RESPONSABILITA' DISCIPLINARE DEL MEDICO PER PRATICHE NON SPERIMENTALI E PRIVE DI RISCONTRO SCIENTIFICO
( Cassazione - Sezione terza civile - Sent. n. 5885/2000 - Presidente F. Sommella - Relatore A. Segreto )
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
In data 17.10.1995 la Commissione medici chirurgici dell'Ordine di Torino avviava un
procedimento disciplinare nei confronti del medico dr. A.D.R., con l'addebito di aver
fornito la necessaria copertura, affinché G.S.S., eseguisse nei confronti di pazienti
affetti da patologie oncologiche terminali pratiche terapeutiche, o asseritamente
dichiarate tali, non sperimentate e prive di adeguato riscontro scientifico, a scopo di
lucro.
All'esito l'organo di disciplina infliggeva al dr. D.R. la sanzione della radiazione
dall'Albo.
Avverso detta decisione, il dr. D.R. proponeva ricorso alla Commissione Centrale per gli
esercenti professioni sanitarie.
Questa, con decisione depositata l'8.4.1999, rigettava il ricorso.
Riteneva la Commissione che non era contestato in punto di fatto che l'inquisito aveva
svolto congiuntamente ad un soggetto non sanitario un'attività, che per quanto non
terapeutica, come accertato in sede penale, poteva ingenerare nei pazienti il
convincimento di un metodo, se non curativo, sicuramente palliativo del dolore.
Riteneva la Commissione centrale che, a prescindere dalla qualificazione di prestanomismo
data al comportamento del sanitario, il giudice disciplinare aveva inteso sanzionare il
rapporto di collaborazione tra il ricorrente ed un soggetto non medico, tanto più grave
perché, come riconosciuto in sede penale ed invocato dal ricorrente a sua
giustificazione, l'attività posta in essere nei confronti degli ammalati non aveva natura
di atto medico per cui, tenuto conto che lo stesso incolpato ammetteva di non avere
conoscenze tecniche del funzionamento dell'apparecchio, il cui utilizzo era riservato al
G., non si comprendeva per quale motivo il ricorrente partecipava a tale attività.
Secondo la Commissione era riscontrato anche il fine di lucro del D.R., per cui attesa la
gravità della violazione, risultava commisurata ad essa la sanzione della radiazione.
Avverso detta decisione proponeva ricorso per Cassazione il D.R.
Resistevano con controricorsi il Ministero della Sanità e l'Ordine dei medici chirurghi e
degli odontoiatri di Torino. Il ricorrente ha presentato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente vanno esaminati i motivi terzo e quarto del ricorso, attenendo a
questioni pregiudiziali.
Con il terzo motivo del ricorso, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 3, 24,
35, 41 e 97 Cost..
Ritiene il ricorrente che sanzioni gravi, quali la sospensione o la radiazione, non
possono essere affidati ad una giurisdizione domestica (costituente tra l'altro
giurisdizione speciale che a norma dell'art. 102 Cost. e VI disp. transitorie avrebbe
dovuto essere soppressa), senza un successivo integrale riesame nel merito da parte del
giudice ordinario, come è previsto dagli ordinamenti della professione di psicologo, di
dottore agronomo, dottore forestale e dei notai.
A parere del ricorrente ciò già costituisce un contrasto con l'art. 3 Cost..
In ogni caso, secondo il ricorrente, l'autodichia in materia disciplinare, prevista dal
d.p.r. n. 221/1950 confligge con il diritto di agire in giudizio e con il diritto di
difesa (art. 24 Cost.); con il principio secondo il quale la tutela giurisdizionale non
può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate
categorie di atti (art. 113 Cost.); con il principio dell'imparzialità o terzietà del
giudice sancito dall'art. 97 Cost..
Pertanto il ricorrente richiede che le S.U. di questa Corte, previa disapplicazione
dell'art. 68, c. II, d.p.r. n. 221/1950 "pronuncino sulla giurisdizione"
dichiarando che avverso la decisione della Commissione centrale è ammessa l'impugnativa
davanti al tribunale ordinario, ovvero sollevino questione di illegittimità
costituzionale dell'art. 19 d.l.g.s. cps. n. 233/1946, nella parte in cui preclude al
sanitario l'impugnativa della decisione della Commissione centrale al tribunale ordinario.
2.1. Questa Corte, anzitutto, osserva che sulla natura giurisdizionale della Commissione
centrale per gli esercenti le professioni sanitarie non può esservi dubbio, siccome
risultante dalla previsione, nell'art. 19 del d.lg.c.p.s. n. 233/1946, del ricorso alle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ai sensi dell'art. 362 c.p.c., contro le
decisioni di essa; previsione che non poteva essere (e non fu) vanificata dalle
disposizioni di un regolamento, il D.P.R. n. 221 del 1950, specie perché emanato per
l'esecuzione di detta legge (Cass. S.U. 18/04/1988, n. 3032). Anche la successiva
giurisprudenza di questa Corte dà per punto pacifico la qualità di organo
giurisdizionale rivestito dalla commissione centrale (Cass. S.U. 8.1.1993, n. 131;
23.12.1997, n. 13016).
Una volta affermata la natura giurisdizionale delle decisioni di detta commissione, contro
le stesse è ammissibile, a norma dell'art. 111, c. 2°, Cost., il ricorso per cassazione
per violazione di legge.
Sennonché la disposizione di cui all'art. 19 d.lg.c.p.s. 13.9.1946, che prevede il
ricorso alle sezioni unite della cassazione, a norma dell'art. 362 c.p.c., è attributiva
di competenza limitatamente ai ricorsi con i quali si pongono questioni di giurisdizione,
secondo il principio generale di cui all'art. 374 c.p.c., ma non esclude, in difetto di
espressa disposizione derogativa (come ad es. art. 56, c. 3°, r.d.l. 27.11.1933 n. 1578,
in tema di ordinamento della professione di avvocato), la competenza delle sezioni
semplici per i ricorsi che tale questione non pongono (Cass. S.U. ord. 18.6.1998, n. 611).
Con detto riscorso ex art. 111, c. 2°, Cost. si possono denunziare soltanto le
"violazioni di legge", siano esse violazione di legge sostanziale o violazione
di legge processuale.
2.2. Sennonché le questioni attinenti alla giurisdizione che rientrano nella cosiddetta
"competenza" delle S.U., a norma dell'art. 374 c.p.c., sono esclusivamente
quelle di cui all'art. 360 n. 1 e 362 c.p.c..
Escluso che nella fattispecie si verta in ipotesi di "conflitti" di cui all'art.
362, c. 2°, c.p.c., i "motivi attinenti alla giurisdizione", cui si riferiscono
gli artt. 360 n. 1 e 362, 1° c., c.p.c., sono esclusivamente tutti i tipi di vizio della
sentenza derivanti da violazione delle regole sulla giurisdizione e cioè: l'invasione
della sfera di discrezionalità della p.a., l'invasione della sfera giurisdizionale del
giudice ordinario o di un giudice speciale, l'erronea declinatoria della giurisdizione, la
violazione delle norme che regolano la giurisdizione nei confronti dello straniero.
Inoltre la deduzione, come motivo di ricorso per Cassazione, di una questione riguardante
la giurisdizione (come per la competenza) non può farsi se non sotto il profilo della
violazione delle norme che regolano tale presupposto (Cass. S.U. 14.10.1977, n. 4369).
2.3. Nella fattispecie non sussiste alcuno dei presupposti suddetti.
Infatti, manca nella fattispecie un provvedimento declinatorio della giurisdizione ovvero
di invasione della giurisdizione del giudice ordinario o speciale.
In altri termini, per poter sollevare la questione di giurisdizione secondo
l'interpretazione normativa da lui propugnata, avrebbe dovuto il ricorrere impugnare non
davanti a questa Corte ma davanti al tribunale la decisione disciplinare, sollevando le
questioni di costituzionalità dell'art. 19 del d. lgs. c.p.s. n. 233 del 1946, ovvero di
disapplicazione dell'art. 68, c. 2°, d.p.r. n. 221/1950, e, ove il tribunale avesse
declinato la propria giurisdizione, avrebbe potuto proporre regolamento di giurisdizione
(Cass. S.U. 9.11.1992, n. 12077), per vizio attinente alla giurisdizione avverso la detta
sentenza davanti alle S.U. di questa Corte, riproponendo le stesse questioni disattese dal
giudice di merito.
In altri termini il ricorrente nella fattispecie non censura la decisione della
Commissione centrale per vizio di giurisdizione, ma censura il sistema procedimentale
disciplinare e cioè le norme del regolamento d.p.r. n. 221/1950 (chiedendone la
disapplicazione) e l'art. 19 del d. lgs. c.p.s. n. 233 del 1946 (sollevando questione di
legittimità costituzionale), che non permettono l'impugnazione di detta decisione davanti
al tribunale.
Sennonché proprio perché non viene assunta una violazione delle norme sulla
giurisdizione contenuta nella decisione della Commissione centrale, oggetto di questo
giudizio, non sussiste nella fattispecie una questione di cd. "competenza" delle
Sezioni Unite.
2.4. Per i motivi predetti, in relazione alle eccezioni di incostituzionalità, sollevate
dal ricorrente, relativamente all'art. 19 del d. lgs. c.p.s. n. 233 del 1946, deve questa
Corte osservare che le stesse sono prive di rilevanza.
Risulta pertanto superfluo rilevare che questa Corte ha già ritenuto manifestamente
infondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal ricorrente, sia con
riferimento all'art. 102 Cost. e VI disp. trans. Cost. (S.U. 6.11.1998, n. 11213), sia con
riferimento agli artt. 104 e 97 Cost. (S.U. 7.8.1998, n. 7753), sia con riferimento
all'art. 24 Cost., (S.U. 1.3.1988, n. 2153).
3. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 3, 24, c. 2°, e
113 Cost..
Assume il ricorrente che è stato violato il principio del contraddittorio, in quanto non
gli è stata comunicata la data dell'adunanza e non gli è stata data l'opportunità di
presentare le proprie deduzioni davanti alla Commissione centrale. Ritiene il ricorrente
che erroneamente l'art. 62 d.p.r. n. 221 del 1950 riserva alla discrezionalità della
Commissione il concedere l'audizione personale a richiesta del sanitario.
Secondo il ricorrente ciò contrasta con l'art. 3 Cost., tenuto conto che in altri
procedimenti disciplinari (quello relativo agli avvocati) detta comunicazione
dell'adunanza è prevista in ogni caso e contrasta, altresì, con il principio del
contraddittorio di cui al 2° c. dell'art. 113 Cost.. Richiede, pertanto, il ricorrente la
disapplicazione degli artt. 59 e 62 d.p.r. n. 221 del 1950, ovvero qualora si ritenesse di
non poter disapplicare dette norme, solleva questione di legittimità costituzionale
dell'art. 18 d. lgs. cps. n. 233/1946 nella parte in cui non rende obbligatoria la
tempestiva comunicazione al ricorrente della data dell'adunanza e nella parte in cui non
prevede che sia ammesso ad esporre davanti alla commissione le proprie ragioni.
4. Va, anzitutto, rilevata la manifesta infondatezza della sollevata questione di
legittimità costituzionale.
Infatti il predetto d. lgs. c.p.s. n. 233/1946 nulla prevede in merito "ai ricorsi ed
alla procedura davanti alla Commissione centrale", se non che detta materia deve
essere regolamentata con regolamento di esecuzione da parte del governo (art. 28).
Il regolamento di esecuzione fu approvato con d.p.r. 5.4.1950, n. 221.
Ne consegue che eventuali contrasti con le norme costituzionali indicate, in relazione al
procedimento davanti alla Commissione centrale, non possono riguardare il d. lgs. c.p.s.
n. 233/1946, che nulla dice in proposito se non rimettendo tutto al regolamento di
esecuzione successivo.
Ovviamente detto regolamento di esecuzione, emesso dal governo nel 1950, doveva essere
conforme ai principi costituzionali.
Quindi un eventuale contrasto con le norme costituzionali invocate sul punto, non è
ipotizzabile nei confronti dell'atto avente forza di legge costituito del cit. d. lgs.
c.p.s., con la conseguenza che la sollevata eccezione di incostituzionalità di tale atto
è manifestamente infondata.
5.1. Detto contrasto potrebbe, in astratto, sussistere con le norme del regolamento.
Sennonché, poiché detto d.p.r. n. 221/1950 ha natura regolamentare, non è suscettibile
del sindacato di legittimità della Corte Costituzionale, essendo quest'ultimo relativo
solo alle leggi ed agli atti aventi efficacia di legge, e pertanto, si sottopone alla
verifica del giudice ordinario o speciale, anche sotto il profilo della verifica della sua
legittimità costituzionale (Cass. S.U. 23.12.1997, n. 13016).
5.2. Ritiene questa Corte che gli artt. 59 e 62 d.p.r. n. 221/1950, sospettati di
incostituzionalità del ricorrente, non violino gli artt. 3 e 24 Cost..
Infatti l'art. 59 cit. dispone che il sanitario interessato può richiedere alla
Commissione centrale di essere udito personalmente, mentre l'art. 62 dispone che il
segretario dà avviso dell'adunanza della Commissione.
Risulta dal fascicolo trasmesso dalla Commissione Centrale che il D. R., con telegramma
del 17.12.1998, fu avvisato che la Commissione si sarebbe riunita il 18.1.1999 per
esaminare il suo ricorso e che era ammessa la sua partecipazione e l'assistenza legale.
Non risultando che il D. R. avesse richiesto di essere sentito dalla Commissione, questa
non era tenuta a tanto.
5.3. Anzitutto va escluso quanto sostenuto dal ricorrente, secondo cui rientrerebbe nei
poteri discrezionali della Commissione disporre l'audizione del sanitario interessato.
Ciò è vero solo nel caso in cui il sanitario non abbia fatto espressa richiesta di
essere sentito, ma il sentire la parte a chiarimenti costituisca atto di iniziativa della
commissione (art. 62, c. 2°, reg.).
Ove invece il sanitario abbia richiesto di essere sentito, sfugge al potere discrezionale
della commissione udirlo o meno, essendo, la stessa obbligata all'audizione.
5.4. Premesso ciò, va rilevato che tale sistema procedimentale non viola l'art. 24 Cost.,
in quanto anzitutto l'esercizio del diritto di difesa, tutelato dall'art. 24 Cost., non
comporta che esso debba necessariamente essere svolto in forma scritta ed orale,
risultando tutelato detto diritto anche con la sola possibilità della difesa scritta (o
di quella orale).
In ogni caso nel procedimento in questione è attribuita al sanitario la facoltà di
richiedere alla Commissione di essere sentito personalmente, per cui, se egli non intende
esercitale tale facoltà, ciò dipende da una sua scelta di strategia processuale, che
costituisce essa stessa una modalità di difesa.
5.5. Egualmente manifestamente infondata è l'eccezione di incostituzionalità delle norme
in questione per violazione dell'art. 3 Cost., in relazione ad una presunta disparità di
regolamentazione tra questo procedimento e quello in sede disciplinare dinanzi al
Consiglio nazionale forense.
Infatti, fatti salvi i principi costituzionalizzati in tema di procedimenti (art. 24 e
segg. ed art. 111 e segg. Cost., nella specie rispettati, come sopra riferito), non è
detto che tutti i tipi di procedimenti debbano avere le stesse formalità, rientrando nei
poteri discrezionali del legislatore la valutazione in ordine all'opportunità delle
stesse e delle concrete modalità attuative.
5.6. Priva di fondamento è anche l'eccezione di violazione dell'art. 113, c. 2°, Cost.,
perché il predetto regolamento non prevede la possibilità di impugnare davanti ad altro
giudice di merito, la decisione della Commissione centrale, ma solo con il ricorso per
Cassazione.
Ribadita la natura giurisdizionale della decisione della Commissione Centrale, va,
all'uopo, osservato che il principio del doppio grado di merito non trova fondamento
costituzionale, neppure nel procedimento disciplinare, rientrando anch'esso nell'ambito
delle valutazioni discrezionali del legislatore, come già rilevato in altri settori
dell'ordinamento (Cass. 2.6.1992, n. 6678).
6. Passando ad esaminare nel merito il ricorso, va rilevato che con il primo motivo il
ricorrente lamenta la violazione dell'art. 653 c.p.p. e dell'art. 44 d.p.r. 5.4.1950, n.
221, nonché la nullità della decisione per difetto di motivazione su punti decisivi
della controversia.
Ritiene il ricorrente che, secondo le due citate norme, la sentenza penale che l'abbia
prosciolto per insussistenza del fatto o per non averlo commesso ha efficacia preclusiva
dell'azione disciplinare; che nella fattispecie egli era stato assolto dal Pretore di
Torino, con due successive sentenze del 22.1.1988 e del 27.6.1996, dal reato di concorso
in esercizio abusivo della professione sanitaria con il G., sul rilievo che essi non
avevano compiuto alcun atto terapeutico riconducibile all'attività medica in senso
stretto, trattandosi di applicazioni aventi effetti meramente antalgici e che il G. aveva
operato quale tecnico sotto la direzione del dr. D.R., senza abusare del titolo di medico.
A parere del ricorrente, quindi, egli non poteva essere ritenuto responsabile di aver
permesso il compimento di atti terapeutici da parte di un non medico.
Lamenta il ricorrente che la decisione impugnata, capovolgendo l'impostazione della
decisione del consiglio dell'ordine, l'ha ritenuto responsabile per aver compiuto insieme
al G. atti che, proprio perché non terapeutici, denoterebbero un intento sostanzialmente
fraudolento del professionista.
Inoltre secondo il ricorrente sussiste l'erroneità di motivazione, allorché si afferma
ciò, in quanto, come provato dalla perizia penale il trattamento non alimentava
illusioni, ma aveva effetti benefici nel lenire il dolore ed è altrettanto un
travisamento del fatto affermare che egli non aveva conoscenza del funzionamento
dell'apparecchio del G., in quanto insieme a quest'ultimo aveva scritto numerosi saggi su
detto trattamento e aveva comunicato informazioni anche all'ordine provinciale, come
risultava agli atti.
Quanto all'intento di lucro, osserva il ricorrente che solo una piccola parte dei compensi
era da lui percepita.
7.1. Il motivo è infondato e va rigettato.
L'art. 653 c.p.p. statuisce che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione,
pronunciata a seguito di dibattimento, ha efficacia di giudicato nel procedimento
disciplinare quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o che l'imputato non l'ha
commesso.
Principio analogo emerge dall'art. 44 d.p.r. n. 221/1950. Va, anzitutto, rilevato che la
sentenza penale del 22.1.1988 attiene a fatti anteriori al 5.4.1986, e quindi,
temporalmente diversi da quelli oggetto di questo procedimento disciplinare, decorrenti
dal dicembre 1990 (pag. 1 della decisione impugnata).
Quanto alla sentenza del 25.6.1996, l'assoluzione del D.R. era stata pronunziata non a
norma dell'art. 530, c. 1, c.p.p., ma a norma del comma secondo di detto articolo
("Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o
è contraddittoria la prova che il fatto sussiste...").
Ne consegue che detta sentenza penale non può avere l'efficacia di giudicato, assunta dal
ricorrente, nel procedimento disciplinare, a norma dell'art. 653 c.p.p., poiché detta
efficacia attiene solo all'accertamento positivo dell'insussistenza del fatto (o che
l'imputato non l'ha commesso) e non alla diversa ipotesi assolutoria, che manchi la prova
o la stessa sia insufficiente o contraddittoria.
7.2. In ogni caso, nella fattispecie la decisione impugnata, dopo aver dato atto che
l'addebito originario era costituito dall'aver fornito l'originaria copertura, affinché
il G. eseguisse nei confronti dei pazienti affetti da patologie oncologiche terminali
pratiche terapeutiche, o asseritamente dichiarate tali, non sperimentate e prive di
riscontro scientifico, a fine di lucro, ha osservato che il fatto che dette pratiche non
avessero carattere terapeutico e che quindi non costituissero esercizio abusivo
dell'attività medica da parte del G., come accertato dal Pretore, non escludeva il
carattere della violazione disciplinare a carico del D.R., per la collaborazione prestata
con il G., proprio perché l'attività posta in essere da detto medico nei confronti dei
malati terminali non aveva alcuna natura di atto medico.
Stante detta impostazione, non sussiste alcuna violazione delle norme lamentate. Infatti
la Commissione non ha ritenuto sussistente il fatto di concorso in esercizio abusivo della
professione di medico, escluso dal pretore, poiché l'attività posta in essere dal G. non
era terapeutica, ma ha solo sanzionato il rapporto di collaborazione tra il ricorrente ed
il soggetto estraneo alla professione medica, nei confronti di malati terminali, ritenendo
che, proprio perché attività non terapeutica, ma determinata da fini di lucro,
costituiva atteggiamento improntato alla massima leggerezza e superficialità in campo
oncologico, che invece, richiede particolare attenzione e sensibilità per evitare
aspettative non giustificate.
8.1. Quanto alla doglianza che la Commissione centrale abbia completamente ribaltato
l'impostazione seguita dall'Ordine provinciale, va a tal fine osservato che certamente
anche in materia disciplinare (Cass. 18.5.1994, n. 4866, in tema di procedimento
disciplinare a carico dei notai) vige il "principio della correlazione tra accusa e
sentenza", che, per quanto fissato in questi termini in materia penale dall'art. 521
c.p.p., non è altro che la corrispondenza tra il chiesto (in sede disciplinare: la
pretesa punitiva per un determinato fatto) ed il pronunziato, previsto dal codice di rito
civile (art. 112 c.p.c.), le cui norme presiedono al procedimento disciplinare, in quanto
compatibili ed in quanto non diversamente disposto.
8.2. Sennonché, a parte il problema che detta mancata corrispondenza in sede penale dà
luogo a nullità rilevabile d'ufficio (art. 522 c.p.c.), mentre in sede disciplinare,
detta nullità si converte in motivo di impugnazione, per cui se non espressamente
proposto, non è rilevabile d'ufficio, in ogni caso l'interpretazione di quale fosse la
pretesa punitiva, e quindi il fatto addebitato (come l'interpretazione di ogni domanda nel
procedimento civile) compete al giudice di merito e non è censurabile in sede di
legittimità, se adeguatamente motivata.
Nella fattispecie la commissione centrale ha ritenuto che era stato addebitato al
ricorrente in sede di incolpazione non il prestanomismo in sede di esercizio abusivo di
professione, ma il rapporto di collaborazione con il G. nei confronti dei malati terminali
nei termini sopraddetti.
9. Inammissibile è la censura con cui il ricorrente lamenta il vizio motivazionale in
relazione al punto che il trattamento in questione alimentasse solo illusorie speranze
degli ammalati e che egli avesse agito per fine di lucro, ovvero che egli non conoscesse
il funzionamento dell'apparecchiatura del G..
Infatti, come sopra detto, la ricorribilità per Cassazione del provvedimento in questione
trova il proprio fondamento nell'art. 111, 2° c., Cost., per cui le relative censure
devono rispettare ben precisi limiti.
L'inosservanza dell'obbligo della motivazione su questioni di fatto integra violazione di
legge, e come tale è denunciabile con ricorso per cassazione a norma dell'art. 111, c.
2°, Cost., quando si traduca in una mancanza di motivazione stessa (con conseguente
nullità della pronunzia per difetto di un requisito di forma indispensabile), la quale si
verifica nei casi di radicale carenza di essa, ovvero del suo estrinsecarsi in
argomentazioni non idonee a rivelare la "ratio decidendi" (cosiddetta
motivazione apparente), o fra loro logicamente incompatibili o obiettivamente
incomprensibili, e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in se, restando
esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e
razionalità della motivazione medesima in raffronto con le risultanze probatorie (Cass.
S.U. 16.5.1992, n. 5888; Cass. S.U. 8.3.1993, n. 2754; Cass. 30.10.1996, n. 8064).
Nella fattispecie la sentenza impugnata motiva dette sue affermazioni, con riferimento sia
agli accertamenti penali che alle stesse affermazioni a discolpa del ricorrente, per cui
non sussiste ne mancanza ne apparenza di motivazione.
10. Quanto alla censura del travisamento del fatto, essa è egualmente inammissibile.
Infatti il travisamento del fatto non può costituire motivo di ricorso per cassazione,
poiché, risolvendosi in un'inesatta percezione da parte del giudice di circostanze
presupposte come sicura base del suo ragionamento, in contrasto con quanto risulta dagli
atti del processo, costituisce un errore denunciabile con il mezzo della revocazione ex
art. 395, n. 4, c.p.c.. (Cass 15.5.1997, n. 4310; Cass. 2.5.1996, n. 4018), davanti alla
stessa Commissione centrale nel procedimento penale in questione.
11. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 40
d.p.r. n. 221/1950 nonché la nullità della sentenza per difetto di motivazione in merito
alla sanzione irrogata della radiazione.
Osserva il ricorrente che gli è stata irrogata la più grave delle sanzioni senza una
motivazione adeguata e, segnatamente, senza che siano state considerate la personalità
dell'incolpato e le concrete modalità del fatto.
12.1. Il motivo è infondato e va rigettato.
Infatti nel procedimento disciplinare a carico dell'esercente la professione sanitaria,
l'individuazione della sanzione da irrogare è rimessa alla discrezionale valutazione del
giudice disciplinare, purché dia conto della sua scelta con adeguata motivazione. La
mancata tipizzazione degli illeciti (art. 38 d.p.r. n. 221/1950) comporta che le sanzioni,
tipicamente previste (art. 40 d.p.r. n. 221/1950), non siano correlate a specifiche figure
di illeciti commessi, per cui ad una medesima mancanza può corrispondere anche
l'applicazione alternativa di sanzioni di diversa gravità, purché risulti un
apprezzamento equo e prudente del giudice disciplinare, sugli elementi soggettivi ed
oggettivi del caso concreto. Nella scelta della sanzione da applicare, il giudice non è
tenuto a seguire l'ordine previsto dall'art. 40 del regolamento, ma deve soltanto
commisurare l'entità effettiva della sanzione alla gravità della mancanza accertata.
12.2. Ai fini dell'assolvimento dell'obbligo della motivazione relativamente alla
sanzione, il giudicante non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi
prospettati dall'incolpato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l'uso del
potere discrezionale conferitogli dalla legge con l'indicazione delle ragioni ritenute di
preponderante rilievo (egualmente è stato statuito in sede penale: Cass. pen. 31.3.1994,
Spallina).
Pertanto adempie all'obbligo della motivazione la decisione che si richiami, come nella
fattispecie, alla particolare gravità del fatto (nella cui precedente ricostruzione aveva
anche individuato l'intento di lucro), svalutando implicitamente il significato
dell'incensuratezza dell'incolpato o altri elementi relativi alla sua personalità.
-13. Il ricorso va, pertanto, rigettato ed il ricorrente va condannato al pagamento delle
spese processuali sostenute dai resistenti e liquidate come in dispositivo.
PER QUESTI MOTIVI
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese sostenute dall'Ordine
provinciale dei medici di Torino, liquidate in L. 393.000 (trecentonovantatremila) oltre
L. tremilionicinquecentomila per onorario di avvocato, e dal Ministero della Sanità,
liquidate in L. 20.500 (ventimilacinquecento) oltre L. tremilioni, per onorario di
avvocato.