Responsabilita’ del ginecologo per mancata diagnosi di malformazione del nascituro (Cassazione Sez. III Civile, n. 6735, del 10 Maggio 2002)

I FATTI: M.G.M. e F.M. convenivano in giudizio il ginecologo prof. C.G. chiedendo il risarcimento dei danni in seguito alle malformazioni di cui era affetto il loro figlio M.

Questi era nato affetto da sindrome di Apert, caratterizzata da alterazioni del cranio e da sindattilia a mani e piedi. Tale malformazione, a detta dei genitori, avrebbe potuto essere rilevata dal ginecologo in corso di esami ecografici ma non lo era stato, e questo aveva impedito alla donna di interrompere la gravidanza in corso.

La Corte esprimeva una serie di considerazioni:

Il Tribunale di I Grado e la Corte d’Appello di Perugia avevano accertato, in seguito a Consulenza Tecnica d’Ufficio, che la sindrome di Apert non possa essere diagnosticata nel corso delle prime dodici settimane di gestazione; anche nel successivo corso della gravidanza, mediante esami ecografici piu’ ravvicinati di quelli fatti (ed esplicitamente mirati alla ricerca di eventuali malformazioni fetali) sarebbe stata possibile solo pervenire a una generica diagnosi di alterazioni craniche e degli arti, ma non ad un riconoscimento preciso di Sindrome di Apert.

In conclusione, quindi, la Corte aveva ritenuto che il professionista sarebbe stato in grado, con gli strumenti a sua disposizione all’epoca dei fatti, di rilevare la presenza di malformazioni del feto e non lo aveva invece fatto.

In particolare viene sottolineato come la diagnosi non avrebbe potuto essere formulata al momento della prima indagine ecografia fatta dal ginecologo alla undicesima settimana di gestazione ma avrebbe potuto essere ipotizzata una generica presenza di malformazioni da indagine eseguita quattro mesi dopo, potendosi quindi arrivare a una generica diagnosi di alterazioni craniche e degli arti anche se non a una diagnosi precisa di sindrome Apert.

Il fatto pero’ che si potesse o no formulare con sicurezza una diagnosi precisa di sindrome di Apert non acquista rilevanza ai fini dell’accertamento di responsabilita’ del professionista: importa, secondo la Corte, che egli non abbia rilevato malformazioni che esistevano e cosi’ si sia messo nelle condizioni di non poter delineare alla sua cliente l' ipotesi che a tali malformazioni corrispondesse un quadro patologico come eventualmente quello appunto in oggetto.

La sussistenza di tali anomalie avrebbe potuto infatti consentire alla donna l’interruzione della gravidanza anche oltre il limite dei 90 giorni in quanto e' espressamente previsto dalla legge, che le "rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro" possano gravemente influire sulla salute psichica della donna la quale sarebbe stata quindi legittimata a chiedere (ed a ottenere) il consenso medico all’interruzione di gravidanza, qualora adeguatamente informata.

Quindi la questione si accentrava sul fatto che la donna, se convenientemente informata, avrebbe potuto chiedere l' IVG.

La difesa opponeva, tra le altre cose, che non era dimostrato che la donna, anche se informata, avrebbe effettivamente richiesto tale IVG, potendosi ipotizzare che avrebbe potuto prendere una decisione diversa.

La Corte ha affermato sull' argomento un principio importante: la circostanza che la Legge consenta alla donna di interrompere la gravidanza in caso di anomalie e malformazioni del nascituro, rende legittimo per il Giudice assumere come normale e quindi corrispondente a regolarita’ causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata della malformazioni del feto.

In altri termini, poiche’ la Legge consente alla donna di abortire qualora sia informata di eventuali malformazioni fetali, cio’ fa si’ che il Giudice debba presumere che la donna, qualora informata, avrebbe scelto tale linea di condotta.

La difesa eccepiva anche il fatto che, allorche' la malformazione fosse stata individuata, l' IVG non sarebbe stata possibile in quanto cio' sarebbe accaduto in epoca di gravidanza avanzata, allorche' il feto sarebbe stato capace di vita autonoma. Su questo punto la Corte sottolineava che, in tema di responsabilita' contrattuale, tra la donna che chiede il risarcimento dei danni derivatile dal non aver potuto esercitare il suo diritto ed il medico che sostiene che il danno non sia derivato da suo inadempimento perché la donna non avrebbe comunque potuto interrompere la gravidanza, alla donna spettava provare i fatti costitutivi del diritto, al medico i fatti idonei ad escluderlo: ma l' affermazione presentata alla Corte, che il feto sarebbe stato capace di vita autonome, era invece stata provata, in sede di giudizio, dal convenuto.

In conclusione la Corte ha ritenuto che il ginecologo fosse stato inadempiente dal punto di vista della corretta informazione in quanto rimaneva presumibile che la donna, qualora informata, avrebbe potuto chiedere l’interruzione di gravidanza; che la mancanza di tale informazione aveva invece consentito la nascita di un bambino affetto da malformazioni che l’avrebbero obbligato all’assistenza continua per tutta la vita; che tale situazione si ripercuoteva negativamente su entrambi i genitori sia dal punto di vista dello stress psichico che degli adempimenti economici correlati; che tale danno ingiusto era stato giustamente liquidato dalla Corte d’Appello nella somma, valutata in via equitativa, di circa 700 milioni.

La Corte quindi confermava la condanna del ginecologo e l’obbligo di risarcimento dei danni.

Daniele Zamperini