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INDICE GENERALE
PILLOLE
APPROFONDIMENTI
MEDICINA LEGALE
E NORMATIVA SANITARIA
Rubrica gestita da
D. Z. per l'ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale Università
Cattolica
PILLOLE
ALLHAT: uno studio importantissimo di cui
si sente poco parlare...
Difficilmente gli informatori che frequentano i nostri ambulatori
ci presenteranno uno degli studi più importanti della storia della
medicina moderna: lo studio ALLHAT (Antihypertensive and Lypid-Lowering
treatment to prevent Heart Attack Trial). Si tratta di un trial
randomizzato in doppio cieco che ha coinvolto 33.357 pazienti di età di 55
anni o più affetti da ipertensione e almeno un altro fattore di rischio
coronarico. I pazienti sono stati randomizzati per essere trattati con il
diuretico tiazidico clortalidone, con il calcioantagonista amlodipina, con
l'aceinibitore lisinopril o l'alfabloccante doxazosin. I pazienti che
necessitavano di ulteriore terapia venivano trattati con atenololo,
reserpina o clonidina. Il braccio di trattamento con doxazosin fu
chiuso nel 2000 a causa di una eccessiva incidenza di scompenso cardiaco
nei pazienti trattati. Ora, dopo un follow-up di 5 anni non si sono
viste differenze negli endpoint primari (malattia coronarica fatale o
infarto miocardico non fatale) o nella mortalità per tutte le cause tra i
vari gruppi. Tuttavia i pazienti trattati con amlodipina presentarono
una incidenza cumulativa a 6 anni di scompenso cardiaco significativamente
maggiore (10.2% contro 7.7%). I pazienti trattati con lisinopril
presentarono anche essi una maggiore incidenza a 6 anni di scompenso
cardiaco (8.7% contro 7.7%), ictus (6.3% contro 5.6%) e angina (13.6%
contro 12.1%). I risultati di questo studio sono statisticamente robusti,
generalizzabili, e lasciano poco spazio alle contestazioni. Sulla base
di questo studio si potrebbero estrapolare poche (ma solide) regole. Un
paziente iperteso: somministrazione di un diuretico (quando non
controindicato). Il farmaco da associare in caso di insufficiente
efficacia del solo diuretico è l'aceinibitore. Il farmaco di terza
scelta nella associazione è il calcioantagonista. Utilizzare un
calcioantagonista come prima o seconda scelta comporterebbe un inutile
aumento di spesa, con aumento di rischio di complicanze per il
paziente.
The ALLHAT Officers
and Coordinators for the ALLHAT Collaborative Research Group. Major
outcomes in high-risk hypertensive patients randomized to
angiotensin-converting enzyme inhibitor or calcium channel blocker vs
diuretic: The Antihypertensive and lipid-Lowering treatment to prevent
Heart Attack Trial (ALLHAT). JAMA 2002 Dec 18; 288:
2981-97
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all'inizio
ALLHAT anche per
l'iperlipidemia
Lo studio ALLHAT ha
incluso anche un sottostudio randomizzato non in cieco in cui circa 10,
000 pazienti di età di 55 anni o più, ipertesi e con almeno un fattore di
rischio coronarico sono stati trattati con pravastatina a 40 mg/die contro
trattamento usuale. Come criterio di inclusione si scelse un livello di
LDL colesterolo compreso tra 120 e 189 mg/dl per i pazienti senza
coronaropatia (fu considerato antietico negare la statina a pazienti
affetti da coronaropatia e livelli più alti di LDL). Dopo 4 anni, l'84%
dei pazienti del gruppo di trattamento con pravastatina assumevano ancora
il farmaco, a paragone del 17% del gruppo di controllo e i livelli medi di
LDL colesterolo erano scesi del 28% a paragone dell'11% tra i pazienti in
terapia usuale. In un periodo di follow-up di 5 anni non si osservarono
differenze significative tra i due gruppi per quanto riguarda la mortalità
per tutte le cause (14.9% contro 15.3%) o per quel che riguarda
l'incidenza di infarto cardiaco fatale e nonfatale (9.3% contro
10.4%). I risultati di questo studio contrastano con quelli di numerosi
e conosciuti studi precedenti. Gli autori sostengono che le differenze
nella concentrazione delle LDL nel gruppo di trattamento e quello di
controllo non erano così marcate come negli altri studi e che lo studio
ALLHAT, con 500 gruppi di lavoro interessati riflette una realtà molto più
eterogenea degli altri studi.
The ALLHAT
Officiers and Coordinators for the ALLHAT Collaborative Research Group.
Major outcomes in moderately hypercolesterolemic, hypertensive patients
randomized to pravastatin vs usual care: The Antihypertensive and
Lypid-Lowering treatment to prevent Heart Attack Trial
(ALLHAT-LLT) JAMA 2002 Dec 18; 288: 2998-3007
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all'inizio
Avastin
in combinazione con chemioterapia: risultati
incoraggianti
Un nuovo farmaco
sperimentale disegnato per ridurre l'apporto di sangue ai tumori ha
mostrato incoraggianti risultati nei pazienti affetti da cancro
colorettale in fase avanzata se appaiato alla tradizionale chemioterapia.
I risultati di questo studio condotto presso lo UCLA Jonsson Cancer
Center, potrebbero cambiare le modalità di trattamento dei pazienti con
cancro in fase terminale. La combinazione dia Avastin e chemioterapia si è
dimostrata superiore alla chemioterapia da sola nel trattamento del cancro
colorettale in fase avanzata. Un tumore non può raggiungere grandi
dimensioni finché non crea un autonomo apporto di sangue con un processo
chiamato neoangiogenesi che può procurargli un adeguato apporto di
ossigeno e sostanze nutritive. I ricercatori ipotizzano che rallentare o
meglio fermare questo processo può "affamare" il tumore e addirittura
ucciderlo. In questo studio l'Avastin è stato somministrato insieme alla
classica terapia con 5-fluorouracile e folati con la speranza che questo
nuovo farmaco, un anticorpo monoclonale che attacca il Growth factor
endoteliale, potesse rendere più efficace la chemioterapia e viceversa con
un meccanismo sinergico. I pazienti dello studio di fase II che
ricevettero l'Avastin in combinazione con la chemio hanno avuto una
percentuale di risposte migliore e una migliore sopravvivenza rispetto ai
pazienti trattati con la sola chemioterapia. Inoltre i pazienti sottoposti
al trattamento combinato hanno avuto un più lungo periodo di remissione e
più bassi livelli di markers tumorali. I risultati di questo studio hanno
permesso la costruzione di un trial di fase III su 1.000 pazienti.I
risultati di questo ultimo trial sono attesi per il prossimo anno e
dovrebbero fornire alcune risposte definitive sull'uso
dell'Avastin.
www.docguide.com
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all'inizio
Confermata negli studi a 2 anni
l'efficacia dell'Alendronato 70 mg 1 volta a
settimana
L'intento dello studio
è stato quello di dimostrare che l'alendronato a 70 mg 1 volta a settimana
o a 35 mg 2 volte a settimana ha la stessa efficacia della
somministrazione giornaliera a 10 mg. 1258 donne in post menopausa (età
compresa tra 42- 95 anni), con densità minerale ossea inferiore a T Score
di -2,5 SD a livello della colonna lombare o del collo femore, sono state
assegnate in modo randomizzato al trattamento con alendronato ai dosaggi:
10 mg /die, 35 mg 2 volte a settimana, 70 mg 1 volta a settimana. Lo
studio in doppio ceco ha avuto una durata di 2 anni. L'incremento medio
della BMD a 24 mesi nei tre gruppi si dimostrato sostanzialmente simile
nei tre gruppi (circa il 7% a livello della colonna lombare e circa il 4%
a livello del femore), anche la riduzione dei markers di riassorbimento
osseo è stata simile nei 2 gruppi. Tutti e 3 i regimi sono stati ben
tollerati con una incidenza di effetti collaterali a livello
gastrointestinale molto simile tra i 3 gruppi. Per quanto concerne il
numero delle fratture non sono emerse differenze significative tra i 3
gruppi. Lo studio conferma i dati degli studi ad 1 anno sulla equivalenza
del regime terapeutico con alendronato a 70 mg settimana rispetto alla
classica somministrazione giornaliera.
J Bone Miner Res
2002 Nov;17(11):1988-96
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all'inizio
Entecavir più efficace della
Lamivudina nell'Epatite B
Un nuovo analogo
nucleotidico l'entecavir sembra avere un effetto antivirale più potente
della Lamivudina contro l'infezione cronica da virus dell'Epatite B. In un
trial clinico in doppio ceco di fase II su 169 pazienti con infezione
cronica da virus dell'Epatite B durato 24 settimane sono stati raffrontati
lamivudina e entecavir. L'entecavir ha dimostrato una chiara risposta
dose dipendente e alla dose di 0,5 mg /die si è ottenuta una carica virale
non dosabile con la metodica in uso (Quantiplex branched DNA assay)
nell'83% dei pazienti contro il 57,5 % dei pazienti i trattamento con
lamivudina. Pochissimi pazienti in entrambe i gruppi hanno raggiunto la
sieroconversione o la scomparsa dello HBeAg a 22 settimane in compenso un
numero maggiore di pazienti in trattamento con entecavir ha raggiunto una
normalizzazione delle transaminasi a 22 settimane rispetto ai pazienti
trattati con lamivudina anche se non in maniera statisticamente
significativa. L'entecavir, per finire, si è dimostrato meglio
tollerato.
Gastroenterology
2002;123(6):1831-1838
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all'inizio
HRT: non utili nè Terapia Ormonale
Sostitutiva (TOS) nè gli antiossidanti, nelle donne con stenosi coronarica
documentata
Sono state selezionate
per questo studio 423 donne in condizione postmenopausale (età media 65
anni), affette da stenosi coronarica documentata angiograficamente. La
popolazione femminile in oggetto fu randomizzata per ricevere TOS (0.625
mg di estrogeni equini coniugati più 2.5 mg di progesterone nei soggetti
che non erano stati isterectomizzati) contro placebo. Inoltre,
nell'ambito dei due gruppi, i soggetti furono ulteriormente randomizzati
per ricevere farmaci antiossidanti (400-IU di vitamina E più 500 mg di
vitamina C) o placebo. Le coronarografie vennero eseguite all'entrata
nello studio e dopo una media di 2.8 anni. Il calibro medio delle arterie
coronarie esaminate non differì in modo significativo nei due
gruppi. Alla fine dello studio, si vide che le donne assegnate alla TOS
andarono incontro a morte improvvisa e infarto in numero maggiore rispetto
al gruppo di controllo. Le donne trattate con antiossidanti ebbero
esiti peggiori del gruppo placebo, benchè il dato non risultasse
significativo.
Waters DD et et
al Effects of hormone replacement therapy and antioxidant vitamin
supplements on coronary atherosclerotis in postmenopausal women: A
randomized controlled trial JAMA 2002 Nov 20; 288:
2432-40
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all'inizio
Ipertesi una volta, ipertesi per
sempre? No!
Studi preliminari,
principalmente metanalisi, hanno dimostrato come pazienti ipertesi di
grado lieve-medio con buon controllo della pressione, una volta sospesa la
terapia antipertensiva, nel 42% dei casi rimangano normotesi. In questo
studio prospettico, gli autori hanno cercato di definire i fattori in
grado di predire se un paziente iperteso in trattamento, dopo la
sospensione della terapia possa rimanere a con la pressione a valori
normali e per quanto tempo. I pazienti, di età compresa tra 65 e 84
anni furono reclutati da un trial nazionale sul trattamento della
ipertensione. Al momento della sospensione della terapia, 503 pazienti
che rimasero normotesi a 2 settimane furono reclutati per lo studio e
seguiti per 12 mesi. Dopo 12 mesi 181 pazienti (36%) rimasero
normotesi, 273 (54%) ritornarono ipertesi e 49 (10%) ebbero diversa
classificazione, dato che ricominciarono ad assumere farmaci
antiipertensivi per ragioni diverse dall'aumento della pressione. Circa
metà dei pazienti che ritornarono ipertesi manifestarono la condizione
entro 70 giorni dalla sospensione della terapia. L'analisi multivariata
dei dati dimostrò che i fattori predittivi più importanti per lo stato di
permanente normotensione furono l'età più giovane (64-74 anni), un minore
rapporto cintura/anca, una precedente terapia antipertensiva con singolo
farmaco e un minore valore di pressione sistolica durante il
trattamento.
Nelson MR et
al Predictors of normotension on withdrawal of antihypertensive drugs
in elderly patients : Prospective study in second australian national
blood pressure study cohort BMJ 2002 Oct 12; 325: 815-7
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all'inizio
La cannabis fa male
(1)
In questo studio
australiano sono stati seguiti 1601 adolescenti di età media di 14.5 anni
per 7 anni. All'età di 20 anni, circa il 60% della popolazione aveva
provato la cannabis e il 7% continuava ad impiegarla giornalmente. Uno
stato iniziale di depressione ed ansia non era predittivo di futuro uso di
cannabis, mentre un uso settimanale di cannabis era predittivo di un
aumento del doppio di casi di depressione e sindromi ansiose. L'impiego
giornaliero nelle donne si associava con un incremento di circa 5 volte
nel rischio di insorgenza di depressione e sindrome ansiosa.
Patton GC et
al Cannabis use and mental health in young people: Cohort study BMJ
2002 Nov 23; 325: 1195-8
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all'inizio
La cannabis fa male
(2)
La pubblicazione dei
risultati della continuazione di uno studio svedese, con un follow-up più
lungo, comprendente 50,087 uomini di età compresa tra 18 e 20 anni ha
dimostrato una relazione dose dipendente tra l'impiego di cannabis e il
rischio di sviluppare schizofrenia. Tra i consumatori solo di cannabis
che ne avessero fatto uso almeno 50 volte si osservò una Odds Ratio
aggiustata pari a 6.7.
Zammit S et
al self reported cannabis use as a risk factor for schizophrenia in
Swedish conscripts of 1969: Historical cohort study BMJ 2002 Nov 23;
325: 1199-201
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all'inizio
La cannabis fa male
(3)
Ulteriore studio
neozelandese sull'argomento. Furono arruolati 759 bambini di 11 anni di
età. I soggetti furono esaminati dal punto di vista psichiatrico al
momento dell'arruolamento e all'età di 26 anni. Il consumo di cannabis
venne testato all'età di 15 e 18 anni. A paragone dei soggetti che
avevano impiegato cannabis raramente o mai (65% del gruppo), i consumatori
abituali di cannabis presentavano una probabilità significativamente
maggiore di avere sintomi di schizofrenia all'età di 26 anni.
Arseneault I et
al Cannabis use in adolescents and risk for adult psychosis:
Longitudinal prospective study BMJ 2002 Nov 23; 325:
1212-3
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all'inizio
Lipoproteine e esercizio
fisico
In questo studio sono
stati inclusi 84 adulti in soprappeso con abitudini sedentarie e
dislipidemia da lieve a media. I pazienti sono stati randomizzati in 4
gruppi: molto esercizio fisico ad alta intensità (equivalente a 20 miglia
alla settimana di jogging); poco esercizio fisico ad alta intensità
(equivalente a 12 miglia di jogging alla settimana); poco esercizio fisico
ad intensità media (equivalente a 12 miglia di passeggiata alla
settimana); nessun esercizio. Le lipoproteine vennero valutate
all'inizio dello studio e dopo 8 mesi. Alla fine dello studio non si
apprezzarono variazioni significative nel dosaggio delle LDL colesterolo o
del colesterolo totale tra i vari gruppi. Tuttavia, a paragone del
gruppo di controllo il gruppo sottoposto a esercizio intenso in grande
quantità mostrò un significativo aumento dei dosaggi di HDL-Colesterolo e
nella grandezza delle LDL e una diminuzione significativa nella
concentrazione delle LDL di piccola dimensione, considerate essere molto
più aterogene delle LDL di più grandi dimensioni. Nei due gruppi
intermedi si dimostrarono variazioni di uguale tipo ma meno
marcate. Considerando 11 differenti variabili legate alle lipoproteine,
si vide che il fattore più importante per i cambiamenti nell'assetto
lipidico era la quantità di esercizio fisico, piuttosto che la
intensità
Kraus WE et
al Effects of the amount and intensità of exercise on plasma
lipoproteins N Engl J Med 2002 Nov 7; 347: 1483.92
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all'inizio
Obesità e bendaggio gastrico
(1)
Il bendaggio gastrico
consiste nel mettere una "cintura" intorno al corpo dello stomaco in modo
da formare una tasca prossimale che, funzionando da "stomaco", riduce il
volume disponibile per l'introduzione di alimenti. Mediante un catetere
connesso con un port sottocutaneo, si può iniettare o aspirare fluido nel
bendaggio, chiudendo o aprendo lo stoma così formato tra la tasca
superiore e il resto dello stomaco. In questo lavoro vengono presi in
esame i risultati concernenti 500 pazienti in cui è stato inserito il
dispositivo "Lap band". Non si osservarono morti perioperatorie. La
complicanza maggiore più comune fu la perforazione gastrica (4 pazienti).
Altre complicazioni, osservate in 80 pazienti, furono costituite da
scivolamento della banda e disfunzione del dispositivo di regolazione
della larghezza dello stoma. 52 pazienti (circa il 10%) furono
rioperati per correggere complicanze di questo tipo. I pazienti operati
persero in media metà del loro peso nell'arco di 2 anni.
Zinzindohoue F et
al Laparoscopic gastric banding: A minimally invasive surgical
treatment for morbidy obesity. Prospective study of 500 consecutive
patients. Ann Surg 2003 Jan; 237: 1-9
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all'inizio
Obesità e bendaggio gastrico
(2)
In questo lavoro sono
riportati i risultati di 625 interventi in cui fu impiantato un
dispositivo di bendaggio gastrico regolabile denominato "Swedish
adjustable gastric band", non ancora approvato dalla FDA. Non si
verificarono morti preoperatorie. Due pazienti richiesero un reintervento
precoce per complicanze e 49 furono rioperati a distanza di tempo.
Anche in questo studio i pazienti persero in media metà del loro peso
in eccesso dopo 2 anni.
Ceelen W et
al Surgical treatment of severe obesity with a low-pressure adjustable
gastric band: Experimental data and clinical results in 625
patients Ann Surg 2003 Jan; 237: 10-6
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all'inizio
Omocisteina e malattia
cardiovascolare
Sono in corso trias
randomizzati in popolazione asintomatica che hanno per obiettivo la
dimostrazione di possibili riduzioni del rischio cardiovascolare mediante
l'abbassamento dei livelli ematici di omocisteina. In attesa di questi
risultati gli autori di questo studio hanno condotto una metanalisi degli
studi osservazionali più rilevanti. Sono stati identificati 30 studi,
con il coinvolgimento di più di 16,000 soggetti. I dati sono stati
aggiustati per età, sesso, fumo, pressione del sangue e colesterolo. I
dati ottenuti dai 12 studi prospettici (circa 9000 soggetti) indicano che
un abbassamento del 25% dei livelli di omocisteina è associato con una
diminuzione del rischio dell'11% per cardiopatia ischemica e del 19% per
ictus. Gli autori dello studio concludono che l'omocistienemia elevata
può essere al massimo un modesto predittore indipendente di eventi
vascolari. I trias in arrivo chiariranno ulteriormente le
idee.
The Homocysteine
studies Collaboration. Homocysteine and risk of ischemic heart disease and
stroke:a meta-analysis JAMA 2002 Oct 23/30;
288:2015-22
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all'inizio
Rischio cardiovascolare: tenere conto
anche della proteina C reattiva (PCR)
Partendo da dati
preliminari che suggerivano una associazione tra valori della PCR e
malattie cardiovascolari, gli autori di questo studio hanno paragonato i
valori di LDL colesterolo e PCR come predittori di malattie
cardiovascolari in 28,000 donne di età media di 55 anni. Durante un
follow-up medio di 8 anni, si è visto che il livello di CPR era in grado
di predire meglio delle LDL la possibilità di primo evento
cardiovascolare. Nel quintile con i valori maggiori di PCR, il rischio
era 2.3 volte maggiore rispetto al quintile con valori minori. Il rischio
relativo calcolato per le LDL era invece solo 1.5. La probabilità di
non avere alcun episodio di cardiopatia risultò del 99% nelle donne in cui
sia i livelli di PCR che quelli delle LDL erano entrambi inferiori alla
media di popolazione, ma scendeva al 96.5% nelle donne in cui PCR e LDL
erano entrambi sopra i livelli medi della popolazione. La combinazione
tra alti livelli di PCR/bassi livelli di LDL o alti livelli di LDL/bassi
livelli di PCR individuava pazienti con profilo di rischio
intermedio. Sembrerebbe quindi che anche la PCR possa fornire
informazioni sulla malattia aterosclerotica coronaria, che risulterebbero
diverse da quelle fornite dal dosaggio delle LDL. Tuttavia l'impiego
del dosaggio della PCR necessita ancora di parecchie puntualizzazioni per
essere inserito in un contesto di ricerca allargata a tutta la
popolazione.
Ridker PM et
al Comparison of C-reactive protein and low-density lipopritein
cholestewrol levels in the prediction of first cardiovascular events N
Engl J Med 2002 Nov 14; 347: 1557-65
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all'inizio
Rinosinusite cronica e antimicotici
per via intranasale
La Rinosinusite
cronica è una malattia cronica molto comune e molto spesso refrattaria al
trattamento medico. Un gruppo di ricercatori della Mayo Clinic di
Rochester negli USA ha condotto uno studio prospettico per dimostrare la
sicurezza e l'efficacia di un trattamento con antimicotici per via
intranasale nei pazienti affetti da rinosinusite cronica. Sono stati
arruolati nello studio 51 pazienti randomizzati che sono stati trattati
mediante instillazione nasale di 20 ml due volte al giorno di una
soluzione di amfotericina B alla concentrazione di 100 microgrammi/ml. La
valutazione dei risultati è stata ottenuta raffrontando i sintomi
riportati dai pazienti, tac dei seni paranasali e esami endoscopici prima
e dopo il trattamento. Risultati:con l'uso dell'amfotericina B è stato
riscontrato un miglioramento della sinusite in 38 (75%) dei 51 pz.
Endoscopicamente 18 (35%) dei pazienti era libero da malattia dopo il
trattamento ed un ulteriore 39% (20 pz) aveva avuto un miglioramento
valutabile in almeno 1 stadio della malattia. In 13 pz (25%) non è stato
osservato alcun miglioramento. La tac ottenuta dopo terapia paragonata con
quella eseguita prima del trattamento ha evidenziato una significativa
riduzione dello spessore della mucosa infiammata che occludeva i seni
paranasali. Gli autori concludono che la somministrazione intranasale
di amfotericina B è sicura ed efficace nel trattamento della rinosinusite
cronica, tuttavia per definire meglio il ruolo degli antimicotici nella
rinosinusite cronica occorrono altri studi.
J Allergy Clin
Immunol 2002 Dec;110(6):862-6
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all'inizio
Pazienti
con fibrillazione atriale: controllo del ritmo o della frequenza?
(1)
Un paziente con
fibrillazione striale può essere trattato per ottenere il ripristino del
ritmo sinusale (controllo del ritmo) o si può cercare di mantenere una
frequenza costante nell'ambito di un ritmo cronicamente fibrillante
(controllo della frequenza). In questo studio di cerca di dimostrare
una reale differenza in termini di utilità clinica tra queste due condotte
terapeutiche. Sono stati arruolati 4060 pazienti affetti da
fibrillazione striale di recente insorgenza ( non più di 6 mesi) di età
massima di 65 anni o con fattori di rischio per ictus. I pazienti
furono randomizzati per essere trattati per il ripristino del ritmo
(farmaci antiaritmici e cardioversione se necessario) o per il controllo
della frequenza (beta-bloccanti, calcioantagonisti, diossina o
combinazioni di questi farmaci) e furono seguiti per un periodo medio di
3.5 anni. Entrambi i gruppi furono trattati con warfarin.La mortalità
stimata a 5 anni risultò del 23.8% nel gruppo trattato per il ripristino
del ritmo e del 21.3% nel gruppo trattato per il controllo della frequenza
(P=0.08). Nel gruppo trattato per il controllo del ritmo, inoltre, si
osservò un maggiore tasso di ospedalizzazione e effetti collaterali da
farmaci.
The Atrial
Fibrillation Follow-up Investigation of Rythm Management (AFFIRM)
Investigators A Comparison of rate control and rhytm control in
patients with atrial fibrillation N Engl J Med 2002 dec 5; 347:
1825-33
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all'inizio
Pazienti con fibrillazione atriale:
controllo del ritmo o della frequenza? (2)
Stesso protocollo
dello studio precedente in 522 pazienti di età media di 68 anni affetti da
fibrillazione striale ricorrente o persistente dopo tentativo di
cardioversione. Durante un periodo medio di follow-up di 2.3 anni,
l'endopoint composto da morte cardiovascolare, scompenso cardiaco,
tromboembolia, sanguinamento, impianto di paca-maker o effetti collaterali
da farmaci gravi, si verificò più frequentemente nel gruppo in cui si
cercava di ripristinare il ritmo sinusale rispetto al gruppo di controllo
della frequenza (22.6% contro 17.2%). Il confronto non mostrò
differenze significative. In particolare si vide che le donne e i
pazienti ipertesi manifestarono esiti peggiori se sottoposti a tentativo
di ripristino del ritmo sinusale. ( Una osservazione è doverosa:
esiste una tecnica di recente introduzione che permette, tramite ablazione
in radiofrequenza, di ristabilire il ritmo sinusale in pazienti affetti da
fibrillazione atriale. Questa tecnica non è stata presa in
considerazione in questi studi ma in gruppi selezionati di pazienti
risulta una più che valida alternativa al controllo della frequenza. La
sua complessità non la rende ancora disponibile ad un gruppo allargato di
pazienti.)
Van Gelder IC et
al A comparison of rate control and rythm control in patients with
recurrent persistent atrial fibrillation N Engl J Med 2002 Dec 5; 347:
1883-4
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all'inizio
Sclerosi Multipla progressiva nuovo
approccio terapeutico
La Sclerosi Multipla,
malattia autoimmune che colpisce soprattutto la sostanza bianca del
cervello e del midollo spinale, è una delle affezioni neurologiche più
comuni tra i giovani adulti ed è causa di gravi disabilità. Circa l'85 %
dei pazienti sperimenta all'inizio della malattia una o più ricadute
seguite da fasi di acuzie della malattia e da remissioni complete o
incomplete (relapsing-remitting) ma nell'arco di 10 anni circa il 50% di
questi pazienti passerà alla fase secondaria progressiva della malattia
caratterizzata da un peggioramento graduale delle disabilità neurologiche
con sovrapposte o meno fasi di acuzie. Circa un 10% dei pazienti, invece,
verrà colpito da una forma che si presenta come progressiva fin
dall'esordio (Sclerosi Multipla Progressiva Primaria). Un ulteriore 5% dei
pazienti verrà colpito invece da una forma progressiva fin dall'inizio ma
accompagnata nella fase finale da episodi di acuzie e remissioni definita
dagli autori di lingua inglese come "progressive-relapsing multiple
sclerosis". Attualmente disponiamo di tre farmaci capaci di modificare
il decorso clinico della malattia approvati per il trattamento della
Sclerosi Multipla relapsing-remitting: interferone beta-1b-, interferone
beta-1a-, e glatiramer acetato. Questi farmaci riducono significativamente
la media degli episodi nell'anno e rallentano la progressione del processo
morboso sottostante come dimostrato dagli studi seriati del SNC e del
midollo spinale eseguiti con RM. In Europa, come dimostrato dallo studio
EUSP, l'interferone 1 beta -1b è stato capace di ritardare
significativamente l'esordio della fase progressiva della malattia e
quindi la comparsa dei danni permanenti neurologici misurati con al scala
EDSS. Questi risultati non sono stati confermati, però, in altri Trial di
fase III (SPECTRIMS e IMPACT) e il National Institute for Clinical
Excellence nel Regno Unito ha raccomandato la sospensione
dell'approvazione dell'interferone beta -1b nel trattamento della Sclerosi
Multipla progressiva secondaria senza recidive. Il Mitoxantrone,
farmaco usato per il trattamento di diverse forme tumorali, possiede
alcune proprietà immunosoppressive che spiegano il rationale d'uso nella
Sclerosi Multipla che notoriamente è associata ad una alterata risposta
delle T e B cells agli antigeni del sistema nervoso centrale. Il
Mitoxantrone inibisce l'attivazione delle T-cells e blocca la
proliferazione delle T-cells e delle B-cells, inibisce i macrofagi e
diminuisce la produzione di anticorpi. In laboratorio il mitoxantrone è in
grado di curare la encefalomielite autoimune indotta nei topi che
costituisce il modello animale sperimentale della Sclerosi
Multipla. Alcuni incoraggianti risultati ottenuti in precedenti studi
pilota hanno portato al Trial multicentrico di fase III sull'uso del
Mitoxantrone nella Sclerosi Multipla progressiva secondaria (MIMS
study). 194 pazienti sono stati arruolati nello studio, 188 di questi
sono stati verificati a 24 mesi. I pazienti sono stai assegnati in maniera
randomizzata ai due bracci dello studio: placebo o mitoxantrone (5mg/m2) o
12 mg/m2)ogni 3 mesi per 24 mesi. L'endpoint primario è stato determinato
con l'analisi multivariata di 5 paramentri clinici. Trai 188 pazienti
giunti alla verifica del 24°mese non sono stati osservati effetti
collaterali correlati al farmaco o segni di danno cardiaco. A 24 mesi il
gruppo in terapia con mitoxantrone riportava benefici clinici
statisticamente significativi rispetto al gruppo placebo.La terapia con
mitoxantrone a 12 mg /m2 è stata in genere ben tollerata ed ha portato ad
una riduzione della progressione dei danni neurologici e delle
riacutizzazioni della malattia. Sono necessari ulteriori studi per
determinare quali pazienti affetti da Sclerosi Multipla abbiano le
maggiori probabilità di rispondere al trattamento e quali siano i
protocolli di trattamento più appropriati.
Lancet:
2002;360:2018-25
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Coronaropatia multivasale: stent o
bisturi?
L'angioplastica si è
dimostrata efficace come il bisturi per le coronarie stenotiche, ma è
gravata da una percentuale maggiore di restenosi. Attualmetne però,
l'impiego degli stent può ridurre il tasso di restenosi rendendo
competitiva di nuovo la metodica meno invasiva. In questo studio sono
stati reclutati 988 pazienti randomizzati per essere sottoposti a stenti o
bypass. Dopo un follow-up medio di 2 anni, l'incidenza dell'endpoint
composto da morte e infarto con onda Q fu simile in entrambi i gruppi
(circa il 10%), ma la mortalità per tutte le cause fu significativamente
minore nel gruppo trattato con bypass (5% contro 2%). Va però detto che
nel gruppo trattato con stent vi furono 8 decessi per neoplasia, patologia
difficilmente correlabile al trattamento. La necessità di ulteriori
procedure di rivascolarizzazione fu significativamente maggiore nel caso
di impianto di stent che di bypass (21% contro 6%). (Difficile trarre conclusioni da
questo studio: Gli stent riducono la percentuale di restenosi
dell'arteria, questo è certo. Però altrettanto certo è che l'impianto di
stent richiede ancora una percentuale maggiore di nuovi interventi sulle
arterie in seguito al fallimento della procedura primaria. Inoltre in
questo studio la mortalità nel gruppo trattato con stent risulta maggiore.
Questo dato tuttavia non è confermato da altri studi ed è gravato dal
fatto che nel gruppo trattato con stent vi sono stati 8 decessi per
neoplasia. Inoltre sono a disposizione ora nuovi stent medicati con
percentuali ancora minori di restenosi. Un nuovo importante trial che
prende in considerazione questi nuovi dispositivi è in corso e si
attendono i risultati.)
The SoS
Investigators. Coronary artey bypass surgery versus percutaneous coronary
intervention with stent impalntation in patients with multivessel coronary
artery disease (the Stent or Surgery trial): A randomised controlled
trial. Lancet 2002 sep 28; 360: 965-70
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Studio Cooperate (2 farmaci sono meglio
che 1, nell'insufficienza renale)
Le attuali terapie con
ACE inibitori non sono in grado di arrestare la progressione
dell'insufficienza renale non correlata a diabete. Scopo dello studio
COOPERATE è quello di testare gli effetti, in termina di efficacia e
sicurezza, di un trattamento combinato ACE-inibitore/Antagonisti
recettoriali della Angiotensina II in raffronto alla monoterapia con
entrambe le classi di farmaci al massimo dosaggio nei pazienti con
nefropatia non diabetica. 336 pazienti affetti da insufficienza renale
cronica non correlata a nefropatia diabetica sono stati arruolati in
Giappone tra i pazienti ambulatoriali della nefrologia, dopo uno screening
e un periodo di osservazione di 18 settimane 263 pazienti sono stati
assegnati in maniera randomizzata al trattamento con sartanici (Losartan
100 mg /die) o ACE -inibitori (trandolapril 3 mg/die) o a una terapia
combinata con entrambe i farmaci a dosi equivalenti. Sono state effettuate
quindi le analisi di sopravvivenza per comparare gli effetti di ogni
regime sugli endpoint primari combinati: raddoppio della creatinina o
insufficienza renale terminale. 7 pazienti interruppero il follow up.10
pazienti su 85 (11%) del gruppo in trattamento con terapia combinata
raggiunsero l'endpoint combinato contro 20 (23%) degli 86 pazienti in
trattamento con losartan da solo e i 20 (23%) degli 85 pazienti in
trattamento con trandolapril da solo. La frequenza di effetti collaterali
con la terapia combinata fu la stessa osservata con il trandolapril da
solo. Conclusioni:Il Trattamento combinato ritarda in maniera sicura la
progressione dell'insufficienza renale non correlata a nefropatia
diabetica se paragonata alla monoterapia.Tuttavia, dato che alcuni
pazienti hanno raggiunto l'endpoint primario anche in terapia combinata,
sono necessarie ulteriori strategie terapeutiche per un completo
management della insufficienza renale progressiva non correlata a
nefropatia diabetica.
Lancet
2003;361:117-24
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Un fattore dietetico sconosciuto
responsabile della vasculopatia diabetica?
Gli AGEs (advanced
glycation end products) sono composti che si formano dalla complessazione
degli zuccheri con proteine o lipidi. Il contenuto in AGEs dei cibi può
essere variato con il controllo del tempo di cottura e della
temperatura. Gli autori di questo studio dimostrano che un composto di
questo tipo, assunto con la dieta, possiede capacità di indurre la
vasculopatia nel diabetico. 24 pazienti diabetici sono stati
randomizzati e assegnati per 6 settimane a due regimi dietetici
equivalenti per calorie, proteine, carboidrati e grassi, però uno dei due
regimi dietetici presentava un basso contenuto in AGEs, mentre l'altro
aveva un contenuto in AGEs 5 volte superiore al normale. I pazienti che
assumevano meno AGEs con la dieta presentavano meno AGEs nel sangue,
inoltre presentavano una minore concentrazione ematica di citochine
infiammatorie di vario tipo, di markers infiammatori (es PCR) e di
molecole di adesione, tutti composti chimici associati fortemente con la
presenza di vasculopatia. La concentrazione ematica di PCR aumentò del
35% nei pazienti a regime dietetico con alto contenuto di AGEs e diminuì
del 20% nei pazienti con regime a basso contenuto di
AGEs. Parallelamente il fattore di necrosi tumorale alfa aumentò
dell'86% con la dieta ad alto contenuto di AGE e diminuì del 20% con la
dieta a basso contenuto di AGE. Sembrerebbe una importante scoperta, se
confermata. La riduzione del rischio di vasculopatia nel diabetico
attenuta con la semplice modificazione del sistema di cottura dei
cibi. Occorrono altre conferme, ma la premesse di una scoperta
importante ci sono tutte.
Vlassara H et
al Inflammatory mediators are induced by dietary glycotoxins, a major
risk factor for diabetic angiopaty Procl Natl Acad Sci USA 2002 Nov 26;
99; 15596-601
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APPROFONDIMENTI
A proposito
di terapia ormonale sostitutiva in menopausa (il pensiero di alcune
associazioni rappresentative della medicina
generale)
Il recente studio
americano denominato Women’s Health Initiative (WHI), pubblicato sulla
rivista JAMA, ha dimostrato che l’assunzione combinata di estrogeni e
progestinici dopo la menopausa presenta complessivamente più rischi che
benefici. Questo risultato, contrario alle aspettative e ampiamente
diffuso dalla stampa, ha suscitato comprensibili preoccupazioni (in Italia
si stima che circa l’8% delle donne in menopausa assumano estrogeni), ma
anche reazioni e commenti non sempre utili a fare chiarezza, e talvolta
persino fuorvianti. Le Società Scientifiche dei Medici di Medicina
Generale e gli altri gruppi e associazioni firmatari del presente
documento, ritengono perciò opportuno presentare questa posizione,
basata sulle conoscenze attualmente disponibili ed elaborata
congiuntamente, che riassume le informazioni essenziali. Le
donne interessate potranno ottenere dal loro medico di fiducia ulteriori
chiarimenti ed indicazioni personalizzate, in modo da poter compiere una
scelta libera e consapevole.
Le conoscenze
precedenti
Precedentemente al WHI
numerose osservazioni suggerivano un possibile e notevole effetto
protettivo degli estrogeni (somministrati a lungo dopo la menopausa) nella
prevenzione dell’osteoporosi e di alcune importanti patologie
cardiovascolari: alcuni dati lasciavano supporre addirittura un
dimezzamento di malattie come la cardiopatia ischemica e l’infarto del
miocardio. Era noto anche il rischio di un aumento dei tumori al seno, che
tuttavia appariva di entità modesta e tale da non pregiudicare i possibili
benefici se la terapia veniva seguita in assenza di controindicazioni, da
donne attentamente seguite dai medici e disposte agli opportuni controlli
periodici. Sta di fatto però che si trattava soltanto di ipotesi non
dimostrate mediante studi scientifici rigorosi, e lo studio WHI si
proponeva quindi di sottoporle ad una verifica definitiva. Lo
studio Women’s Health Initiative (WHI) Circa 16.000 donne di età
compresa tra 50 e 79 anni, in buone condizioni di salute, dopo aver
fornito un consenso informato alla prova, sono state incluse nella
sperimentazione. Di queste, metà sono state sorteggiate ad assumere una
combinazione di pillole a base di estrogeni naturali coniugati associati
ad un progestinico (indispensabile per bilanciare il rischio di tumori
all’utero), mentre l’altra metà assumeva pillole di placebo, cioè prive di
ormoni. Questa metodologia di indagine (trial clinico controllato) è la
più sicura per dimostrare gli effetti di una terapia, e viene infatti
normalmente usata nelle ricerche cliniche per ottenere risultati
affidabili. La durata prevista dello studio era di circa 8 anni, al
termine dei quali si sarebbero tratte le conclusioni confrontando gli
effetti nei due gruppi di donne. Come è noto, lo studio è stato invece
interrotto in anticipo, non appena è divenuto chiaro che gli svantaggi
prevalevano sui benefici e la sua prosecuzione non avrebbe più potuto
modificare i risultati. Nei circa 5 anni precedenti all’interruzione del
WHI, si sono avuti nelle donne che assumevano estrogeni e
progesterone:
- un aumento del 29%
di cardiopatie coronariche, pari a circa 7 casi in più ogni anno su
10.000 donne,
- un aumento del 26%
di tumori del seno, pari a circa 8 casi in più ogni anno su 10.000
donne,
- un aumento del 41%
di ictus cerebrale, pari a circa 8 casi in più ogni anno su 10.000
donne,
- un aumento del 113%
di tromboembolie polmonari, pari a circa 8 casi in più ogni anno su
10.000 donne.
I vantaggi sono stati
invece:
- una diminuzione del
34% delle fratture dell’anca, pari a circa 5 casi in meno ogni anno su
10.000 donne,
- una diminuzione del
37% dei tumori del colon, pari a circa 6 casi in meno ogni anno su
10.000 donne.
Non vi sono state
invece differenze significative di mortalità nei due gruppi di donne.
Come si può osservare dai dati, i valori espressi in percentuale danno
un’impressione preoccupante, ma i numeri assoluti per 10.000 donne
chiariscono che si tratta di rischi modesti e non è quindi giustificato
alcun allarmismo. Tuttavia è innegabile che ci si trova di fronte
all’opposto di quanto si sperava di poter dimostrare: la terapia a base di
estrogeni associati a progestinici, pur riducendo le fratture e i tumori
del colon, nel complesso presenta più rischi che benefici. La grandissima
maggioranza delle donne che la pratica, anche se non incorre in effetti
avversi, non ottiene quindi nessun reale vantaggio in termini preventivi,
facendo cadere la motivazione per un trattamento prolungato. La
conclusione è che in base a questi risultati una terapia ormonale
sostitutiva di lunga durata non è raccomandabile per le donne appartenenti
alla tipologia studiata, quelle cioè apparentemente in buona salute di età
tra 50 e 79 anni. Per quanto riguarda invece le donne affette da malattie
cardiovascolari, vi erano già altri studi in base ai quali la terapia è da
ritenersi controindicata. Va precisato che i risultati di questa
ricerca non sono applicabili a trattamenti di breve durata (alcuni mesi)
effettuati per ridurre i fastidiosi sintomi della menopausa, né ai
trattamenti effettuati nelle donne più giovani, ad esempio per una
menopausa precoce: in questi casi i vantaggi possono essere superiori ai
rischi. Inoltre il WHI non fornisce informazioni sul trattamento con
estrogeni non associati a progestinici, che però possono essere dati solo
a donne isterectomizzate.
Le critiche allo
studio WHI
Lo studio è stato
criticato perché includeva donne in media più anziane di quelle che
normalmente assumono estrogeni associati a progestinici per la menopausa
in Italia, e inoltre perché vi sarebbe stata una maggiore presenza di
donne a rischio vascolare (diabetiche, ipertese, o in sovrappeso).
L’obiezione è infondata: nello studio WHI non risultano differenze in base
all’età, alla pressione arteriosa, al peso o alla presenza di diabete, e i
risultati sono quindi validi indipendentemente dall’età delle donne, dal
peso, dalla pressione arteriosa e dalle diverse altre situazioni
considerate. Peraltro si può presumere che nelle donne più giovani anche i
vantaggi sulle fratture da osteoporosi e sulla prevenzione dei tumori del
colon sarebbero in assoluto minori, perché meno a rischio di incorrere in
tali patologie.
Si è inoltre sostenuto
che i cerotti agli estrogeni siano più sicuri delle pillole, ma nonostante
quanto riportato da alcuni organi di stampa, non vi sono prove a supporto
di questa opinione. Prima di affermarlo sarà necessario effettuare
sperimentazioni cliniche altrettanto rigorose (se non altro per non
basarsi su impressioni che possono essere ancora una volta
smentite).
Infine, secondo
alcuni, si sarebbe ingiustamente trascurato il fatto che le donne trattate
con estrogeni e progestinici hanno una migliore qualità di vita. A questo
proposito va sottolineato che la terapia di breve durata a base di tali
farmaci per i sintomi della menopausa non è in discussione, ma in assenza
di disturbi del climaterio non è stato finora dimostrato che le donne che
li assumono abbiano davvero una migliore qualità di vita per effetto del
trattamento: potrebbe darsi, ad esempio, che le donne con una migliore
qualità di vita siano più disposte ad utilizzarli delle altre. Comunque
buona parte delle interessate interrompe la terapia spontaneamente (in
genere non molto tempo dopo la scomparsa dei disturbi) e questo fa
presumere che di solito le donne non avvertano particolari disagi
quando smettono. In ogni caso, solo ciascuna singola donna può decidere
sulla sua qualità della vita, valutando globalmente con l’aiuto del suo
medico i pro e i contro della terapia.
Raccomandazioni
L’assunzione di
estrogeni per ridurre i sintomi che si manifestano all’inizio della
menopausa (i più comuni sono vampate, sudorazioni, insonnia e secchezza
della vagina) può essere molto utile specialmente se i disturbi sono mal
sopportati. Un trattamento breve (alcuni mesi in genere sono sufficienti)
comporta in questi casi molti più benefici che rischi, e salvo
controindicazioni assolute non c’è nessun motivo per rinunciarvi.
Analogamente, nel caso di menopausa precoce (naturale o chirurgica), la
terapia può essere opportuna fino all’età media della menopausa nella
nostra popolazione (50-51 anni), sempre se non vi sono controindicazioni e
sottoponendosi ai necessari controlli.
Non è invece
raccomandabile continuare la terapia ormonale sostitutiva oltre il periodo
necessario per ridurre i sintomi, almeno dopo aver raggiunto l’età della
menopausa naturale. Le stesse indicazioni vanno prudenzialmente
considerate valide sia per gli estrogeni orali che per quelli in
formulazioni transdermiche (cerotti), mentre nelle donne senza utero che
assumono solo estrogeni i dati attualmente disponibili sono insufficienti
per dare indicazioni precise (vi sono studi in corso). Le donne
che assumono estrogeni in qualunque formulazione abbinati a progestinici a
scopo unicamente preventivo, cioè al di fuori dei casi di terapia dei
sintomi o della menopausa precoce, dovrebbero quindi consigliarsi con il
loro medico di fiducia circa l’opportunità di smettere il
trattamento.
I benefici che si
volevano perseguire con la terapia ormonale sostitutiva (soprattutto
prevenzione dell’osteoporosi e delle malattie cardiovascolari) possono
essere ottenuti con altre misure, tra le quali spicca per importanza ed
efficacia lo stile di vita basato su alimentazione corretta, astensione
dal fumo ed esercizio fisico. Nei casi di rischio particolarmente elevato,
sono comunque disponibili altri farmaci.
16 Ottobre
2002
CSeRMEG - Centro
Studi e Ricerche in Medicina Generale; SIMeF - Società Italiana di
Medicina di Famiglia; FIMMG - Federazione Italiana Medici di Medicina
Generale; AIMEF - Associazione Italiana di Medicina di Famiglia; AssCumi -
Associazione Culturale Medici Italiani; EGPRW - European General Practice
Research Workshop - Italia; SIQuAS - VRQ - Società Italiana per la Qualità
dell'Assistenza Sanitaria - Verifica e Revisione di Qualità; Heart
Care Foundation - Fondazione Italiana per la Lotta alle Malattie
Cardiovascolari - ONLUS; AIE - Associazione Italiana di Epidemiologia;
ANMCO - Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri; Rivista
Occhio Clinico; Coordinamento Tecnico Direttori Dipartimento Servizi
Sanitari di Base di ASL Regione Lombardia
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MEDICINA LEGALE E NORMATIVA
SANITARIA
Rubrica
gestita dall'ASMLUC: Associazione Specialisti in
Medicina Legale Università Cattolica (a cura
di D. Z. )
I FANS
controindicati in gravidanza
Il
Decreto 6 dicembre 2002 (GU n. 3 del 4-1-2003) "Modifica degli
stampati di specialità medicinali contenenti antinfiammatori non
steroidei" ha imposto la modifica delle schede tecniche e dei
foglietti illustrativi dei farmaci antiinfiammatori non steroidei. Le
modifiche, che andranno a regime in occasione dell'immissione in commercio
dei lotti successivi al decreto, prevedono, nella voce "Speciali
avvertenze e precauzioni d'uso" che venga riportata l'avvertenza "L'uso
(di questo farmaco ndr), come di qualsiasi farmaco inibitore della sintesi
delle prostaglandine e della cicloossigenasi è sconsigliato nelle donne
che intendano iniziare una gravidanza. La somministrazione dovrebbe essere
sospesa nelle donne che hanno problemi di fertilità o che sono sottoposte
a indagini sulla fertilità." Sarà necesssario, per i medici, porre
attenzione a questa nuova circostanza.
Daniele
Zamperini
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La prova della causa di lavoro di una
malattia professionale deve essere stabilita con ragionevole
certezza
Cassazione,
sez. Lavoro n. 5352 del 13 aprile 2002 Il Pretore del lavoro di
Trani aveva affermato il diritto di G. B. alla costituzione di rendita per
ipoacusia di origine professionale. L'INAIL proponeva appello,
deducendo che la decisione del primo giudice era stata adottata sulla
scorta delle sole prove testimoniali, senza esperire consulenza tecnica
per l'accertamento delle condizioni di lavoro e di salute
dell'assicurato. Il Tribunale respingeva la richiesta di CTU e, con
sentenza del 7 gennaio 1999, rigettava l'appello, richiamando il verbale
di visita medica collegiale, disposta dall'INAIL, in esito alla quale il
B. era stato riconosciuto affetto da ipoacusia bilaterale nella misura del
16% e ritenendo sufficienti a dimostrare che il lavoro svolto
dall'assicurato era stato la causa unica della riscontrata invalidità le
risultanze della prova testimoniale, avvalorate dal mancato riscontro di
altri fattori causali di carattere extralavorativo, come pure dalla
circostanza che l'INAIL aveva concesso una rendita per ipoacusia ad altro
lavoratore operante nel medesimo settore di attività
dell'appellato. L'INAIL proponeva ricorso in Cassazione censurando la
sentenza impugnata osservando che, in presenza di una ipoacusia, di cui è
nota la genesi multifattoriale, la prova della eziologia professionale
esige una rigorosa verifica del livello della rumorosità e della
esposizione personale e quotidiana del lavoratore, nonché della
sussistenza di un diretto nesso causale tra malattia e condizioni di
lavoro, da accertare con l'ausilio di specifiche conoscenze e risultati
tecnici (fonometrici nel caso di specie), al fine di stabilire che proprio
l'attività svolta e non altri fattori ne hanno determinato la insorgenza e
provocato la evoluzione. La Corte respingeva il ricorso richiamando in
proposito il proprio costante insegnamento, alla stregua del quale, in
ipotesi di malattia professionale non tabellata, la prova della causa di
lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di
ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza
della mera possibilità, questa può essere, tuttavia, ravvisata in presenza
di un rilevante grado di probabilità (cfr. Cass. 3 aprile 1992 n.4104;8
luglio 1994 n.6434; 23 aprile 1997 n.3523). Correttamente si era perciò
comportato il Tribunale nel ritenere provata la origine professionale
della ipoacusia bilaterale dalla quale il B. era stato riconosciuto
affetto in occasione della visita medica collegiale effettuata per
disposizione dell'INAIL. L'appellato aveva infatti dimostrato, attraverso
la prova testimoniale, di aver lavorato per oltre trent'anni e
contemporaneamente a numerosi altri operai (circa 200) nel capannone di
una grande industria metalmeccanica dove si tranciavano metalli per la
produzione di automobili e si usavano compressori per l'alimentazione di
macchine semiautomatiche per la pulizia dei materiali; come l'INAIL avesse
riconosciuto la rendita per ipoacusia al 36% a favore di altro lavoratore
operante nel medesimo ambiente e settore di attività del B.; come non
fossero stati addotti né riscontrati altri fattori, diversi ed
indipendenti dall'attività di lavoro, che potessero costituire causa della
lamentata affezione. L'elevata rumorosità dell'ambiente di lavoro
non richiedeva certo l'esperimento di una consulenza tecnica, essendo
sufficiente a giustificarla il riferimento alla tipologia delle
lavorazioni svolte e alla natura dei macchinari presenti nell'ambiente di
lavoro. Né il mancato accoglimento della richiesta di consulenza
tecnica era censurabile: la norma, infatti, rende obbligatoria la nomina
di un consulente tecnico nei processi relativi a domande di prestazioni
previdenziali o assistenziali, per il caso in cui queste richiedano
accertamenti tecnici. Ma il Tribunale aveva motivatamente e
persuasivamente escluso che tali accertamenti fossero necessari o anche
solo utili nel caso concreto. Per questi motivi il ricorso veniva
respinto e l'INAIL condannata al pagamento delle spese di
giudizio.
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È colpevole di peculato il dipendente
pubblico che fa uso illegittimo del telefono di ufficio
Corte di
Cassazione, sez. IV penale n. 30751 del 13 settembre
2002
I
fatti
C.R., con
più azioni esecutive nel medesimo disegno criminoso, si era appropriato
momentaneamente del telefono attivatogli in ragione del suo ufficio,
effettuando sessantaquattro chiamate per motivi personali dal 31 marzo al
3 giugno 1998. Denunciato per il reato di cui agli artt. 81, co. 2° e
314 co. 2°, veniva assolto dal G.U.P. del Tribunale di Campobasso perché
il fatto non sussiste. Il G.U.P. sottolineava in particolare la
sporadicità e l'importo esiguo delle telefonate. Il Procuratore della
Repubblica proponeva ricorso deducendo che il giudicante aveva
arbitrariamente introdotto una sorta di "soglia di punibilità" che non era
in alcun modo prevista dalla legge, e sottolineando che l'art. 323 bis
c.p., contemplando una specifica circostanza attenuante per i casi di
"particolare tenuità" del reato, confermava come anche queste fossero
meritevoli di sanzioni penali. La Cassazione accoglieva il ricorso
rilevando oltretutto come la condotta del funzionario non fosse
inquadrabile nel cosiddetto "peculato d'uso" di ci al comma 2 del nuovo
art. 314 c.p. (applicabile solo nel caso di uso provvisorio della cosa in
difformità della destinazione datale nell'organizzazione pubblica; Nel
caso in oggetto, si è invece verificata una vera e definitiva
appropriazione degli impulsi elettronici attraverso i quali si trasmette
la voce, atteso che l'art. 624, 2° co., c.p. dispone che "agli effetti
della legge penale, si considera cosa mobile anche l'energia elettrica ed
ogni altra energia che abbia valore economico". "Se, quindi, il
pubblico ufficiale e l'incaricato di pubblico servizio, disponendo, per
ragione dell'ufficio o del servizio, dell'utenza telefonica intestata alla
pubblica amministrazione, la utilizza per effettuare chiamate di interesse
personale, il fatto lesivo si sostanzia non nell'uso dell'apparecchio
telefonico quale oggetto fisico, come ritenuto in sede di merito, bensì
nell'appropriazione, che attraverso tale uso si consegue, delle energie,
entrate a far parte della sfera di disponibilità della pubblica
amministrazione, occorrenti per le conversazioni
telefoniche." L'ipotesi di reato va perciò inquadrata nel peculato
ordinario. Ciò chiarito, la Corte osserva poi come venga concesso
(Decreto del Ministro per la Funzione Pubblica del 31 marzo 1994 (in G.U.
28.06.1994, n. 149) l'uso personale del telefono d'ufficio per "casi
eccezionali" qualora il dipendente sia effettivamente "compulsato da
rilevanti e contingenti esigenze personali". Tale circostanza non appare
però dimostrata, nè il numero delle telefonate (sessantaquattro)
deporrebbe per una loro episodicità né sporadicità. Per questi motivi
la Corte di Cassazione annullava la sentenza di assoluzione e rinviava gli
atti al Tribunale per un nuovo procedimento.
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Il problema (ancora in dibattito) della tassa
sulle targhe
Periodicamente si ripresenta il problema se sia o no ancora in
vigore l'imposta sulla pubblicità applicata alle targhe che medici o altri
operatori sanitari espongono preso la sede della loro
attività. Benchè ci fossero tutte le premesse utili ad una definitiva
conclusione, nel senso di un'abolizione di tale imposta, viene segnalato
da più parti come alcuni Comuni, con una motivazione o un'altra, esigano
ancora il pagamento della tassa. È utile, quindi, presentare una
panoramica generale della normativa riguardante il problema, in modo da
poterne trarre utili indirizzi di comportamento. Occorre intanto operare una
distinzione tra le norme che riguardano il medico convenzionato con il SSN
rispetto a quanto attenga invece al libero-professionista
"puro".
Per il
Medico Convenzionato
La prima
normativa importante è il D.Lgs del 15/11/93 nr. 507. Questo, al capo I
art. 1 esenta dall'imposta: " le insegne, le targhe e simili la cui
esposizione sia obbligatoria per disposizione di legge o di regolamento
sempre che le dimensioni del mezzo usato, qualora non espressamente
stabilite, non superino il mezzo metro quadrato di
superficie". Tale norma riguarda specificatamente il Medico Convenzionato in
quanto è tenuto ad esporre al pubblico, in base alle norme della
Convenzione, un cartello con l'orario dello studio. Lo stesso Decreto, all'art. 17,
lettera 1 precisava ulteriormente che per targhe con superficie non
superiore al mezzo metro quadrato che rechino solo il nominativo del
medico e l'orario, non fosse dovuto nessun tributo. Tale norma veniva poi
ulteriormente precisata dalla Risoluzione 125 del 20/05/97 del Ministero
delle Finanze (http://www.finanze.it ). Da
tutto ciò è derivata, pacificamente, l'esenzione dalla tassa per i medici
che rispettassero questi limiti. Ma per i medici
non-convenzionati, e per quelli che, pur convenzionati, aggiungessero
nella targa ulteriori informazioni che esulassero da quanto concesso, entrava in
vigore un diverso articolo dello stesso decreto Legislativo del 1997, il
quale stabiliva in modo generalizzato che per targhe con superficie
inferiore a 300 cm 2 non è dovuto nessun tributo ( D.Lgs. 507/93, art.
7, comma 2). La
questione poi sembrava definitivamente risolta in seguito alla
pubblicazione delle Legge Finanziaria 2002, in quanto veniva
stabilito testualmente (art. 17, comma 1 bis, Legge 28.12.01, n. 448):
"L'imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività
commerciali e di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la
sede ove si svolge l'attività cui si riferiscono, di superficie
complessiva fino a 5 metri quadrati". Questa dizione sembrava in
effetti sgombrare il terreno da ogni problema interpretativo a proposito
delle tipologie e dei contenuti delle targhe; molti Comuni però hanno
disatteso tale norma, con varie motivazioni. In alcuni casi si è operata
una sottile distinzione tra "targhe" e "insegne", sostenendosi che le
targhe per l'esercizio professionale fossero cosa diversa dalle insegne di
cui parla la legge, e che quindi non rientrassero sotto tale ambito. In
altri casi si è sostenuto che i medici non rientrassero nell'esenzione in
quanto non "produttori di beni o servizi". Tali interpretazioni appaiono
però erronee, sotto diversi aspetti:
I medici
sono "produttori di beni e servizi"?
Esaminando
la posizione dei professionisti medici (esclusa qualche categoria
dipendente) si osserva come, dal punto di vista fiscale, essi vengano
inclusi proprio tra i produttori di beni e servizi, con obbligo di aprire
una partita IVA. L’imposta sul Valore Aggiunto ( IVA) viene disciplinata nel nostro
ordinamento giuridico dal D.P.R. 633/72 che, all’art. 1 la definisce come
un’imposta generale che si applica alle cessioni di beni e alle
prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato durante
l’esercizio di impresa o di arti e professioni. Per la sua applicabilità devono
essere soddisfatti 3 requisiti che sono:
- requisito
soggettivo: le cessioni o le prestazioni devono essere effettuate da
soggetti nell’esercizio dell’attività;
- requisito
oggettivo: le operazioni devono consistere in cessioni di beni o
prestazioni di servizi;
- requisito della
territorialità: le cessioni dei beni o le prestazioni dei servizi devono
essere effettuate all’interno dello Stato Italiano.
(http://www.buildlab.com/particle.php?ar=111).
Il medico
che sia titolare di Partita IVA rientra quindi, per ammissione stessa
dello Stato, nella categoria in discussione. Vogliamo specificare come sia
ininfluente il fatto che, nella pratica, il medico ( pur titolare, come
abbiamo detto, di P.IVA) non includa il pagamento di tale imposta nelle
sue parcelle. Infatti le legge prevede espressamente che alcune tipologie
di prestazioni (tra cui quelle destinate alla tutela della salute) vengano
esonerate dall'imposta, pur rimanendo, in linea di principio, ad essa
soggette. Nel caso di "prestazioni esenti da IVA", l'esenzione opera verso
la prestazione, e non verso il prestatore d'opera. In altre parole si può
affermare, perciò, che il medico rimane soggetto ad IVA benchè le sue
prestazioni siano esentate dal pagamento dell'imposta. Da tutto ciò ne deriva che
l'obiezione in merito, avanzata da alcuni Comuni, non sia valida, e il
medico rientri invece a buon diritto nelle categorie esentate dal
pagamento dell'imposta sulle insegne. Malgrado tutto ciò, la
situazione rimaneva nell'ambito dell'incertezza. Sono state emesse
ulteriori normative in proposito (Legge 24 aprile 2002, n. 75, di
conversione del d. l. 22 febbraio 2002, n. 13). Particolare importanza assume
la Circolare Ministeriale n 3 DPF del 3-5-02, Prot. 14725
/2002/DPF/UFF, (che illustra e chiarisce i termini delle leggi
indicate sopra), inviata ai Comuni, all'ANCI e p.c. all'Agenzia delle
Entrate. Essa
chiarisce definitivamente e inequivocabilmente i termini della questione,
e recita...".è altresì opportuno sottolineare a titolo meramente
esemplificativo che devono essere ricomprese tra le fattispecie che godono
del beneficio in questione ...(omissis)...i mezzi pubblicitari esposti dai
professionisti (medici, avvocati, commercialisti, architetti, ingegneri,
ecc.) che possono rientrare nella definizione di cui al citato art 47 DPR
495 del 1992 in quanto assolvono al compito di individuare la sede ove si
svolge un'attività economica...". Vengono pure specificati, nella
stessa Circolare n. 3, i limiti del potere autonomo del Comune, in quanto
viene precisato che le disposizioni in materia " trovano applicazione
sin dall’anno di imposta 2002, indipendentemente, quindi, dalla
circostanza che i comuni, nell’esercizio della loro potestà regolamentare,
abbiano disciplinato diversamente il canone per l’installazione dei mezzi
pubblicitari, ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n.
446". Inoltre, "...poiché è la legge che definisce le fattispecie da
assoggettare al canone - vale a dire ad una prestazione patrimoniale
imposta - e quindi i soggetti che sono esclusi dal pagamento dello stesso,
dette disposizioni devono intendersi sostitutive di quelle deliberate dal
comune con proprio regolamento entro il termine fissato al 31 marzo
2002". Come
viene poi sottolineato, non esistono veri motivi per cui i Comuni
dovrebbero opporsi alla concessione di tali esenzioni di imposte, in
quanto non ne deriverebbe loro alcun nocumento economico, in quanto la
legge prevede anche che il minore introito da essi percepito venga ad
essere interamente ripianato dallo Stato. Un atteggiamento di diniego da
parte dei Comuni viene ad assumere quindi un aspetto esclusivamente
"punitivo" verso alcune categorie professionali, senza vere motivazioni
pratiche. In
conclusione, quindi, a parte qualche caso particolare in cui possano
rientrare normative differenti (vincoli paesaggistici, ambientali o
simili) la pretesa da parte dei Comuni di continuare a percepire l'imposta
sulle targhe professionali dei medici appare in contrasto con le norme in
vigore, e quindi illegittima e passibile di fondata
opposizione.
Daniele
Zamperini 2003 (pubblicato su www.edott.it)
PRINCIPALI NOVITÀ IN GAZZETTA
UFFICIALE: mese di febbraio 2003 (a cura di Marco
Venuti)
La consultazione dei documenti citati, come pubblicati
in Gazzetta Ufficiale, è fornita da "Medico & Leggi" di Marco
Venuti: essa è libera fino al giorno 22.03.2003. Per consultarli,
cliccare qui
|
DATA GU |
N° |
TIPO DI DOCUMENTO |
TITOLO |
DI CHE TRATTA? |
03.02.03 |
27 |
Ordinanza del Ministero
Salute |
Misure urgenti in materia
di cellule staminali da cordone ombelicale. Proroga dell'ordinanza
11 gennaio 2002 |
........ |
07.02.03 |
31 |
Decreto del Presidente
del Consiglio dei Ministri n. 308 |
Regolamento per la
determinazione del modello e delle modalità di tenuta del registro
dei casi di mesotelioma asbesto correlati ai sensi dell'articolo 36,
comma 3, del decreto legislativo n. 277 del 1991 |
........ |
19.02.03 |
41 |
Ordinanza del Ministero
Salute |
Sospensione sul
territorio nazionale delle sperimentazioni con prodotti per terapia
genica che prevedono l'impiego di vettori retrovirali |
........ |
20.02.03 |
42 |
Decreto Ministero del
Lavoro e delle Politiche Sociali |
Rivalutazione delle
prestazioni economiche erogate dall'INAIL a favore dei medici
colpiti da malattie e da lesioni causate dall'azione dei raggi X e
delle sostanze radioattive, con decorrenza 1° luglio 2002 |
........ |
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