare all'ipertensione sistemica.
Sono stati identificati 42 pazienti con pressione polmonare sistolica uguale o maggiore di
40 mm hg, ottenuta con misurazioni doppler, ma senza malattie polmonari in atto o
all'anamnestico, nè valvulopatie o disfunzioni sistoliche o diastoliche.
Questi pazienti (età media 70 anni) sono stati paragonati con 84 controlli associati per
età che non presentava ipertensione polmonare.
La prevalenza di ipertensione sistemica fu del 98% tra i pazienti che presentavano
ipertensione polmonare e 72% tra i controlli. La differenza risultò significativa.
Inoltre, la pressione media sistolica misurata immediatamente dopo l'ecocardiografia
risultò significativamente maggiore nel gruppo affetto da ipertensione polmonare rispetto
al gruppo di controllo (154 contro 138 mm hg).
Il valore della pressione diastolica risultò simile nei due gruppi.
La ipertensione sistemica sembra quindi giocare un ruolo importante nella ipertensione
polmonare di pazienti senza cause polmonari manifeste.
Finkelhor RS et al
Unexplained pulmonary hypertension is associated with systolic arterial hypertension in
patients undergoing routine Doppler echocardiography
Chest 2003 Mar; 123: 711-5
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Trattamento medico contro chirurgia nella
coronaropatia sintomatica nell'anziano
Sono stati selezionati 301 pazienti
di età uguale o superiore a 75 anni affetti da coronaropatia sintomatica non rispondente
ad almeno due farmaci antianginosi. I pazienti sono stati randomizzati per essere trattati
chirurgicamente o con trattamento medico. Il follow-up durò un anno.
Endpoints primari: qualità di vita e assenza di eventi avversi maggiori (morte, infarto
miocardio acuto non fatale, sindrome coronaria acuta, ricovero per impossibilità di
controllare i sintomi).
I risultati a sei mesi dimostrarono un vantaggio per il gruppo trattato in modo invasivo,
con tuttavia un lieve eccesso di mortalità. I risultati a un anno non mostrarono
differenze significative nei tassi di mortalità (11% terapia invasiva, 8% terapia
medica), di infarto fatale e non fatale (17% terapia invasiva, 20% terapia medica).
Tuttavia il complesso di morte, infarto non fatale, sindrome coronaria acuta o
ospedalizzazione (MACE: Major Adverse Clinical Events) risultò significativamente
maggiore nel gruppo trattato con terapia medica (64% contro 25%).
Le misure della qualità della vita non diedero risultati significativamente diversi.
Va detto che alla fine il 46% dei pazienti trattati con terapia medica furono sottoposti a
rivascolarizzazione, a paragone del 65% del gruppo sottoposto a trattamento invasivo.
Quindi si può sicuramente concludere che la qualità della vita è simile nei due gruppi
di trattamento. Tuttavia nel gruppo trattato con terapia medica si ebbe una maggior
evenienza di MACE (Major Adverse Clinical Events) dovuti particolarmente ai ricoveri
ospedalieri.
L'alta percentuale di pazienti passati da un gruppo all'altro rende più difficoltosa
l'interpretazione del quadro. Si può affermare che i pazienti anziani con angina cronica
possono scegliere tra una strategia invasiva con i rischi connessi o una terapia medica
aggressiva con rischi di ricoveri futuri e interventi di rivascolarizzazione.
Pfisterer M et al
Outcome of elderly patients with chronic symptomatic coronary artery disease with an
invasive vs optimized medical treatment strategy: One year result of the randomized TIME
trial
JAMA 2003 Mar 5; 1117-23
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Studio OFELY: predittori indipendenti di fratture osteoporotiche nelle donne
in postmenopausa
L'obiettivo dello studio è stato
quello di identificare i predittori indipendenti delle fratture associate all'osteoporosi
nelle donne in postmenopausa.
Una coorte di 672 donne, sane, in postmenopausa, d'età media 59,1 anni, sono state
seguite per 5,3 +/-1,1 anni.
Nel corso del follow-up i Ricercatori dell'INSERM (National Institute for Medical
Research) e della Claude Bernard University di Lione (Francia) hanno osservato 81 fratture
osteoporotiche, con un'incidenza annuale di 21/1000 donne/anno.
Sono stati individuati 7 predittori indipendenti di fratture osteoporotiche: età uguale o
superiore a 65 anni [OR 1,90], cadute in passato [OR 1,76], densità minerale ossea (BMD)
totale dell'anca minore o uguale a 0,736g/cm(2) [OR 3,15], forza di presa sinistra
inferiore o uguale a 0,60 bar [OR 2,05], storia materna di fratture [OR 1,77], ridotta
attività fisica [OR 2,08], storia personale di fratture da fragilità [OR 3,33].
Al contrario, il peso corporeo, la perdita di peso, la perdita in altezza, il fumo, la
coordinazione neuromuscolare valutata da 3 test, la terapia di sostituzione ormonale, non
sono risultati predittori indipendenti delle fratture da fragilità dopo aggiustamento per
tutte le variabili. Pertanto gli Autori consigliano di includere nella valutazione clinica
del rischio di fratture osteoporotiche nelle donne in postmenopausa:
- la qualità della struttura ossea
(precedenti fratture da fragilità);
- lo stile di vita (attività fisica);
- la funzione muscolare (la forza di
presa);
- le cadute;
- l'età.
Bone 2003; 32: 78-85
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Studio CONVINCE: il Verapamil COER è analogo ai
beta-bloccanti e ai diuretici nel ridurre il rischio cardiovascolare
Lo studio CONVINCE (Controlled Onset
Verapamil Investigation of Cardiovascular End Points) ha valutato se il trattamento
antipertensivo iniziale con il calcioantagonista Verapamil COER (controlled-onset
extended-release) fosse equivalente al trattamento con il beta-bloccante Atenololo o al
diuretico Idroclorotiazide nel prevenire la malattia cardiovascolare.
Sono stati arruolati nello studio, condotto in 667 Centri in 15 Paesi, 16.602 pazienti
ipertesi, con uno o più fattori di rischio per la malattia cardiovascolare.
Dopo circa 3 anni di follow-up, la Società Farmaceutica sponsor dello studio lo ha
interrotto prematuramente.
I pazienti erano stati assegnati a ricevere 180 mg di Verapamil COER oppure 50 mg di
Atenololo, oppure 12,5 mg di Idroclorotiazide.
Se necessario i pazienti potevano ricevere altri farmaci tra cui: diuretici, beta
bloccanti, o ACE inibitori.
L'end-point primario era rappresentato dalla prima manifestazione di ictus, infarto
miocardico o morte di natura cardiovascolare.
La pressione, sia sistolica che diastolica, è stata ridotta di 13,6 mmHg e 7,8 mmHg per i
pazienti trattati con il Verapamil COER, e di 13,5 e 7,1 mmHg per i pazienti assegnati
all'Atenololo o all'Idroclorotiazide.
Sono stati osservati 364 eventi cardiovascolari nel gruppo Verapamil COER contro i 365 nel
gruppo Atenololo o nel gruppo Idroclorotiazide (HR: 1,02; p=0.77).
L'hazard ratio per l'ictus fatale e non fatale è stato di 1,15 e 0,82 per l'infarto
miocardico fatale o non fatale, e 1,09 per la morte di natura cardiovascolare.
L'emorragia non ictale è risultata più comune tra i pazienti del gruppo Atenololo o
Idroclorotiazide (n=79).
La maggior parte degli eventi cardiovascolari si è presentata tra le 6 di mattina e
mezzogiorno in tutti i gruppi.
I dati dello studio CONVINCE indicano che l'efficacia della terapia con calcioantagonisti
nel ridurre il rischio cardiovascolare nei pazienti ipertesi con uno o più fattori di
rischio è simile, ma non superiore, al trattamento con beta-bloccanti.
(Xagena 2003)
JAMA 2003; 289: 2073-2082
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Maggiore incidenza di mortalità nei pazienti con
stent coronarico trattati con Clopidogrel
I Ricercatori dell'Herz-Zentrum di
Bad Krozingen in Germania e dell'University Hospital di Basilea in Svizzera hanno
confrontato il trattamento con l'antiaggregante Clopidogrel (Iscover, Plavix) rispetto al
trattamento con Ticlopidina dopo un impianto di stent, relativamente all'incidenza di
mortalità cardiovascolare.
Dopo un impianto di stent coronarico, eseguito con successo, 700 pazienti con 899 lesioni,
sono stati assegnati in modo random a ricevere un ciclo di 4 settimane di Ticlopidina
500mg (n=345) o di Clopidogrel 75mg (n=355), oltre all'Aspirina (100mg).
Il periodo di osservazione (follow-up) è stato di 28 mesi.
L'end point primario era rappresentato dalla morte cardiovascolare.
Otto pazienti trattati con Ticlopidina e 26 con Clopidogrel sono morti per cause cardiache
(hazard ratio 0,30; p=0.003).
La Ticlopidina ha ridotto il rischio di morte cardiovascolare del 63% rispetto al
Clopidogrel.
L'end point combinato (morte cardiovascolare o infarto miocardico non fatale) è stato
raggiunto in 19 pazienti trattati con la Ticlopidina contro i 40 pazienti trattati con
Clopidogrel (hazard radio: 0,45; p=0.005).
I pazienti sottoposti ad impianto di stent coronarico, e trattati con il Clopidogrel hanno
presentato una maggiore mortalità rispetto a quelli trattati con la Ticlopidina.
Secondo gli Autori, i dati di questo studio dovrebbero far riflettere sull'attuale pratica
di sostituire la Ticlopidina con il Clopidogrel.
J Am Coll Cardiol 2003;
41:969-973
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Sindromi simil-influenzali dopo vaccinazione per l'influenza
"Dottore, il vaccino
antinfluenzale mi ha fatto venire l'influenza!".
Questa frase che sentiamo spesso nei nostri ambulatori sembra la classica assurdità dei
profani, poiché il vaccino antinfluenzale è composto da virioni inattivati, e non
presenta quindi potenzialità infettive.
Durante la campagna vaccinale del 2000-2001 sono stati tuttavia segnalati in Canada 900
casi di reazione alla vaccinazione comprendenti sintomi come arrossamento oculare, tosse,
mal di gola, difficoltà respiratorie e edema facciale.
Di 281 pazienti affetti da questa associazione di sintomi oculorespiratori associati al
vaccino, il 78% riportò sintomi a carico degli occhi, l'81% sintomi respiratori e il 76%
sintomi sistemici (tra cui febbre, brividi, dolori generalizzati e stanchezza).
Il tempo medio di insorgenza era di 4 ore dopo la vaccinazione e la durata media dei
sintomi era di 24 ore.
Nei pazienti che accusarono questa sintomatologia non si riscontrò una particolare
prevalenza di patologia allergica. Si evidenziò una più alta probabilità di andare
incontro a sindrome oculorespiratoria nei pazienti cui veniva praticata la vaccinazione
per la prima volta.
La maggior parte di casi si verificò con un vaccino prodotto da una singola industra
farmaceutica che conteneva una notevole percentuale di virioni aggregati interi rispetto
alle altre marche.
è possibile quindi che effettivamente le diverse modalità di preparazione del vaccino
possano comportare la comparsa di sindromi come quelle descritte. Le lamentele dei
pazienti d'ora in avanti andranno prese sul serio
Skowronsky DM et al
Oculo-respiratory sindrome: A new influenza vaccine-associated adverse event?
Clin Infect dis 2003 Mar 15; 36: 705-13
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Altri problemi nell'uso dei FANS: maggiore rischio di sviluppare insufficienza
cardiaca nei pazienti con insufficienza renale, diabete o ipertensione
In base ai risultati di recenti
studi clinici l'impiego dei farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) aumenta di due
volte il rischio di ospedalizzazione per insufficienza cardiaca congestizia, soprattutto
nei pazienti con preesistente malattia cardiovascolare.
Uno studio caso-controllo ha valutato la relazione tra impiego di FANS ed il rischio di
primo episodio di insufficienza cardiaca in una coorte di soggetti d'età compresa tra i
40 e gli 84 anni, afferenti allo U. K. General Practice Research Database al 1° Gennaio
1996.
L'analisi ha interessato 857 persone. Il gruppo controllo era costituito da 5.000
soggetti.
Il rischio relativo, aggiustato, di insufficienza cardiaca associata alla prescrizione di
FANS è stato di 1,6.
Il rischio relativo è stato 1,9 tra i pazienti con una precedente storia di ipertensione,
diabete o insufficienza renale, e 1,3 negli individui senza queste condizioni.
I pazienti con insufficienza renale, diabete o ipertensione, quando assumono i farmaci
antinfiammatori non steroidei (FANS) sono a maggior rischio di sviluppare un'insufficienza
cardiaca.
Epidemiology 2003; 14:240-266
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Adalimumab. Un anticorpo monoclonale umano
ricombinante, per il trattamento dell'artrite reumatoide
Adalimumab (Humira) è un anticorpo
monoclonale umano, ricombinante, specifico per il TNF (Tumor Necrosis Factor).
Adalimumab si lega in modo specifico al TNF alfa impedendo l'interazione con i propri
recettori. Inoltre l'Adalimumab modula le risposte biologiche che sono indotte o regolate
dal TNF.
Adalimumab trova indicazione nella riduzione dei segni e dei sintomi, e nell'inibizione
della progressione dei danni strutturali nei pazienti adulti con artrite reumatoide
attiva, forma moderata-grave, che presentano un'inadeguata risposta ad uno o più farmaci
DMARD (disease-modifying anti-rheumatic drugs).
Adalimumab può essere impiegato da solo o associato al Metotrexato.
Il dosaggio raccomandato dall'Adalimumab nei pazienti adulti con artrite reumatoide è di
40 mg, somministrati ogni 15 giorni mediante iniezioni sottocutanee.
Le reazioni avverse gravi più comuni dopo somministrazione dell'Adalimumab sono:
- gravi infezioni,
- eventi neurologici,
- tumori.
La più comune reazione avversa con
l'Adalimumab è la reazione al sito di iniezione.
Negli studi effettuati, il 20% dei pazienti trattati con Adalimumab ha sviluppato reazioni
al sito di iniezione (eritema e/o prurito, emorragia, dolore, gonfiore) rispetto al 14%
dei pazienti che ha ricevuto il placebo.
Nella maggior parte dei casi, la comparse di reazioni al sito d'iniezione non ha
comportato la sospensione del trattamento.
La percentuale dei pazienti che ha dovuto interrompere il trattamento con Adalimumab nel
corso degli studi clinici, è stata del 7% contro il 4% con il placebo.
I principali effetti indesiderati che hanno indotto a sospendere il trattamento sono
stati: arrossamento (0,7%), rash (0,3%) e polmonite (0,3%).
(Xagena2003)
Fonte: Package Insert Humira (USA)
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Fattori che influenzano la colonizzazione dei batteri
uropatogeni
a) Tipologia della cellula ospite
L'aderenza degli uropatogeni alle cellule del tratto urinario è condizionata dalla
capacità delle adesine batteriche a riconoscere i recettori per i glicolipidi nella
parete cellulare.
b) Stato secretorio
La struttura clinica degli zuccheri nei glicolipidi sulla superficie delle differenti
cellule uroepiteliali è determinata dall'attività delle glicosiltransferasi e dipende
dal gene secretore.
Se il gene secretore è presente, gli antigeni del gruppo sanguigno possono essere
individuati nelle secrezioni vaginali e questo interferisce con l'adesione dei batteri
alle cellule epiteliali.
Le donne che vanno incontro a ricorrenti infezioni del tratto urinario, appartengono con
maggiore probabilità al gruppo non-secretore.
È stato osservato che queste donne presentano carboidrati diversi nelle glicoproteine
della parete cellulare delle cellule epiteliali del tratto urinario.
c) Gruppo sanguigno ed antigeni
leucocitari
Gli antigeni glicolipidi sulla superficie cellulare nel sistema del gruppo sanguigno B si
comportano come recettori per le fimbrie P e mediano l'aderenza di Escherichia coli con le
fimbrie P alle cellule uroepiteliali.
Le donne che soffrono di pielonefrite ricorrente, in assenza di reflusso
vescicolo-uretrale o altro fattore predisponente, hanno una maggiore probabilità di
appartenere al fenotipo del gruppo sanguigno B.
La presenza di antigene leucocitario A3 è associata a ricorrenti infezioni del tratto
urinario.
d) pH vaginale
Un basso pH nel liquido vaginale ha un effetto protettivo contro lo sviluppo delle
infezioni del tratto urinario.
e) Estrogeni
Il ruolo degli estrogeni nello sviluppo delle infezioni del tratto urinario è complesso.
Da una parte gli estrogeni aumentano il livello di glicogeno nelle cellule della vagina,
mantenendo un pH vaginale basso.
Il basso pH preserva i lattobacilli indigeni.
Tuttavia è anche possibile che un aumento della secrezione degli estrogeni nella prima
fase del ciclo mestruale faciliti la colonizzazione vaginale con Escherichia coli e
l'aderenza batterica alle cellule epiteliali della vagina.
Le infezioni del tratto urinario sono più frequenti tra i giorni 8° e 15° del ciclo
mestruale, in coincidenza con il picco degli estrogeni.
Non è ancora certo se questa maggiore suscettibilità alle infezioni sia dovuta agli
estrogeni.
Nelle donne in postmenopausa i bassi livelli di estrogeno aumentano il rischio di
infezioni del tratto urinario e questo rischio può essere ridotto con la somministrazione
di estrogeni per via topica.
f) Attività sessuale e
spermicidi
L'attività sessuale non sembra alterare la flora vaginale, ma spesso causa batteriuria e
colonizzazione vaginale da Escherichia coli.
Le sostanze spermicide modificano la flora vaginale aumentando la colonizzazione da
Escherichia coli e predispongono le donne alle infezioni urinarie.
g) Farmaci antimicrobici
Gli antibiotici e particolarmente i beta-lattamici, che alterano la normale flora
vaginale, aumentano il rischio di sviluppare infezioni del tratto urinario.
Al contrario, gli antibiotici non-lattamici non causano sostanziali cambiamenti nella
flora vaginale, non favoriscono la colonizzazione vaginale da Escherichia coli e non
aumentano il rischio di infezioni urinarie.
Gli antibiotici di scelta nel trattamento delle infezioni del tratto urinario sono la
Fosfomicina ed i Fluorochinoloni.
h) Modificazione della flora
vaginale
I lattobacilli possono proteggere la vagina dalla colonizzazione da parte di Escherichia
coli mediante diversi meccanismi:
- bloccano l'aderenza dell'Escherichia
coli e di altri uropatogeni alle cellule epiteliali;
- producono acidificazione del liquido
vaginale;
- producono perossido di idrogeno.
I lattobacilli sono stati proposti
come inibitori della colonizzazione da Escherichia coli, tuttavia, nonostante in alcuni
casi si sia assistito ad un ripristino della microflora vaginale, non è chiaro se questo
approccio abbia un valore pratico nella prevenzione delle infezioni urinarie.
i) Modificazione dell'aderenza
batterica
È stato mostrato che l'impiego intravescicale o intravaginale di carboidrati solubili con
strutture simili a quelle dei recettori uroepiteliali possa prevenire la batteriuria da
Escherichia coli. Sebbene questo sia un approccio promettente per controllare le recidive
delle infezioni urinarie, non esiste evidenza univoca della sua utilità.
Tratto da: Factors which
influence colonization by uropathogenic bacteria - 4th International Symposium,
Perspectives in Clinical Microbiology and Infections, Venice 2003
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Quanto è precisa l'ecocardiografia doppler nella misurazione della pressione
polmonare?
Per rispondere a questa domanda sono
stati sottoposti a ecocardiografia doppler e cateterismo polmonare (gold standard per la
misurazione della pressione polmonare) 166 pazienti candidati a trapianto polmonare.
Benché le due misure siano risultate significativamente correlate, esse differirono per
più di 10 mm hg nel 48% dei pazienti e per più di 20 mm hg nel 28% dei pazienti.
La ecocardiografia doppler tende ad essere sensibile ma non specifica: circa metà dei
casi di diagnosi ecocardiografica di ipertensione polmonare sono risultati falsi positivi.
Arcasoy SM et al
Echocardiographic assessment of pulmonary hypertension in patients with advanced lung
disease
Am J respir crit Care Med 2003 Mar 1; 167: 735-40
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EFOPS: l'esercizio fisico previene la perdita d'osso nelle donne
durante i primi anni della menopausa
L'esercizio fisico costante è un
efficace metodo per contrastare la perdita d'osso e prevenire l'osteoporosi durante i
primi anni della menopausa: ciò è quanto emerso dai risultati preliminari dello studio
EFOPS (Erlangen Fitness Osteoporosis Prevention Study) condotto da un gruppo di
Ricercatori tedeschi dell'Università di Erlangen e presentati allo IOF (International
Osteoporosis Foundation) World Congress on Osteoporosis di Lisbona.
Per questo studio sono state selezionate 137 donne nei primi anni di menopausa (1-8 anni)
con osteopenia: 86 sono state assegnate al gruppo di training, e 51 al gruppo di
controllo.
Le donne del gruppo di training hanno partecipato a due settimane di sedute di allenamento
collettivo e a due di esercizio individuale a casa. Tutte le donne dello studio hanno
inoltre ricevuto supplementi di calcio e vitamina D in base alle analisi nutrizionali
personalizzate.
Dopo due anni la densità minerale ossea (BDM) nel tratto lombare della colonna vertebrale
(L1-L4) è aumentata dello 0.7+/-2.9% nei soggetti che facevano attività fisica, mentre
è diminuita del 2.3+/-2.4% nel gruppo di controllo.
La BDM totale all'anca è diminuita in entrambi i gruppi, ma in maniera più pronunciata
nelle donne che non facevano attività fisica (-1.7+/-2.9% contro -0.4+/-2.5%,
rispettivamente).
Inoltre i soggetti del gruppo training hanno sviluppato una maggiore resistenza muscolare,
meno dolore alla schiena e una migliore qualità della vita, mentre questi parametri sono
rimasti invariati nel gruppo di controllo.
IOF World Congress on
Osteoporosis, Lisbona,10-14 Maggio 2002
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Fondaparinux: quale ruolo nella profilassi della
trombosi venosa profonda ?
Fondaparinux (Arixtra) è un farmaco
antitrombotico che agisce inibendo il fattore Xa.
La neutralizzazione del fattore Xa interrompe la cascata della coagulazione sanguigna,
inibendo pertanto la formazione della trombina e lo sviluppo del trombo. Fondaparinux
rappresenta il capostipite di una nuova classe di anticoagulanti, denominati inibitori del
fattore Xa.
Il farmaco somministrato per via sottocutanea al dosaggio di 2,5mg raggiunge la
concentrazione plasmatica di steady-state in circa 3 ore.
Fondaparinux è eliminato per via renale e presenta un'emivita di eliminazione compresa
tra 17 e 21 ore.
Fondaparinux trova indicazione nella profilassi della trombosi venosa profonda nei
pazienti sottoposti a:
- chirurgia per frattura all'anca,
- chirurgia di sostituzione
dell'articolazione dell'anca,
- chirurgia di sostituzione
dell'articolazione del ginocchio.
Un recente editoriale di Hughes S J
(Arch Intern Med 2003; 163:498) sottolinea la necessità di ulteriori studi prima di
raccomandare il farmaco.
Il confronto tra Fondaparinux ed Enoxaparina, il farmaco di riferimento per la profilassi
del tromboembolismo venoso, ha dato luogo a risultati discordanti.
Uno studio (Turpie Ag et al, Lancet 2002; 359:1721-1726) ha evidenziato per Fondaparinux
un'efficacia nella prevenzione del tromboembolismo venoso all'11° giorno non dissimile da
quella dell'Enoxaparina dopo intervento di sostituzione protesica dell'anca.
Per la rivista francese Prescrire (Prescrire Int 2003; 12:3-5) Fondaparinux non presenta
dei vantaggi rispetto all'Enoxaparina.
In una revisione di 4 studi clinici infatti l'inibitore Xa non ha mostrato una
superiorità rispetto all'Enoxaparina riguardo ai principali end point (mortalità,
embolia polmonare, trombosi venosa sintomatica).
Fondaparinux inoltre presenta un rischio emorragico simile a quello dell'Enoxaparina e gli
stessi limiti per quanto riguarda la necessità di uno stretto monitoraggio dei pazienti
anziani con insufficienza renale.
Xagena2003
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Infezioni da ureaplasma: la Claritromicina presenta un miglior
passaggio placentare rispetto ad altri antibiotici macrolidi
L'infezione da Ureaplasma della
cavità amniotica rappresenta ancor oggi una sfida terapeutica.
Il passaggio transplacentare degli antibiotici macrolidi è basso, e le tetracicline ed i
chinoloni sono controindicati in gravidanza.
Lo scopo dello studio, compiuto dai medici del Department of Fetomaternal Medicine
dell'University of Vienna Medical School, è stato quello di verificare il passaggio
placentare della Claritromicina in un modello di perfusione placentare.
L'esperimento è stato eseguito utilizzando 10 placente, immediatamente dopo il parto.
La Claritromicina ha dimostrato un miglior passaggio placentare rispetto agli altri
macrolidi.
Pertanto secondo gli Autori, la Claritromicina che è somministrata dopo il primo
trimestre (cioè dopo l'embriogenesi), può rappresentare un antibiotico appropriato nel
trattamento del Micoplasma genitale e delle infezioni da Ureaplasma durante la gravidanza.
Am J Obstet Gynecol 2003;
188:816-819
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Microflora vaginale ed uretrale
La microflora vaginale della donna
sana è rappresentata per più del 90% dal genere Lactobacillus.
Inoltre sono presenti alti cocchi gram-positivi (es. Stafilococchi coagulasi-negativi,
Streptococcus spp ed Enterococcus spp).
In circa il 10% delle donne sono riscontrabili batteri gram-negativi, e soprattutto
Escherichia coli.
Altri batteri frequentemente trovati nella vagina sono:
Corynebacterium spp, Gardnerella vaginalis e Ureaplasma spp.
La vagina e la sua microflora rappresentano un ecosistema bilanciato.
La normale microflora dell'uretra distale è caratterizzata dalla presenza di
microrganismi, principalmente stafilococchi coagulasi-negativi (tra cui, Staphylococcus
saprophyticus), Streptococco viridans, lattobacilli, difteroidi, Mycobacterium spp,
Neisseria spp.
Quando la normale flora vaginale, composta da lattobacilli, va incontro a cambiamenti, il
tratto uretrale viene facilmente colonizzato da Escherichia coli. Questo rappresenta il
fattore chiave alla base delle infezioni non complicate del tratto urinario.
La maggior parte delle infezioni del tratto urinario sono causate da un piccolo numero di
specie batteriche, ed in molti casi le infezioni sono monomicrobiche, cioè causate da una
sola specie batterica.
Nelle giovani donne la maggior parte delle cistiti acute non complicate è causata da
Escherichia coli.
Le infezioni del tratto urinario polimicrobiche si presentano maggiormente nelle pazienti
con fattori predisponenti come cateteri permanenti o alterazioni del tratto urinario.
I livelli di estrogeno nella vagina influenzano il contenuto del glicogeno delle cellule
dell'epitelio vaginale ed il metabolismo del glicogeno è causa di acidificazione,
riducendo il pH della vagina.
Nelle prepuberi il contenuto di glicogeno dell'epitelio vaginale è basso ed il pH è
circa 7.
Dopo la pubertà, l'aumento dei livelli di estrogeno causa un aumento del contenuto di
glicogeno dell'epitelio vaginale ed una riduzione del pH vaginale.
Il pH più basso produce una selezione batterica, favorendo la crescita dei batteri che
tollerano un ambiente acido, come i lattobacilli.
Dopo la menopausa, la caduta dei livelli di estrogeno porta ad una riduzione della
concentrazione del glicogeno vaginale. Il pH della vagina aumenta ed i batteri anaerobici
diventano dominanti, e si osserva uno sviluppo delle Enterobacteriaceae.
La somministrazione di estrogeni alle donne in menopausa produce una discesa del pH
vaginale con conseguente cambiamento della flora vaginale.
I lattobacilli diventano dominanti e si osserva una simultanea caduta nel numero di
Escherichia coli. Infatti, i lattobacilli della vagina inibiscono la crescita di altri
batteri, come Escherichia coli.
Gli streptococchi del gruppo B causano infezioni alle partorienti e ai neonati.
La presenza di streptococchi del gruppo B nell'urina delle donne in gravidanza aumenta il
rischio di sviluppare un'infezione da streptococchi del gruppo B nei neonati.
Inoltre la presenza di streptococchi del gruppo B nelle urine delle donne in gravidanza,
è anche associata ad un aumentato rischio di parto prematuro e di rottura delle membrane
fetali. Pertanto le donne in cui si riscontrano streptococchi del gruppo B nelle urine,
dovrebbero essere sottoposte a chemioprofilassi intrapartum.
Tratto da "Short term
therapy for uncomplicated urinary tract infectious today" 4th International Symposium
Perspectives in Clinical Microbiology and Infections, Venice 2003
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Il Misoprostolo per os riduce l'impiego
dell'Ossitocina nelle donne con rottura delle membrane senza parto a termine
I Medici del Dipartimento di
Ostetricia e Ginecologia dell'University of Texas Southwestern Medical Center a Dallas
(Usa) hanno valutato se il Misoprostolo per os potesse sostituire l'Ossitocina nello
stimolare il parto nelle donne con rottura delle membrane e senza evidenza di parto.
Le donne nullipare alla 36^-41^ settimana con un feto non gemellare, cefalico e rottura
delle membrane senza evidenza di parto, sono state randomizzate a ricevere Misoprostolo
per os (100 microg) (n=51) o placebo (n=51) ogni 4 ore per un massimo di 2 dosaggi.
Se entro 8 ore dall'inizio dello studio il parto non fosse avvenuto, veniva somministrata
per via endovenosa l'Ossitocina.
Il Misoprostolo ha ridotto l'uso della stimolazione con Ossitocina dal 90% al 37% (p<
0.001) ed il tempo di permanenza nella sala parto.
L'iperattività uterina si è presentata nel 25% delle donne trattate con Misoprostolo.
Tuttavia solo in 3 donne (6%) l'iperattività uterina è risultata associata a
decelerazione della frequenza cardiaca fetale, ma non è stato necessario il parto cesareo
d'emergenza.
Obstet Gynecol 2003; 101:685-689
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Parto pretermine: la Nimesulide causa effetti indesiderati di breve
durata sul feto simili a quelli prodotti dall'Indometacina e dal Sulindac
Lo studio ha valutato se il
trattamento con Nimesulide fosse causa di un minor numero di effetti indesiderati fetali
rispetto all'Indometacina e al Sulindac dopo breve esposizione della madre per tocolisi.
Le donne che erano alla 28^ e alla 32^ settimana di gestazione con contrazioni pretermine
sono state trattate per 48 ore con Indometacina 100 mg (2 volte die), Sulindac 200 mg (2
volte die) o Nimesulide 200 mg (2 volte die).
Il periodo di osservazione è stato di 72 ore.
L'indice del liquido amniotico, la produzione oraria delle urine fetali e l'indice di
pulsatilità sono stati monitorati prima del trattamento e a 4, 24, 48, 72 e 120 ore dopo
il trattamento.
Ciascun farmaco ha causato una significativa riduzione in tutti e 3 i parametri per un
periodo di 48 ore. Il ripristino dei livelli pre-trattamento è avvenuto dopo 72 ore.
Sulla base dei dati di questo studio la Nimesulide causa effetti indesiderati di breve
durata a carico del feto in modo simile a quelli prodotti dall'Indometacina e dal
Sulindac.
Am J Obstet Gynecol 2003; 188:1046-1055
[È il caso di sottolineare come
il DECRETO 6 dicembre 2002 (G.U. n. 3 del 4/1/2003) "Modifica degli stampati di
specialità medicinali contenenti antinfiammatori non steroidei ", in seguito alla
segnalazione di effetti negativi dei FANS in gravidanza, abbia inserito nelle schede
tecniche e nei foglietti illustrativi la seguente dizione:
"4.4 Speciali avvertenze e precauzioni d'uso L'uso di (nome commerciale), come di
qualsiasi farmaco inibitore della sintesi delle prostaglandine e della cicloossigenasi è
sconsigliato nelle donne che intendano iniziare una gravidanza. La somministrazione di
nome commerciale dovrebbe essere sospesa nelle donne che hanno problemi di fertilità o
che sono sottoposte a indagini sulla fertilità. " Occorre quindi prestare
particolare attenzione a questo aspetto relativamente recente, DZ]
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La pressione sanguigna si riduce solo in modo
transitorio dopo la perdita di peso nei pazienti obesi con sindrome metabolitica
La maggior parte degli studi clinici
che hanno valutato gli effetti della perdita di peso sulla pressione sanguigna e sulla
funzione autonomica cardiaca, non ha analizzato la relazione tra pressione sanguigna e
perdita di peso in acuto e nel mantenimento del peso allo steady-state (in condizioni
stabili) dopo la perdita di peso.
La ricerca effettuata in collaborazione tra il Kuopio University Hospital e l'Helsinki
University Central Hospital, ha invece cercato di chiarire i cambiamenti della pressione
sanguigna, della frequenza cardiaca, e dell'heart rate variability durante la fase acuta
della perdita di peso e durante il periodo di mantenimento del peso.
Hanno preso parte allo studio pazienti obesi con indice di massa corporea (BMI) di
35,2+/-2,1 kg/m(2), circonferenza alla vita: 114,3+/-9,0 cm, e con sindrome metabolica.
Durante il periodo di 9 settimane in cui i 34 pazienti sono stati sottoposti a dieta a
basso contenuto calorico, è stata osservata una perdita di peso pari a 14,6+/-3,5 kg. Al
termine dello studio (1 anno) il mantenimento della perdita di peso è stato di 12,5+/-7,5
kg.
La pressione sanguigna nelle 24 ore si è ridotta in modo marcato durante il periodo della
dieta (-9,0+/-8,0, -4,6+/-4,9 mmHg), ma è aumentata ritornando quasi ai livelli basali
alla fine del periodo di mantenimento del peso (-2,2+/-8,2, -1,2+/-6,1 mmHg).
La frequenza cardiaca notturna si è ridotta (-5,5+/-9,6 battiti al minuto) e l'heart rate
variability totale "low-frequency power" è aumentata del 46-56% durante il
periodo di perdita di peso rapida.
Tuttavia queste variazioni si sono gradualmente attenuate durante il periodo di
mantenimento del peso raggiunto.
Solo il cambiamento della frequenza cardiaca notturna è risultato borderline dopo 1 anno
di mantenimento del peso (-3,6+/-8,6 battiti per minuto).
L'heart rate variability "high-frequency power" ha mostrato una tendenza ad
aumentare durante la perdita di peso e nel corso del mantenimento del peso raggiunto.
I dati dello studio indicano che, nonostante il successo nel mantenere la perdita di peso,
la riduzione della pressione sanguigna, osservata nella fase di perdita rapida del peso,
è stata transitoria.
L'aumento del tono parasimpatico è risultato più sostenuto, ma anch'esso si è attenuato
nel corso del periodo di mantenimento del peso.
J Hypertens 2003; 21:371-378
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Profilo di sicurezza dell'Adalimumab, un antagonista del TNF-alfa
L'Adalimumab (Humira) è un
anticorpo monoclonale umano, che agisce come antagonista del TNF-alfa, una citochina
coinvolta nella cascata infiammatoria.
Il farmaco trova indicazione nel trattamento dell'artrite reumatoide.
Gravi infezioni e sepsi, tra cui alcune mortali, sono state riportate dopo l'impiego degli
anticorpi del TNF-alfa.
La maggior parte delle gravi infezioni sono accorse nei pazienti che erano trattati in
modo concomitante con terapia immunosoppressiva, in aggiunta al trattamento contro
l'artrite reumatoide. Con tutti gli antagonisti del TNF-alfa, compreso l'Adalimumab, è
stata osservata la comparsa di tubercolosi e di infezioni fungine opportunistiche
invasive.
L'impiego degli antagonisti TNF-alfa, tra cui l'Adalimumab, è stato associato a rari casi
di esacerbazione dei sintomi clinici e/o a evidenze radiografiche di malattia
demielinizzante.
Sono stati anche osservati casi di linfoma.
Tra i 2468 pazienti con artrite reumatoide trattati nel corso di studi clinici con
l'Adalimumab per una durata media di 2 anni, sono stati riscontrati 48 tumori di vario
tipo, tra cui 10 linfomi.
I pazienti che soffrono di artrite reumatoide presentano un rischio di insorgenza di
linfomi fino a 7 volte maggiore rispetto alla popolazione generale.
L'incidenza di infezione con l'Adalimumab è stata pari a 1 paziente/anno contro lo 0,9
nel gruppo placebo.Le più comuni infezioni osservate hanno interessato il tratto
respiratorio superiore ed il tratto urinario.La percentuale di gravi infezioni è stata
dello 0,04 paziente/anno nel gruppo Adalimumab contro lo 0,02 nel gruppo placebo.
Le gravi infezioni comprendevano: polmonite, artrite settica, infezioni protesiche,
erisipela, cellulite, diverticolite e pielonefrite.
Nel corso degli studi clinici si sono avuti 13 casi di tubercolosi, che si sono presentati
entro i primi 8 mesi di terapia.
Negli studi controllati il 12% dei pazienti trattati con Adalimumab ed il 7% dei pazienti
trattati con placebo, che al basale erano negativi per gli anticorpi antinucleo, sono
diventati ANA positivi a 24 settimane.
Un paziente trattato con Adalimumab ha manifestato segni riconducibili ad una sindrome
lupus-simile di nuova insorgenza. Il paziente è migliorato dopo la sospensione della
terapia.
Non è noto l'impatto del trattamento prolungato con Adalimumab sullo sviluppo delle
malattie autoimmuni.
Non è nota l'immunogenicità nel lungo periodo dell'Adalimumab.
Circa il 5% (58/1062) dei pazienti con artrite reumatoide trattati con Adalimumab, ha
sviluppato anticorpi contro il farmaco.
I pazienti trattati con l'associazione Adalimumab e Metotrexato hanno presentato una più
bassa percentuale di sviluppo di anticorpi rispetto ai pazienti trattati solamente con
Adalimumab (1% versus 12%).
(Xagena 2003)
Fonte: Package Insert Humira (Usa)
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Sta aumentando la resistenza alla Ciprofloxacina tra
i batteri gram-negativi
L'antibiotico Ciprofloxacina (in Usa
Cipro, in Italia Ciproxin e al.) era diventato popolare nel 2001, quando alcune
persone negli Usa che avevano ricevuto lettere contenenti spore di antrace sono morte.
La paura di un atto terroristico su ampia scala portò il Governo Usa e quello del Canada
a richiedere alla Bayer, l'azienda produttrice dell'antibiotico, ingenti quantità del
medicinale.
Già nei primi anni '90 studi di farmacosorveglianza, effettuati negli Usa, avevano
dimostrato un aumento dell'incidenza di resistenza agli antimicrobici nelle Unità di
Terapia Intensiva.
Ora uno studio, a cui hanno partecipato 43 Stati Usa ed il Distretto di Columbia,
pubblicato sul giornale dell'American Medical Association (JAMA), ha dimostrato un
sensibile aumento della resistenza alla Ciprofloxacina tra i batteri gram-negativi.
I batteri che stanno diventando sempre più resistenti alla Ciprofloxacina sono:
Escherichia Coli, Pseudomonas aeruginosa, Klebsiella pneumoniae.
Una delle cause alla base dell'aumento della resistenza ai fluorochinoloni è da
ricercarsi nell'uso improprio di questi farmaci.
JAMA 2003; 289: 885-888
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Revimid nel trattamento delle sindromi mielodisplastiche
Nel corso del Seventh International
Symposium on Myelodysplastic Syndromes, tenutosi a Parigi, Revimid, un farmaco
sperimentale, ha mostrato di ridurre o eliminare la necessità di trasfusioni nei pazienti
anemici con sindromi mielodisplastiche.
Le sindromi mielodisplastiche colpiscono circa 250.000-300.000 persone nel mondo. Solo
negli Usa le persone ammalate sono 50.000 con 14.000 nuovi casi all'anno.
La sopravvivenza di queste persone varia da 6 mesi a 5 anni dall'esordio della malattia.
In uno studio clinico, il 64% dei pazienti ha presentato una risposta eritroide al
trattamento con Revimid, riducendo il numero delle trasfusioni in modo completo o
parziale (superiore al 50%).
Revimid sembra particolarmente efficace nei pazienti con una forma di sindrome
mielodisplastica, denominata sindrome 5q, caratterizzata da un danno ad uno specifico
cromosoma.
L'FDA ha concesso la procedura "Fast Track" per revisionare gli studi clinici
riguardanti Revimid.
(Xagena 2003)
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APPROFONDIMENTI
I casi del dottor Cretinetti-Falchetto
a cura del dottor Giuseppe Ressa,
medico di famiglia e specialista internista
[Iniziamo a presentare in questo
numero dei casi clinici basati su esperienze concrete, che possono offrire lo spunto a
utili considerazioni metodologiche e pratiche. I personaggi di Cretinetti e Falchetto sono
stati ideati dal Dott. Giuseppe Ressa, che ha curato anche la scelta e l'esposizione dei
casi. Saremo lieti delle segnalazioni dei lettori sul gradimento dell'iniziativa.]
Il dottor Cretinetti è un medico
che fa anamnesi approssimative, esami obiettivi volanti, prescrive montagne di analisi ed
esami strumentali; il dottor Falchetto è il suo opposto: anamnesi ed esami obiettivi
maniacali, connessioni diagnostiche mirabolanti, scorciatoie fulminanti, esami diagnostici
centellinati; a volte cerca diagnosi rarissime mancandone altre più probabili e giuste.
Capita che Cretinetti e Falchetto coesistano schizoidamente nella stessa persona.
IL CASO 1
La paziente è una signora ultraottantenne logorroica, ipertesa da molti anni, affetta da
cardiopatia ischemica, litiasi biliare e urinaria, insufficienza venosa degli arti
inferiori; a un controllo ecografico periodico dell'apparato urinario viene casualmente
rilevata, oltre alla solita litiasi, una massa solida, classificata in prima ipotesi come
angiomiolipoma.
La signora chiama Falchetto a casa perché improvvisamente ha accusato dolenzia alla
coscia destra; all'esame obiettivo il medico rileva un edema della stessa e un aumento
della temperatura della cute sovrastante. Fa diagnosi di probabile tromboflebite profonda
consigliando un ecoDoppler di conferma.
La paziente afferma di avere un carissimo amico angiologo e lo consulta: la diagnosi viene
confermata; il trattamento prevede inizialmente eparina e anticoagulanti embricati, poi
per sei mesi solo cumarinici. Il vaso si ricanalizza; dopo pochi mesi la sindrome si
ripresenta e viene seguita la terapia precedente.
Dopo tutte queste vicissitudini Falchetto viene chiamato al domicilio dalla paziente per
una febbre di 37,5 gradi da tre giorni; egli tenta di spiegarle che, essendo vaccinata, il
decorso potrebbe essere benigno ma, date le insistenze, si reca dalla stessa.
La paziente si scusa per il disturbo affermando di "sentirsi uno straccio",
Falchetto l'accompagna in camera e, visitandola, nota solo un intenso pallore della cute e
delle mucose, fa presente questo rilievo alla paziente che però non ammette discussioni,
addebitandolo al semidigiuno degli ultimi giorni e all'influenza che l'ha molto
debilitata.
Falchetto insiste, pregandola di recarsi in studio una volta guarita, dato che questo
pallore non gli era mai saltato agli occhi malgrado le frequenti visite ambulatoriali.
Dopo qualche giorno la signora si fa viva e Falchetto prescrive alcuni esami del sangue
che rilevano anemia microcitica ipocromica e sideropenia, preferirebbe approfondire ma la
paziente tergiversa.
Dopo un mese di assoluto silenzio viene in studio la figlia con una richiesta di terapia
marziale prescritta dal dottor Cretinetti, primario presso la Clinica Salus Salus.
Falchetto chiede spiegazioni ma la donna insiste dicendo che il professore ha visitato la
madre a fondo, ha fatto eseguire altre analisi, compresi i marker tumorali - che sono
negativi - e che la terapia "va fatta e basta".
Falchetto si rifiuta di ricopiare la prescrizione, spiega alla paziente una connessione
diagnostica che gli si è accesa nel cervello; viene guardato con scetticismo e
sufficienza ma, alla fine, la figlia si convince e fa eseguire alla madre un esame
strumentale che conferma l'ipotesi diagnostica e i sospetti dell'arguto medico.
SOLUZIONE
Adenocarcinoma mucoso del cieco moderatamente differenziato con infiltrazione a tutto
spessore compresa la sottosierosa; quattro dei linfonodi sono sede di metastasi; stadio
T3, N2, Mx G2.
CONSIDERAZIONI METODOLOGICHE
Faccio alcune considerazioni sulla vicenda. La lesione renale è di 2,5 cm con contorni
regolari, non infiltra e non comprime, è al polo inferiore del rene destro. Il radiologo
consiglia controlli seriati nel tempo ma giura che si tratta di un angiomiolipoma. Quando
invece la tromboflebite recidiva dopo pochi mesi, nessuno si chiede perché. Falchetto è
stato espropriato del caso a causa dell'amico angiologo, ma in nessuno dei due si accende
la lampadina.
L'errore diagnostico diventa pericoloso quando interviene Cretinetti, il luminare si fida
solo dei marker tumorali: sono negativi, QUINDI non c'è tumore.
Per fortuna Falchetto unisce i due elementi importanti: TVP recidivanti e anemia
sideropenica.
Egli non pensa al rene perché nei suoi ricordi la sindrome paraneoplastica da carcinoma
renale dà policitemia, eppoi la masserella sta lì buona da anni, pensa però subito al
colon e fa eseguire la colonscopia.
Da notare che la paziente ha fatto quasi un anno di terapia anticoagulante, è stata
allertata sul fatto di guardare sempre feci e urine e non ha mai notato nulla di anomalo;
un anno di anticoagulanti non è bastato a far sanguinare questa paziente.
Sottoposta ad emicolectomia destra, si è ripresa, fa la terapia marziale e l'anemia
guarisce, la TVP non si presenta più, ma la masserella renale è sempre lì.
Dopo pochi mesi presenta alcuni episodi di fibrillazione atriale parossistica per cui si
decide di metterla sotto terapia anticoagulante cronica, ritorna in studio dopo qualche
tempo con 8,8 di emoglobina, cioè punto e a capo. Falchetto è in crisi: rifare la
colonscopia? la biopsia del rene? Con quale risvolto pratico dato che la signora ha 84
anni? La paziente ha le idee chiare: "Se mi opero di nuovo ci rimango". Esce
dallo studio con la sua ricetta per la terapia marziale e promette di farsi rivedere.
Falchetto arrossisce e prova MOLTA vergogna.
EPILOGO
Falchetto fa eseguire una colonscopia ed una gastroscopia che non rilevano cause di
sanguinamento, il PT INR è però 4.1; il collega endoscopista consiglia una capsuloscopia
preceduta da un clisma opaco a d.c. perchè la colonscopia non è riuscita a vedere tutto
il viscere, causa presenza di feci,
e teme che la telecamera si blocchi da qualche parte.
La paziente rifiuta allora Falchetto prende la decisione di sospendere gli anticoagulanti
pur in presenza di F.A, contemporaneamente ha dovuto anche sostenere un contenzioso col
collega angiologo Cretinetti che continua a fare ecodoppler venosi agli aa. inferiori
(perchè probabilmente non crede che sia stata una s. paraneoplastica) e insiste che senza
anticoagulanti la TVP tornerà sicuramente con possibile gravi conseguenze.
La paziente è spaventata ma alla fine segue i consigli di Falchetto inimicandosi per
sempre Cretinetti; dopo 40 giorni di ferro la Hb è risalita a 11, la paziente è rosea;
l'ennesimo ecodoppler è negativo.
Non è la prima volta che si vedono anemie da perdita di ferro in soggetti trattati con
anticoagulanti in cui non si riesce a dimostrare la sede del sanguinamento; ricordo una
cardiopatica fibrillante che venne in studio con 5 di emoglobina alla quale vennero
eseguite le due endoscopie (gastro e colon) senza rilevare nulla; a distanza di tempo
furono riprescritti gli anticoagulanti (la paziente aveva avuto in passato un TIA
carotideo ed era comunque fibrillante) e ci fu una recidiva con esami endoscopici di nuovo
negativi.
Di G. Ressa; Caso pubblicato su
Medico e Paziente n.1 del 2002
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Approfondimenti
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MEDICINA LEGALE E NORMATIVA SANITARIA
Rubrica
gestita dall'ASMLUC:
Associazione Specialisti in Medicina Legale Università
Cattolica (a cura di D. Z.)
Spese mediche all'estero, è lecita la richiesta di rimborso a
posteriori
(Sentenza Corte di giustizia Ue 13.5.2003)
SENTENZA DELLA CORTE.
"Libera prestazione dei servizi - Art. 59 del Trattato CE (divenuto, in seguito a
modifica, art. 49 CE) e art. 60 del Trattato CE (divenuto art. 50 CE) - Assicurazione
malattia - Sistema di prestazioni in natura - Convenzionamento - Spese mediche sostenute
in un altro Stato membro - Previa autorizzazione - Criteri - Giustificazioni", 13
maggio 2003- procedimento C-385/99
Un cittadino europeo ha
il diritto di chiedere (e ottenere) dal proprio Ente assistenziale il rimborso di spese
per cure ricevute all'estero in altro paese dell'Unione Europea presso medici o istituti
non convenzionati, anche in mancanza di un'autorizzazione preventiva.
La necessità di tale autorizzazione preventiva è giustificata solo per le cure
ospedaliere.
Tale principio è stato affermato dalla Corte di giustizia europea in una sentenza che
condanna il sistema sanitario olandese per atti contrari al diritto comunitario.
La sentenza riguarda due casi pressochè analoghi: due donne olandesi si sono fatte curare
all'estero senza un'autorizzazione preventiva da parte della loro cassa malattia. La prima
si era sottoposta, durante una vacanza in Germania, a terapie odontoiatriche presso un
medico privato; la seconda si era sottoposta ad artroscopia presso un ospedale
specializzato in Belgio.
Al ritorno nel proprio Paese, hanno chiesto il rimborso delle spese sostenute, ottenendo,
in entrambi i casi, un rifiuto.
Il rifiuto era stato motivato dal fatto che il Sistema Sanitario olandese prevede che sia
sempre necessaria, per beneficiare gratuitamente di cure mediche all'estero, una
autorizzazione preventiva.
La controversia è stata portata davanti ai giudici di Lussemburgo, che hanno dichiarato
tale normativa olandese incompatibile con la realizzazione della libera prestazione dei
servizi, una delle libertà fondamentali dell'EU.
La Corte ha esaminato i motivi, esclusivamente economici, che sarebbero alla base di
queste normative concludendo che, secondo i dati in suo possesso, l'abolizione
dell'obbligo della previa autorizzazione per le cure effettuabili in regime ambulatoriale
(e comunque non ospedaliero) non provocherebbe trasferimenti di pazienti e di risorse
finanziarie da uno Stato all'altro tali da perturbare gravemente l'equilibrio finanziario
del sistema previdenziale olandese.
Un discorso diverso si pone per le cure ospedaliere, particolarmente costose. La Corte
giustifica, in tal caso, il ricorso ad un regime di autorizzazione preventiva nell'ambito
di un sistema di cure sanitarie basato sul convenzionamento, poiché tale regola permette
di garantire, nel territorio nazionale, una gamma equilibrata di cure ospedaliere di
qualità e di evitare ogni spreco di risorse finanziarie, tecniche e umane.
In ogni caso, rammenta la Corte, "spetta ai soli Stati membri determinare la portata
dell'assicurazione malattia di cui beneficiano gli assicurati, cosicché, quando questi
ultimi si recano senza previa autorizzazione in uno Stato membro diverso da quello in cui
ha sede la cassa malattia cui appartengono per farsi ivi curare, possono esigere la presa
a carico delle cure loro fornite solo nei limiti della copertura garantita dal regime di
assicurazione malattia dello Stato membro di iscrizione".
Daniele Zamperini
6/03
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Recepita la normativa europea sulla sicurezza dei
medicinali. Meno oppressiva la normativa della Farmacovigilanza nei confronti dei medici
(Dlgs 95/2003)
Il sistema di Farmacovigilanza,
attivo con modalità difformi in tutti i Paesi, viene ad essere unificato, per modalità e
normative, in tutti i Paesi dell'EU, venendo a costituire un sistema europeo coordinato ed
omogeneo.
Le norme di base erano descritte nella direttiva comunitaria 2000/38, che è stata ora
recepita dall'Italia con il Decreto Legislativo n. 95 dell'8/4/2003, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale 101, del 3 maggio 2003.
Il provvedimento mira ad ottimizzare la sorveglianza, da parte delle autorità sanitarie
centrali e periferiche, delle aziende farmaceutiche, degli operatori sanitari, sulle
reazioni avverse ai medicinali.
La maggior parte degli obblighi vengono posti a carico delle Aziende Farmaceutiche, tenute
ad una serie di complessi adempimenti, e passibili, in caso di mancato rispetto delle
norme, di sanzioni pecuniarie fino a 180mila euro.
In particolare, per quanto è di interesse per il Medico, le Aziende avranno l'obbligo di
diffondere ai medici prescrittori le note informative e gli aggiornamenti sulla sicurezza
dei farmaci ogni qualvolta emergano nuove informazioni relative al profilo di
tollerabilità del prodotto.
I medici e gli altri operatori sanitari sono invece tenuti a segnalare tutte le
sospette reazioni avverse gravi o inattese di cui vengano a conoscenza nell'ambito
della propria attività.
Questa dizione rappresenta un enorme progresso rispetto alla normativa precedente, che
disponeva, secondo le Autorità, la segnalazione di tutti gli effetti indesiderati dei
farmaci, indipendentemente dalla loro gravità, compresi quelli comunemente già noti.
Queste disposizioni, che avrebbero portato ad effetti enormemente gravosi sull'attività
del medico, costretto a segnalare ogni volta qualsiasi reazione, anche banale e arcinota
(come la banale pirosi gastrica da FANS), e addirittura prevista (come il vomito nei
neoplastici sottoposti a chemioterapia), con la previsione, oltretutto, di sanzioni penali
in caso di omissione, avevano portato, per una reazione "difensiva" al
sostanziale fallimento della politica di farmacovigilanza sul territorio.
Le norme attuali prevedono infatti la segnalazione delle sole reazioni gravi o inattese.
Secondo le definizioni Ministeriali la Reazione avversa grave è definita come
" qualsiasi reazione che provoca la morte di un individuo, ne mette in pericolo la
vita, ne richiede o prolunga l'ospedalizzazione, provoca disabilità o incapacità
persistente o significativa, comporta una anomalia congenita o un difetto alla
nascita".
La Reazione avversa inattesa è la " reazione avversa la cui natura, gravità
o conseguenza non è coerente con il riassunto delle caratteristiche del prodotto".
Non sono previste specifiche sanzioni penali a carico dei medici omissivi. Occorre però
tener conto che, anche dove non espressamente citato, permane, per il medico, una generica
responsabilità deontologica.
Vanno comunque invece segnalate tutte le sospette reazioni avverse osservate,
gravi, non gravi, attese ed inattese da tutti i vaccini e da farmaci posti sotto
monitoraggio intensivo ed inclusi in elenchi pubblicati periodicamente dal Ministero della
salute.
I medici e gli altri operatori sanitari devono trasmettere le segnalazioni di sospette
reazioni avverse, tramite l'apposita scheda, tempestivamente, al Responsabile di
farmacovigilanza della struttura sanitaria di appartenenza.
I medici e gli altri operatori sanitari operanti in strutture sanitarie private devono
trasmettere le segnalazioni di sospette reazioni avverse, tramite l'apposita scheda,
tempestivamente, al Responsabile di farmacovigilanza della ASL competente per territorio,
direttamente o, nel caso di cliniche o case di cura, tramite la Direzione sanitaria.
Le norme suddette non si applicano alle segnalazioni di reazioni avverse verificatesi in
corso di sperimentazione clinica.
Nel complesso, un'utile evoluzione normativa.
Daniele Zamperini 6/2003
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Disagi connessi ai nuovissimi servizi telefonici
(messaggio di Matteo Caposieno,
Torino)
Alcuni servizi telefonici, possono
portare soldi ai gestori, ma problemi agli utenti, soprattutto a noi medici.
Sorvolo sul servizio "5" (richiamata su occupato) che sta rendendo un inferno il
nostro orario di studio: in certe ore il medico non riesce a visitare perchè i pazienti
si mettono in coda al servizio, a decine, e appena terminata una telefonata l'apparecchio
torna a squillare immediatamente. Per il paziente è comodo, forse, telefonare al medico
anche per cose di poco conto, tanto può starsene a guardare la televisione mentre il
servizio cerca di collegare la linea, ma così non è per chi è dall'altro lato del
filo
Ho cercato di farmi disabilitare il servizio "passivo" (nel senso che NON voglio
che i miei clienti si mettano in coda per stupidaggini: un minimo di disagio, come il
fatto di dover ripetere il numero due volte può fungere un pò da filtro) ma la Telecom
mi ha risposto seraficamente che il servizio c'è, e bisogna subirlo...
Un collega (Matteo Caposieno, col permesso del quale riproduco una sua pagina web) ha
rilevato un nuovo servizio (il "3", che io francamente non conoscevo) che può
portare ulteriori problemi al povero medico:.[DZ]
"Il nuovissimo servizio 3 di
Telecom Italia ci penalizza?"
Porto a conoscenza che il nuovissimo servizio 3 di Telecom Italia potrebbe essere
particolarmente penalizzante per la nostra attività.
Questo servizio prevede, appunto digitando il 3 su una linea occupata la possibilità di
lasciare un messaggio vocale al costo di 15 centesimi di euro.
I lati negativi:
- il servizio non è disattivabile (ne
ho avuto conferma dal 187).
- In nostra assenza l'arrivo di due
chiamate in simultanea sulla nostra linea si distribuiranno una nella nostra segreteria
telefonica, l'altra sulla casella vocale senza la possibilità di ascolto a distanza
(visita domiciliare non eseguita!!!).
Se pure venisse introdotto l'ascolto a distanza della casella vocale rimarrebbe il nostro
disagio di dover ascoltare i nostri messagi in due diverse parti.
- Chi di noi risponde personalmente
alle chiamate del mattino per le visite su appuntamento, si potrebbe ritrovare con
numerose richieste in casella vocale di pazienti che poi andrebbero richiamati a loro
volta (tempo e denaro buttato via!!!).
- Chi partirebbe sereno per le vacanze
sapendo che il proprio sostituto potrebbe non aver ricevuto tutte le visite domiciliari
della giornata, perchè il servizio 3 si è messo di mezzo?
Chiedo a questo punto l'appoggio di
tutti i colleghi per risolvere al più presto questa problematica.
Cordiali saluti
Matteo Caposieno
ASL 4 Torino (sito web su: MioYAHOO!Per il Medico)
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Da ricordare: anche i grandi invalidi possono
svolgere attività lavorativa
Molto spesso i medici ritengono,
erroneamente, che un soggetto a cui sia stata riconosciuta un'alta percentuale di
invalidità civile non possa svolgere attività lavorativa (con tutte le conseguenze che
ne derivino).
Questa supposizione non risponde a verità: anche gli invalidi civili totali (100%) e
coloro che sono titolari di indennità di accompagnamento possono svolgere attività
lavorativa.
Questo perchè i parametri presi in esame sono diversi.
Infatti le persone dichiarate invalide civili al 100% possono richiedere l'iscrizione
negli elenchi del collocamento obbligatorio (ed essere quindi avviati al lavoro), previo
accertamento da parte dell'organo sanitario competente, della sussistenza di residue
capacità lavorative.
Nello stesso modo risulta compatibile la prestazione lavorativa con la concessione
dell'indennità di accompagnamento degli invalidi civili, anche dichiarati invalidi al
100%, che si trovano nella impossibilità di deambulare senza l'aiuto permanente di un
accompagnatore o che non sono autosufficienti negli atti quotidiani della vita, e quindi
abbisognano di un'assistenza continua.
Infatti non è infrequente il caso di soggetto che, pur impossibilitato a deambulare,
riesca a svolgere attività lavorativa sedentaria, al computer o a una consolle.
Le principali normative di
riferimento, anche se non recenti, sono:
- Legge 21 novembre 1988, n. 508
(Articolo 1 comma 3): "Norme integrative in materia di assistenza economica agli
invalidi civili, ai ciechi civili ed ai sordomuti."
- Circolare Ministero del Lavoro e
della Previdenza Sociale 15 gennaio 1988, n. 5 - "Iscrizione negli elenchi del
collocamento obbligatorio anche dei soggetti con invalidità del 100%"
- Circolare Ministero della Sanità
Direzione Generale servizi di medicina sociale - Ufficio handicappati e volontariato 11
febbraio 1987, n. 3 - "L. 11 febbraio 1980, n.18, art.1. Compatibilità tra
indennità di accompagnamento e svolgimento di attività lavorativa."
Riferimento: http://www.synjobnet.net/ita/scheda_display.asp?IDScheda=15
(visitato giugno 2003)
Daniele Zamperini
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PRINCIPALI NOVITÀ IN GAZZETTA UFFICIALE: mese di luglio-agosto 2003 (a cura
di Marco Venuti)
La consultazione dei documenti citati,
come pubblicati in Gazzetta Ufficiale, è fornita da "Medico & Leggi" di
Marco Venuti: essa è libera fino al giorno 27.09.2003. Per consultarli, cliccare qui |
DATA GU |
N° |
TIPO DI DOCUMENTO |
TITOLO |
DI CHE TRATTA? |
28.07.03 |
173 |
Decreto del Ministero della salute |
Uso terapeutico di medicinale sottoposto a sperimentazione
clinica |
.............. |
29.07.03 |
174 |
Decreto legislativo 196 |
Codice in materia di protezione dei dati personali |
.............. |
09.08.03 |
184 |
Decreto legislativo 211 |
Attuazione della direttiva 2001/20/CE relativa all'applicazione
della buona pratica clinica nell'esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali
per uso clinico |
.............. |
11.08.03 |
185 |
Ordinanza del Ministero della salute |
Ordinanza contingibile ed urgente relativa alla terapia genica |
.............. |
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