Marzo
2001

"PILLOLE"
DI MEDICINA TELEMATICA

Patrocinate
da
- SIMG-Roma
 
-A.S.M.L.U.C.
-edott.it  

  Periodico di aggiornamento e varie attualita' a cura di: 
Daniele Zamperini dzamperini@bigfoot.com, Amedeo Schipani mc4730@mclink.it,
Bollettino inviato gratuitamente su richiesta. L' archivio dei numeri precedenti e' consultabile su: http://utenti.tripod.it/zamperini/pillole.htm Il nostro materiale e' liberamente utilizzabile per uso privato. Riproduzione riservata.


 

INDICE GENERALE

 

  PILLOLE

 

  NEWS  

APPROFONDIMENTI

MEDICINA LEGALE E NORMATIVA SANITARIA  
Rubrica gestita dall' ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale Universita' Cattolica


Pillole di buonumore (oggi Pillole da: " Siamo tutti umoristi", a cura di U.Domina, ediz. MP)

"Tassabili anche le cinture di castita': il fisco non le ha riconosciute come "congegni di sicurezza" definendole invece "capi di abbigliamento".

"Ex carabiniere, pensionato, ammobiliato, senza figli, cerca...."

"Acquisto occasione tomba famiglia, anche in parte occupata..."


 

PILLOLE

 

Tabella sugli effetti degli antiipertensivi sul metabolismo glicidico e lipidico

Farmaci ipotensivi

Sensibilita’ all’ insulina Tolleranza al glucosio Colesterolemia totale Colesterolo LDL Colesterolo HDL Trigliceridi

Diuretici Tiazidici

- (?)

-

+

+

=

+

Diuretici dell’ ansa

=

-

+

+

=

+

Diuretici risparmiatori K

- (?)

=

=

=

=

=

Beta bloccanti selettivi e non

-

-

=

=

-

+

B-bloccanti con ISA

- o =

=

=

=

=

=

Ca-antagonisti diidropiridinici

+ o – o =

=

=

=

=

=

Diltiazem

=

=

=

=

=

=

Verapamil

=

=

=

=

=

=

Ace-inibitori

= 0 +

= o +

=

=

=

=

Alfa1-bloccanti

+

= o +

-

-

+

-

(Fonte: M.M. Zanone, P.C.Perin -Metabolismo oggi, vol. 17, n.3, 2000)

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Diverse strategie di screening del cancro prostatico basate sul PSA
Non e’ stata ancora pienamente valutata l’efficacia delle strategie di diagnosi precoce del cancro prostatico basata sul dosaggio del PSA pur essendo questo ampiamente diffuso. Gli autori hanno tentato percio’ di valutare, in modo comparativo, la mortalita’ da cancro prostatico, l’esecuzione del test PSA con modalita’ differenti e i tassi di positivita’ bioptica di cancro prostatico basandosi su diverse strategie di screening. La strategia standard prevede l’esecuzione del test una volta all’anno nei maschi di eta’ compresa dai i 50-75 anni; questa strategia di base e’ stata messa in pratica variando gli intervalli di tempo dell’esecuzione della determinazione del PSA, l’eta’ di inizio della misurazione stessa e variando la soglia dei livelli di PSA per la biopsia prostatica. Sono stati calcolati il numero dei decessi da cancro prostatico prevenuti, il numero di test del PSA e il numero di biopsie prostatiche per ogni mille soggetti di sesso maschile di eta’ compresa tra i 40-80 anni. E’ stato verificato che, rispetto alla strategia standard, la variazione strategica consistente nell’eseguire il test del PSA a 40, a 45, e poi a cadenza biennali a partire dal compimento del cinquantesimo anno di eta’, e’ in grado di ridurre la mortalita’ derivante da cancro prostatico stesso ed anche il numero complessivo di test di PSA e di biopsie prostatiche rapportate ai mille soggetti. In particolare, rispetto a l’ipotesi di una mancata esecuzione allo screening, la strategia standard e’ in grado di prevenire 3,2 decessi, con esecuzione di 600 biopsie prostatiche e oltre 10.000 test di PSA; la strategia alternativa risultata migliore, con inizio piu’ precoce ma con cadenze piu’ rarefatte, previene 3,3 decessi con 450 biopsie prostatiche e 7500 dosaggi del PSA. Altre strategie che utilizzano diversi livelli di PSA o diversi livelli-soglia non sono risultate piu’ efficienti di quelle che utilizzano un livello-soglia di 4 ng/ml. Questi dati hanno confermato la loro validita’ nel corso di tutte le analisi statistiche di sensibilita’. In conclusione, pur ammettendo che l’efficacia dello screening basato sul dosaggio del PSA non e’ ancora dimostrato, e’ emerso che la strategia standard, che prevede il dosaggio annuale a partire dall’eta’ di 50 anni, sembra essere meno efficace e piu’ dispendiosa di quella che prevede un inizio piu’ precoce ma una cadenza biennale delle misurazioni.
Jama 2000;284:1399-1405 riportato su Jama edizione italiana Novembre 2000 vol. 12 n.8 pag. 365)

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Correlazioni tra aspetti caratteriali e insorgenza di disfunzione erettile
Un recente studio ha evidenziato come la personalita’ di un uomo, il suo umore e il modo in cui egli esprime la sua aggressivita’, possono influire sull’ insorgenza di problemi erettivi. In particolare lo studio (Massachusettes Male Ageing Study), effettuato su 776 soggetti, ha indicato che nuovi casi di disfunzione erettile avvengono molto piu’ facilmente in uomini con personalita’ sottomessa.
Si e’ cercato, in un primo momento, di stabilire se una sintomatologia depressiva di base, tendenze aggressive o di predominio, aumentassero, indipendentemente da altri fattori di rischio come il fumo e il diabete, il rischio di una nuova disfunzione erettile.
Venivano quindi dapprima esclusi questi concomitanti gia’ noti fattori di rischio; a tutti i partecipanti fu poi somministrato un questionario auto-gestito sull’attivita’ sessuale e una serie di tests sulla personalita’ per misurare il loro grado di depressione, di aggressivita’ o di predominio.
Oltre il 21% di questi uomini furono classificati come aventi una moderata o completa disfunzione erettile. L’ analisi dei risultati hanno indicato un’associazione tra l’ atteggiamento di predominio e il rischio di sviluppo della disfunzione erettile; non fu trovata invece nessuna associazione con la la depressione e l’aggressivita’.
E’ stato osservato pero’ che esisteva maggiore probabilita’ che si verificasse l’ insorgenza di nuovi casi di disfunzione erettile in uomini che mostravano una personalita’ sottomessa.
Una riduzione doppia di rischio di disfunzione erettile e’ stata osservata nei soggetti con moderati o alti livelli di predominio rispetto a quelli con bassi livelli di predominio.
Gli autori degli studi, Andre Araujo e al., raccomandano cautela nelle possibili interpretazioni in quanto dovrebbero essere tenute in considerazione alcune limitazioni di questi studi: e’ possibile che gli uomini predominanti rispondano in maniera diversa alle domande sulla funzione sessuale, per cui i risultati dei test possono essere in parte falsati da pregiudizi. Ciononostante questi studi possono essere importanti per il fatto che per la prima volta e’ stata esaminata la eventuale relazione tra fattori di rischio psicosociali e la disfunzione erettile.
A.J. of Epidemiology, Vol 152, Issue 6 533-541

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Educazione sanitaria e uso del preservativo negli ambienti a rischio
La comparsa dell’HIV e la nuova diffusione delle malattie sessualmente trasmesse, hanno indotto ad adottare una serie di strategie preventive sull’argomento. Sono state impostate in diversi paesi campagne di informazione ed educazione e diverse associazioni hanno caldeggiato l’uso del profilattico come mezzo di prevenzione migliore. Sono stati percio’ studiati gli effetti di diverse tecniche di preventive applicate in ambienti ad alto rischio. In un gruppo di Motel del Nicaragua, (ambiente ad altissimo rischio e diffusione di malattie sessualmente trasmesse) sono stati diffusi e lasciati in loco opuscoli e altri materiali illustrativi ed educativi sulla prevenzione delle malattie a trasmissione sessuale. Sono poi stati distribuiti agli utenti dei profilattici ad uso gratuito. Il materiale illustrativi ed educativo ha dimostrato una efficacia assai modesta mentre al contrario la distribuzione diretta dei preservativi ne ha particolarmente incoraggiato l’uso, specie nel caso di rapporti occasionali o con prostitute. L’autore ribadisce percio’ che rendere disponibili i preservativi in ambienti a rischio elevato ne facilita l’uso e puo’ contribuire alla limitazione del rischio di contagio della malattie a trasmissione sessuale.
Lancet 2000; 355:2101-5

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Origine etnica e fattori di rischio vardiovascolare
Sono gia’ stati effettuati diversi studi circa l’influenza delle origine etniche di un individuo sui fattori di rischio cardiovascolari. Tuttavia non e’ ancora chiaro se e quanto questa incidenza possa essere modificata da fattori ambientali. In Canada si e’ cercato di valutare quale fosse il ruolo dei diversi fattori di rischio per cui venivano sottoposti a una indagine quasi mille pazienti provenienti da tre diverse citta’. Veniva effettuata un’accurata anamnesi e una serie di indagini strumentali quali ecocardiografia cardiaca e vascolare. Si riscontrava come all’interno di ciascun gruppo il grado di aterosclerosi carotidea era associata a una incidenza piu’ elevata di malattia cardiovascolare. I risultati dello studio evidenziavano che i pazienti di origine del Sud-Est Asiatico presentavano una maggior incidenza di malattie cardiovascolari, seguiti da quelli di origine europea e quelli cinesi. La frequenza delle lesioni ateromasiche era invece maggiore nel gruppo europeo e cinese rispetto a quello asiatico. La diversa distribuzione epidemiologica delle malattie cardiovascolari puo’ essere spiegata solo parzialmente da fattori etnici o razziali, con il probabile influsso di fattori ambientali.
Lancet 200;356:279-84

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Inquinamento atmosferico in Europa e mortalità
E’ stato effettuato uno studio multicentrico in diverse nazioni europee (Austria, Svizzera, Francia) in cui si’ e’ tentato di stabilire quale sia l’effettiva influenza dei fattori ambientali, e particolarmente dell’inquinamento atmosferico, nell’incidenza delle malattie respiratorie e di morte. In effetti e’ noto come l’inquinamento atmosferico sia fortemente sospettato di contribuire ad aumentare mortalita’ e morbilita’ nella popolazione generale. Lo studio ha dimostrato un aumento del 6% della mortalita’ globale in conseguenza di fattori da inquinamento. Gli autori hanno calcolato, per territorio di Austria, Svizzera e Francia un aumento di 40mila casi l’anno con insorgenza di 25mila nuovi casi di bronchite cronica nell’adulto, di quasi 300mila casi di bronchite acuta tra i bambini, di oltre 500mila attacchi di male asmatico. E’ stato anche valutato che la presenza di inquinanti atmosferici comporti limitazioni fisiche per oltre 16milioni di persone. Gli autori propongono che i risultati del loro lavoro possono essere utilizzati per stabilire nuove strategie e valutare le politiche ambientali.
Lancet 2000; 356:795-801

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Le infezioni infantili proteggono dall'asma
E’ stato affermato che i bambini che frequentano un nido di infanzia o una scuola materna, oppure che convivano con fratelli e sorelle di eta’ maggiore, sono maggiormente soggetti a infezioni respiratorie e a contagi ambientali. Tali infezioni svilupperebbero pero’ un effetto protettivo nei confronti del rischio di sviluppare una malattia asmatica su base allergica. Per verificare queste affermazioni sono stati studiati oltre mille bambini, seguiti fin dalla nascita, cercando di verificare le eventuali correlazioni tra la composizione del nucleo famigliare, la frequenza negli istituti scolastici o negli asili nido e la insorgenza di malattie allergiche. I risultati di indagine hanno dimostrato che, sia la frequenza di asili nido durante i primi sei mesi di vita, che la presenza di uno o piu’ fratelli maggiori in famiglia hanno un effetto protettivo verso l’insorgenza di fenomeni asmatici nell’eta’ tardo-infantile (6-13 anni). Verrebbe percio’ confermata l’ipotesi che le infezioni delle vie respiratorie in eta’ molto giovane contribuiscano a una desensibilizzazione del sistema immunitario in eta’ scolare.
N. E. J. M. 2000; 343: 538-43

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Mortalità per asma e cortisone
La terapia inalatoria con cortisonici e’ ormai uno dei capi saldi delle terapie per l’asma in quanto ne arreca un documentato effetto benefico. Non e’ stato chiarito pero’ se questo trattamento sia altrettanto efficace nel ridurre la mortalita’ indotta da questa malattia. E’ stata effettuata percio’ una indagine retrospettiva sui registri di un archivio regionale sanitario canadese per individuare tutti i soggetti di eta’ compresa tra i 5 e i 44 anni che assumevano farmaci antiasmatici nel periodo compreso tra il 1965 e il 1997. Ne e’ derivato un gruppo di oltre 30.000 soggetti, 562 dei quali erano deceduti nel periodo osservato. In 77 di questi soggetti (circa il 15%), l’asma era stata riconosciuta come causa principale del decesso. Il 53% assumeva steroidi per via inalatoria contro il 46% dei soggetti sopravvissuti. L’analisi statistica dei dati confermava che il cortisone per aerosol era associato a una riduzione del rischio di morte che arrivava al 21%. Tale effetto protettivo scompariva in corrispondenza della sospensione della terapia.
Gli autori concludono percio’ che i cortisonici per via inalatoria, oltre all’effetto benefico sintomatologico, sono anche capaci di ridurre la mortalita’ nei pazienti affetti da asma. N.E.J.M. 2000; 343:332-6

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Neoplasie dopo tromboflebiti e terapia anticoagulante
E’ documentato un aumento di neoplasie successive ad episodi di tromboembolismo venoso. Non e’ tuttavia noto la durata dell’aumento di questa incidenza ne se una terapia anticoagulante possa prevenirne l’insorgenza con un effetto anti-neoplastico. E’ stato effettuato uno studio prospettico randomizzato su pazienti trattati con anticoagulanti orali dopo un primo episodio di tromboembolia venosa per un periodo variabile da sei settimane o sei mesi. Sottoposti a un follow-up di due anni sono state diagnisticate 111 neoplasie di cui il 15% nei soggetti con profilassi breve e 10% nei soggetti con profilassi lunga. La differenza tra i due gruppi e’ data soprattutto dall’insorgenza di nuovi casi di cancro alle vie urogenitali. E’ stato rilevato come la tromboembolia di tipo idiopatico e la presenza di eta’ avanzata alla diagnosi costituivano fattori di rischio aggiuntivi per l’insorgenza di una nuova neoplasia. Gli autori concludono percio’ che nei due anni successivi a una tromboembolia venosa c’e’ una elevata probabilita’ di diagnosticare un cancro.
N.E. J. M. 2000; 342: 1953-8

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Quanti infermieri per gli ospedali?
Raramente e’ stata studiata l’incidenza del sovraccarico di lavoro del personale sanitario sulla mortalita’ intraospedaliera. Nel Regno Unito e’ stata effettuata una ricerca di questo genere nell’ambito di una terapia intensiva. E’ stato esaminato il periodo del 1992-1995; gli autori hanno stimato il carico di lavoro per paziente da parte del personale sanitario valutando la durata della degenza, il numero medio di infermieri per paziente e il carico di lavoro globale misurato gli standard stabiliti dalla U.K. Intensive Care Society. Sono stati riscontrati, durante il periodo in esame, 337 decessi, 49 in piu’ rispetto a quelli previsti statisticamente da un modello appositamente applicato (Apache II). E’ stata quindi calcolata una necessita’ assistenziale pari a 1,6 infermieri a paziente, mentre quelli definiti come rapporto ottimale erano 1,3. E’ stato percio’ dimostrato che una terapia intensiva con elevati carichi di lavoro comporta una mortalita’ molto piu’ elevata, quasi doppia, rispetto ad una equivalente terapia intensiva con un carico di lavoro inferiore. Questi dati possono spiegare in parte le variazioni di mortalita’ tra diverse unita’ di terapia intensiva e in diversi periodi, spiegandosi con un impegno eccessivo da parte del personale. 
Lancet 2000;356:185-9

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Una cura per il raffreddore?
Da qualche tempo si e’ diffusa l’abitudine di trattare il raffreddore comune e in generale le malattie da raffreddamento con somministrazione orale di zinco acetato. Non sono stati pero’ effettuati finora studi randomizzati che dimostrino l’efficacia di questo trattamento. E’ stato percio’ effettuato uno studio randomizzato in doppio ceco su 50 pazienti ambulatoriali che riportavano, da meno di 24 ore insorgenza di sintomi di raffreddore comune. Al gruppo in terapia e’ stato somministrato zinco acetato al dosaggio di 12,8 mg. al giorno; al gruppo di controllo e’ stato somministrato invece del placebo. I pazienti trattati con zinco acetato hanno dimostrato una netta riduzione della durata della malattia (4,5 giorni) rispetto ai pazienti del gruppo di controllo (8,1 giorni). Gli esami ematologici hanno evidenziato una lieve diminuzione dei livelli plasmatici delle citochine pro-infiammatorie (interleuchina 1). Tale diminuzione non raggiungeva pero’ livelli di segnificativita’ statistica.
Gli autori interpretano l’effetto terapeutico rilevato con una riduzione dell’attivita’ flogistica. Tuttavia questa interpretazione appare in contrasto con i livelli delle citochine pro-infiammatorie rilevate.
Ann Intern Med 2000; 133:245-52

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E' utile la chirurgia nell'enfisema polmonare?
Da alcuni anni e’ stata introdotta la terapia chirurgica di resezione polmonare per enfisema grave. Malgrado tale intervento sia ormai affermato, non e’ stato ancora chiarito se questa metodica sia in grado di offrire un reale beneficio. Sono stati percio’ esaminati 44 pazienti randomizzati per continuazione del trattamento medico o per intervento chirurgico di riduzione del volume polmonare. Venivano verificati a sei mesi di distanza i parametri funzionali e respiratori: il gruppo in terapia medica dimostrava un costante scadimento della funzione ventilatoria mentre, il gruppo trattato con tecniche chirurgiche, mostrava un significativo miglioramento. Anche la qualita’ della vita e l’autonomia funzionale risultavano migliori nei casi sottoposti ad intervento. In alcuni casi (5 su 19) dei soggetti sottoposti a trattamento chirurgico, non venivano registrati tuttavia miglioramenti sensibili dei parametri considerati.
Gli autori concludono percio’ che, in pazienti selezionati e affetti da grave enfisema polmonare, la riduzione chirurgica puo’ migliorare la funzione ventilatoria e la qualita’ della vita ma, non e’ chiaro se la metodica comporti anche una riduzione della mortalita’. 
N.E.J.M. 2000;343:239-45

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Fumo e pressione arteriosa
Due articoli pubblicati su Hypertension di febbraio si occupano del rapporto tra fumo, cessazione del fumo e pressione arteriosa.
1. Nel primo articolo (Association between smoking and blood pressure), partendo dal dato di fatto che il fumo di sigaretta provoca un aumento acuto della pressione arteriosa, vengono analizzati i dati di tre anni dell’annuale Health Survey for England (1994, 1995 e 1996) per valutare le differenze nella pressione arteriosa di soggetti adulti fumatori e non fumatori. Sono stati selezionati in modo casuale 33.860 soggetti (di cui il 47% uomini) con valori di BMI (Body Mass Index = indice di massa corporea) e pressione arteriosa validi, che sono poi stati stratificati in rapporto all’età (giovani = età dai 16 ai 44 anni; anziani = età dai 45 anni in su), al sesso (uomini e donne) e al fumo (fumatori e non fumatori). Dopo aggiustamento per età, BMI, classe sociale e consumo di alcool, è risultato che i fumatori del gruppo anziani maschi avevano una pressione arteriosa sistolica superiore ai corrispondenti uomini non fumatori. Tale differenza non è stata rilevata nel gruppo di uomini giovani, né in entrambi i gruppi per quanto riguarda la pressione diastolica. Tra le donne, le fumatrici moderate (da 1 a 9 sigarette/die) avevano valori pressioni più bassi rispetto sia alle forti fumatrici che alle non fumatrici. Tra gli uomini, è stato rilevato un rapporto significativo tra BMI e l’associazione fumo/ipertensione. Tra le donne, le differenze nei valori pressori tra non fumatrici e fumatrici moderate erano più marcate in coloro che non bevevano alcolici.
Questi dati dimostrano che un eventuale effetto cronico indipendente del fumo sulla pressione arteriosa è di piccola entità. Le differenze tra uomini e donne sono verosimilmente dovute a complesse interrelazioni tra fumo, consumo di alcool e BMI.
2. Il secondo articolo (Effects of smoking cessation on changes in blood pressure and incidence of hypertension), studia gli effetti della cessazione del fumo sulla pressione arteriosa e sull’incidenza dell’ipertensione, con un follow-up di 4 anni. Sono stati valutati 8170 uomini in buona salute impiegati presso una compagnia manifatturiera siderurgica, che avevano fatto la visita medica di controllo presso la compagnia nel 1994 e di nuovo nel 1998. Le variabili considerate sono state: età al momento dell’arruolamento, BMI, fumo di sigarette, consumo di alcool, esercizio fisico, familiarità per ipertensione, pressione arteriosa sistolica e diastolica, e variazioni nel BMI e nel consumo di alcool durante il periodo di follow-up. Risultati. I rischi relativi (aggiustati) di ipertensione nei soggetti che avevano smesso di fumare da < 1 anno, da 1 a 3 anni, e da > 3 anni sono stati rispettivamente di 0.6 (IC 95% = 0.2 – 1.9), 1.5 (IC 95% 0.8 – 2.8) e 3.5 (IC 95% 1.7 – 7.4), in confronto ai soggetti tuttora fumatori. Non si sono osservate differenze nell’aumento del rischio di ipertensione tra soggetti che erano o non erano aumentati di peso dopo aver smesso di fumare. Si è osservato un incremento progressivo della pressione arteriosa parallelo al prolungarsi della cessazione del fumo negli uomini. Al momento attuale il meccanismo eziopatogenetico è sconosciuto e deve essere chiarito. Conclusioni. La cessazione del fumo può dar luogo ad un aumento della pressione arteriosa.
Commento un po’ qualunquistico e nostalgico del recensore (ex-fumatore da oltre vent’anni, in discreto sovrappeso, cultore del buon vino e della buona cucina): vuoi vedere che il fumo ha degli effetti benefici?
Hypertension, febbraio 2001

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Gestione della malattia da reflusso gastroesofageo in medicina generale
La malattia da reflusso gastroesofageo (MRGE) è molto diffusa, riduce notevolmente la qualità della vita e rappresenta un costo considerevole per il servizio sanitario. La maggior parte dei pazienti affetti sono gestiti nell’ambito della medicina generale. Il sintomo principale è la pirosi, e la qualità della vita è peggiorata in rapporto alla frequenza e alla gravità di questa, indipendentemente dalla gravità dell’esofagite. La pirosi è dovuta all’esposizione della mucosa esofagea all’acido e alla pepsina provenienti dallo stomaco. Un’accurata raccolta dell’anamnesi e dei sintomi del paziente è fondamentale per la diagnosi e la successiva gestione della MRGE. Fondamentale è la ricerca di sintomi di allarme, che rappresentano una indicazione per l’esame endoscopico. La diagnosi di MRGE si basa sulla presenza di pirosi per due o più giorni a settimana, sebbene una frequenza minore non escluda la diagnosi. La diagnosi è principalmente clinica. L’esperienza dimostra che tre quarti dei pazienti nei quali la pirosi è l’unico sintomo o il principale hanno una MRGE. La diagnosi è più accurata se la pirosi viene descritta come “sensazione di bruciore che sale dallo stomaco o dalla parte inferiore del torace verso il collo”.
Quando far eseguire una gastroscopia? Meno della metà dei pazienti affetti da MRGE hanno lesioni visibili all’esame endoscopico, pertanto l’endoscopia ha un ruolo limitato nella diagnosi di questa malattia. L’endoscopia è indicata nei seguenti casi:

Il referto dell’esame endoscopico dev’essere scritto con una terminologia standard, chiara, non ambigua. L’esofagite deve essere descritta accuratamente e stadiata, possibilmente secondo la classificazione di Los Angeles. La ripetizione dell’endoscopia è raramente giustificata in pazienti senza esofagite severa.
Terapia. E’ ormai dimostrato ampiamente che i farmaci più efficaci sono gli inibitori di pompa protonica, a dosi che possono variare da elevate, a standard, a dosi dimezzate, seguiti da H2-antagonisti e antiacidi. La cisapride, che ha effetti paragonabili agli H2-antagonisti, non è più utilizzabile a causa degli effetti collaterali cardiaci. (N.d.R.: gli altri farmaci procinetici, quali il domperidone o la levosulpiride, sono nettamente meno efficaci della cisapride).
Strategie per un trattamento iniziale. E’ importante spiegare i sintomi al paziente e rassicurarlo. Bisogna inoltre dare consigli sullo stile di vita, come l’evitare determinati cibi e bevande che possono esacerbare i sintomi. E’ consigliabile iniziare una terapia con inibitori di pompa protonica a dosaggio pieno, standard. A volte, con funzione di test, si può fare una terapia a dosaggio più elevato per 1-2 settimane. L’eradicazione dell’Helicobacter pylori non guarisce l’esofagite e non previene le recidive della MRGE.
Strategie per la gestione a lungo termine. La maggior parte dei pazienti richiede una terapia a lungo termine. Il principio guida è quello di utilizzare il dosaggio minimo efficace. Gli unici pazienti nei quali la dose iniziale non dev’essere ridotta sono quelli con esofagite severa (gradi C e D di Los Angeles). I pazienti nei quali i sintomi non sono ben controllati dovrebbero eseguire una gastroscopia. La chirurgia antireflusso può rappresentare un’opzione attraente per alcuni pazienti, in quanto può eliminare la necessità di assumere farmaci per tutta la vita. In un follow-up a cinque anni la chirurgia antireflusso e la terapia con inibitori di pompa protonica a dosi standard hanno dimostrato di essere ugualmente efficaci. Bisognerebbe tener conto delle preferenze dei pazienti, informandoli adeguatamente sui rischi e i benefici delle due terapie. La chirurgia antireflusso implica una probabilità di morte dello 0.2%, e una morbilità maggiore.
British Medica Journal, 10 febbraio 2001

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Dispepsia non ulcerosa ed eradicazione dell’Helicobacter pylori
La dispepsia non ulcerosa, definita come “dolore o fastidio localizzati nell’addome superiore”, è una patologia molto diffusa negli Stati Uniti e nelle altre nazioni occidentali, con una prevalenza di circa il 25%. Non sono compresi in questa definizione sintomi quali la pirosi (= bruciore retrosternale), che suggeriscono una malattia da reflusso gastroesofageo. La dispepsia non ulcerosa è anche detta “funzionale” o “idiopatica”, in quanto non sono identificabili cause strutturali o biochimiche. Pur non essendo associata ad aumento della mortalità, è generalmente cronica, peggiora la qualità della vita e provoca un continuo ricorso ai servizi sanitari, con un carico economico non indifferente. Ci sono state molte controversie sul ruolo dell’Helicobacter pylori nella dispepsia non ulcerosa. Scopo di questo studio, una metanalisi, è stabilire se la terapia eradicante per l’Helicobacter pylori sia significativamente migliore della terapia di controllo. Sono stati presi in considerazione dieci trials randomizzati e controllati, nei quali 1) sono stati selezionati solo pazienti con dispepsia non ulcerosa e infezione documentata da Helicobacter pylori; 2) è stata utilizzata una terapia combinata doppia, tripla o quadrupla per l’Helicobacter pylori in confronto ad una terapia di controllo inefficace verso l’Helicobacter pylori; 3) è stato fatto un follow-up di almeno un mese per valutare la risposta alla terapia; 4) sono stati valutati con tecniche adeguate i sintomi della dispepsia non ulcerosa.
Il risultato primario è stato considerato il successo della terapia eradicante in confronto con la terapia di controllo. Poiché in questi studi è implicita l’ipotesi che l’eradicazione dell’H. pylori determini un miglioramento della sintomatologia dispeptica, è stata anche fatta un’analisi secondaria della efficacia della terapia in relazione alla presenza dell’H. pylori, ossia eradicazione versus infezione persistente. L’Odds ratio per l’efficacia terapeutica dell’eradicazione rispetto alla terapia di controllo è stata di 1.29 (IC 95% = 0.89 – 1.89; P = 0.18). Tuttavia una significativa eterogeneità nei sintomi dispeptici mette in discussione la validità dell’aggregazione dei dati. Infatti tre degli studi includevano tra i sintomi della dispepsia anche sintomi della malattia da reflusso gastroesofageo, ed in uno di questi, metodologicamente tra i migliori, un terzo dei pazienti aveva sintomi predominanti di dolore retrosternale e reflusso. Escludendo questo studio l’eterogeneità veniva risolta. Il valore di Odds ratio riconsiderato era pertanto di 1.17 (IC 95% = 0.87 – 1.59), senza eterogeneità. Concludendo, questo studio dà scarso supporto all’uso della terapia eradicante per l’Helicobacter pylori nella dispepsia non ulcerosa.
Annals of Internal Medicine, 6 marzo 2001

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Mantenere la dignità e l’autonomia delle persone anziane negli ambienti di cura  
Insensibilità e mancanza di rispetto.
I servizi sanitari dovrebbero preoccuparsi di salvaguardare la dignità e l’autonomia dei pazienti minimizzando le difficoltà. In molti casi tuttavia questi obiettivi non vengono raggiunti. Indagini condotte principalmente da gruppi in difesa degli anziani hanno raccolto direttamente i punti di vista degli anziani fruitori dei servizi sanitari e di coloro che ne hanno cura, disegnando un quadro allarmante di persone anziane trattate in modo inaccettabile, senza sensibilità né rispetto, da parte del personale di assistenza. Alcuni esempi:
-“L’hanno lasciata stare in mezzo ai suoi escrementi e all’urina”.
-“Un vecchietto di 90 anni si era bagnato. Mentre lo cambiavano, giaceva tutto nudo, con le tende completamente aperte”.
-“Sono rimasta scioccata e sgomentata dall’atteggiamento insensibile del personale infermieristico di guardia”.
-“La dignità di mia madre per loro era inesistente”.
Trattandosi di dati aneddotici, è difficile stabilire quanto sia diffusa questa cattiva professionalità. Tuttavia, il fatto che esistano a livello internazionale articoli sulla dignità e l’autonomia degli anziani nell’ambito dell’assistenza sanitaria suggerisce che le difficoltà di mantenere standard elevati di assistenza siano un problema globale.
I concetti di dignità e autonomia, pur essendo tra loro correlati, sono leggermente diversi tra loro. La dignità si riferisce al mantenimento da parte del singolo individuo del rispetto di se stesso e da parte degli altri. L’autonomia fa riferimento al mantenimento del controllo sulle decisioni e sulle altre attività. La letteratura suggerisce che sia la dignità che l’autonomia siano entrambe minacciate negli ambienti di cura. Alla dignità si attenta soprattutto mediante le interazioni negative tra pazienti e personale di assistenza, la mancanza di riguardo per la privacy dei pazienti e una generale mancanza di sensibilità per i bisogni e i desideri della popolazione anziana. L’autonomia è minacciata dalla carenza di informazioni adeguate a comprendere la loro diagnosi e a fare scelte informate riguardo la loro assistenza.
Elevare gli standards. Come si possono migliorare gli standards nell’assistenza agli anziani? Un modo è quello di osservare di buona professionalità che esistono e identificare gli elementi che possono essere generalizzati globalmente ai servizi sanitari. Al pari degli esempi negativi sopra riportati, esistono esempi di commenti positivi fatti dagli anziani e da coloro che li assistono.
-“L’assistenza è stata ineccepibile. Il personale era attento e premuroso”.
-“I medici e il chirurgo che ha eseguito l’intervento sono stati premurosi e hanno perso tempo per spiegarmi tutto dettagliatamente”.
Questi commenti mettono in luce gli elementi che fanno sentire alle persone anziane di conservare la loro dignità e autonomia. Il fornire informazioni e la qualità delle interazioni tra il personale e i pazienti sono punti chiave.
Bloccare gli atteggiamenti negativi mediante l’addestramento. I dati qualitativi finora citati suggeriscono che il modo di pensare del personale di assistenza incide notevolmente sulla qualità del trattamento delle persone anziane e sull’attenzione data alla conservazione della loro dignità ed autonomia. Purtroppo, sembra che una parte considerevole dei professionisti della sanità abbia punti di vista pessimistici sulle persone anziane. Lo UK Health Advisory Service riferisce di aver trovato esempi di atteggiamenti preconcetti nei confronti delle persone anziane e della loro cura quasi ad ogni livello del sistema di servizi.
La letteratura dimostra che gli atteggiamenti negativi del personale verso gli anziani possono essere bloccate mediante un addestramento diffuso e continuo, ma soprattutto con un contatto continuo con gli anziani non solo ammalati, ma anche sani, in modo da arrivare a considerarli come esseri umani singoli e non come un gruppo omogeneo.
Fornire informazioni. Le persone anziane e coloro che li assistono hanno bisogno di ricevere informazioni adeguate, per poter fare scelte informate riguardo la loro cura. Ciò è necessario ad ogni stadio di trattamento, compresa la cura dei malati terminali.
British Medical Journal, 17 marzo 2001

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L’appendicectomia protegge dalla colite ulcerosa Scopo di questo studio è chiarire la relazione tra appendicectomia e colite ulcerosa, in quanto nell’anamnesi dei soggetti con colite ulcerosa raramente è presente l’appendicectomia. Sono stati presi in considerazione 212.963 pazienti che tra il 1964 e il 1993 erano stati sottoposti ad appendicectomia prima dei 50 anni di età, più un adeguato gruppo di controllo, seguito fino al 1995 per identificare successivi casi di colite ulcerosa.
Il rischio di colite ulcerosa si è rivelato basso nei pazienti sottoposti ad appendicectomia per appendicite o per linfoadenite mesenterica: l’Odds ratio per i pazienti con appendicite perforata è stato di 0.58 (IC 95% = 0.38 – 0.97), per quelli con appendicite non perforata è stato di 0.76 (0.65 – 0.90), e per quelli con linfoadenite mesenterica è stato di 0.57 (0.36 – 0.89). Invece i pazienti appendicectomizzati per sintomatologia dolorosa addominale non specifica hanno presentato lo stesso rischio di colite ulcerosa dei soggetti nel gruppo di controllo: Odds ratio 1.06, (IC 95% = 0.74 – 1.52). Per i pazienti sottoposti ad appendicectomia in età anteriore ai 20 anni è stata dimostrata una relazione inversa con il rischio di colite ulcerosa altamente significativa (P < 0.001). Concludendo, essere sottoposti ad appendicectomia prima dei vent’anni a causa di appendicite o di linfoadenite mesenterica, ma non per dolori addominali non specifici, comporta un basso rischio di sviluppare successivamente una colite ulcerosa.
New England Journal of Medicine, 15 marzo 2001

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Pillole di buonumore

"Collezionista di scatolette misteriose scambierebbe non importa che cosa con qualsiasi altra cosa. Purche' sia ben confezionata. Scrivere a...".


 

NEWS

 

Veleno di tarantola per prevenire la fibrillazione atriale
Western Medical Journal, 3 marzo 2001 – In una ricerca, pubblicata su Nature (2001; 409:35-36), un gruppo di ricercatori americani e tedeschi guidati dal prof. Frederick Sacks della State University of New York a Buffalo ha scoperto che il veleno di una tarantola cilena, la Grammostola spatulata, contiene un peptide, denominato GsMtx-4, in grado di bloccare l’insorgenza della fibrillazione atriale nei conigli. I ricercatori hanno provocato l’aritmia nel cuore dei conigli mediante scosse elettriche, quindi hanno usato estratti del veleno per sopprimere il ritmo anormale. Il peptide si è dimostrato privo di effetti sul cuore normale, per cui gli effetti collaterali dovrebbero essere minimi. Un ulteriore fattore di sicurezza deriva dal fatto che il veleno di questa tarantola non è pericoloso per l’uomo. La proteina è quindi molto promettente e può preannunciare una nuova classe di composti destinati a curare le cause, invece che i sintomi, della fibrillazione striale. Ovviamente sono necessari ulteriori studi.
Secondo la American Tarantula Society, la Grammostola spatulata è innocua, docile, e facile da mantenere: un ideale primo animaletto da salotto. E’ disponibile in 2 colori, marrone o rosso, e può restare senza mangiare anche per un anno.

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Bevi che ti passa
Spiegati i benefici di un consumo moderato di alcool
Le Scienze, 9 marzo 2001 -
Che bere un buon bicchiere di vino ogni tanto faccia bene alla salute, e anche allo spirito, è una cosa che è già stata stabilita da tempo. Un gruppo di scienziati dell'Università di Ulm, in Germania, ha ora anche scoperto come: in un articolo pubblicato su «The Lancet», il professor Armin Imhof riferisce che gli effetti benefici dell'alcool derivano dalla sua blanda azione antinfiammatoria. In particolare, studi statistici hanno dimostrato che un moderato consumo di alcool riduce il rischio di morte per malattie cardiovascolari molto più della completa astensione.
Gli scienziati hanno analizzato la correlazione fra il consumo di alcool e la presenza nel sangue di sostanze associate normalmente a stati infiammatori, come la proteina C attivata e l'albumina. Per lo studio, sono stati presi in considerazione 2006 uomini e donne di età compresa tra 18 e 88 anni. I volontari sono stati studiati attentamente per una settimana, durante la quale è stato registrato sia il consumo di cibo che quello di alcool di ogni genere. Negli uomini si è riscontrato immediatamente un andamento a U molto evidente, in cui la concentrazione dei marcatori dell'infiammazione era più elevata in associazione a un consumo di alcool molto basso e molto alto. Nelle donne, che sono comunque meno suscettibili alle malattie cardiovascolari, la correlazione è risultata più debole, ma pur sempre presente.
Aldo Conti

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Epilessia: servono 10 mila interventi chirurgici l’anno, se ne fanno 150
Roma, 16 marzo (Adnkronos) - Sono 550mila gli italiani epilettici. Non tutti, pero', rispondono bene ai farmaci. Ogni anno, infatti, 10mila persone necessitano di un intervento chirurgico (risolutivo nel 50-70% dei casi), ma solo 150 riescono ad essere operati, a causa della mancanza di strutture specializzate. ''E' un contrasto stridente -sottolinea il professor Carlo Alberto Tassinari, primario neurologo dell'ospedale Bellaria di Bologna- perche' l'Italia rappresenta in assoluto il Paese con il piu' alto numero di specialisti e centri neurochirurgici pro-capite''. Proprio a Bologna oggi debutta la nuova Unita' di Monitoraggio intensivo per la terapia chirurgica dell'epilessia, terza in Italia dopo quelle del Niguarda di Milano e di Venafro (Isernia).
Per far funzionare questi centri, spiega Tassinari, non occorrono 'epilettologi' o neurochirurghi, ''ma gruppi integrati di specialisti, fra cui anche neuroradiologi e psicologi, formati presso centri clinici qualificati''. Fondamentale e' l'esplorazione funzionale dell'area cerebrale sede della crisi, che deve essere asportata nell'intervento. ''Occorre individuare con precisione l'area epilettogena -dice il medico in una nota- attraverso l'impiego di moderne tecniche di monitoraggio e di apparecchi sofisticati per immagini cerebrali, come quelli ad emissione di positroni; ma anche valutare le funzioni in ogni singolo paziente, per prevedere il rischio di un deficit conseguente all'asportazione del tessuto cerebrale''. Si tratta di interventi che arrivano ad eliminare le crisi in 7 pazienti su 10.

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Cure palliative adeguate per 1 malato terminale su 5
Milano, 17 marzo (Adnkronos) -
Ogni anno in Italia 180mila persone muoiono di cancro, di cui meno del 20% riceve cure palliative adeguate. Trattare il dolore fisico; lenire le sofferenze psicologiche; garantire il supporto sociale; migliorare la relazione medico-paziente; ascoltare attentamente e giorno dopo giorno la persona malata: su questi cinque punti si deve basare la sfida all'eutanasia e al suicidio, sfida che richiede medici formati (devono sapere come agire) e cittadini informati (devono conoscere i propri diritti). E' questo il messaggio emerso nell'incontro svoltosi oggi presso l'Istituto dei Tumori di Milano.
''La gente pensa che tutti i malati terminali vogliono morire - afferma la dottoressa Carla Ripamonti della Divisione Riabilitazione e cure palliative dell'istituto oncologico milanese - ma la realta' non e' cosi'. I dati sono chiari: nel nostro reparto in vent'anni sono stati cinque i pazienti che hanno chiesto l'eutanasia, ma solo in un caso si puo' parlare di 'vera' richiesta di eutanasia (paziente cosi' determinata da tentare il suicidio, e' stata poi seguita a domicilio) mentre altri tre pazienti avevano problemi di dolore (risolto il quale la richiesta non e' stata ripetuta) e un quinto soffriva di gravi disagi psicologici (risolti i quali anche in questo caso la richiesta non e' stata ripetuta)''.

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Guerra agli streptococchi
Le Scienze 20.03.2001 - La tecnica presenta enormi vantaggi rispetto ai trattamenti a base di antibiotici Un gruppo della Rockfeller University ha messo a punto un metodo per uccidere al solo contatto gli streptococchi, batteri che causano diverse infezioni negli esseri umani. La tecnica, descritta in un articolo pubblicato sui «Proceedings of the National Academy of Sciences», ha enormi vantaggi rispetto a quelle tradizionali, a base di antibiotici.
Il sistema utilizza enzimi normalmente prodotti da virus batteriofagi, che infettano i batteri, producono copie di se stessi e poi escono per andare a infettare nuovi batteri. Questi enzimi provocano un vero e proprio dissolvimento della parete cellulare dei batteri, per permettere al virus di sfuggire una volta sfruttata la cellula. Vincent Fischetti ha pensato allora di provare a utilizzare l'enzima separatamente dal virus, con risultati che hanno stupito gli stessi ricercatori. Non solo infatti l'enzima uccide i batteri molto efficacemente, ma lo fa anche in un tempo molto breve. In coltura, una piccolissima quantità dell'enzima è in grado di sterminare completamente i batteri in soli cinque secondi, meglio di qualsiasi altra sostanza nota.
L'utilizzo degli enzimi promette anche di essere estremamente specifico, poiché ogni batterio ha il proprio virus che lo attacca. Questo è un grande vantaggio rispetto agli antibiotici, che invece tendono anche a uccidere la flora batterica che contribuisce alla nostra salute.
Al momento, i ricercatori hanno usato l'enzima estratto da una colonia di batteri infettata dal virus, ma in futuro non sarà difficile sintetizzarlo artificialmente a un prezzo molto basso.

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Vitamine per la radioterapia
Le Scienze, 21.03.2001 - In passato l'utilizzo delle vitamine si era dimostrato utile per prevenire il danno da radiazioni Uno studio eseguito su 20 pazienti che soffrivano di una prostatite cronica da radiazioni ha mostrato che un'integrazione di vitamine E e C alla dieta quotidiana può ridurre o addirittura cancellare i sintomi della malattia. Finora questa condizione è stata trattata con antinfiammatori, ma con un successo molto modesto. I risultati di questo nuovo studio sono stati pubblicati su «The American Journal of Gastroenterology».
La radioterapia viene utilizzata per curare alcuni tipi di tumori ma, nonostante siano efficaci contro le cellule tumorali, le radiazioni danneggiano anche i tessuti circostanti. Come risultato del trattamento di tumori nell'area pelvica, molti pazienti sviluppano una patologia che ha gli stessi sintomi della prostatite acuta, che sono di solito diarrea, dolori e incontinenza. Generalmente, i sintomi scompaiono entro poche settimane dal trattamento, ma in una discreta percentuale di pazienti la condizione diventa invece permanente.
Lo studio del professor Keith Bruninga, Rush-Presbyterian-St. Luke's Medical Center di Chicago, mostra che le proprietà antiossidanti delle vitamine possono riparare le cellule danneggiate e portare sollievo a questi pazienti. In passato l'utilizzo delle vitamine si era dimostrato utile per prevenire il danno da radiazioni, ma questo è il primo studio che ne investiga il potenziale per il trattamento delle prostatiti croniche da radiazione.
Il trattamento con le radiazioni fa sì che le cellule danneggiate liberino radicali ossigeno liberi che, essendo molto reattivi, danneggiano la struttura di altre cellule. La vitamina E è però un forte antiossidante, che può reagire con questi radicali neutralizzandoli, e la vitamina C ne potenzia ulteriormente l'effetto.
I pazienti coinvolti nello studio, dieci uomini e dieci donne, hanno assunto tre volte al giorno per otto settimane dosi di vitamine. I pazienti hanno poi stimato la gravità dei loro sintomi prima e dopo il trattamento, utilizzando un questionario messo a punto dai ricercatori. Dei pazienti, sette hanno riferito la scomparsa completa dei sintomi, e anche gli altri hanno avuto notevoli miglioramenti. Al momento, comunque, i medici sono alla ricerca di altri pazienti, per poter condurre una sperimentazione più vasta.

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Il gene del sesso
La scoperta, avvenuta in topi geneticamente modificati, è - come a volte accade - del tutto casuale
Le Scienze, 23.03.2001 - Un gruppo di ricercatori della Washington University School of Medicine di St. Louis ha identificato un gene fortemente collegato alla determinazione del sesso. Gli scienziati hanno osservato che cancellando il per il fattore di crescita dei fibroblasti 9 (Fgf9), si ottengono topi con un apparato riproduttivo femminile, anche in presenza del cromosoma Y, che di solito determina il sesso maschile. Questo gene potrebbe quindi svolgere un ruolo importante nella determinazione del sesso e nello sviluppo dell'apparato riproduttivo, non solo dei topi ma anche di molti altri animali, esseri umani compresi.
I fattori di crescita dei fibroblasti regolano la crescita delle cellule e i loro spostamenti, e sono quindi fondamentali nello sviluppo degli organi. In realtà, spiegano gli autori della ricerca in un articolo pubblicato su «Cell», i topi senza il gene Fgf9 erano stati prodotti per esplorare l'effetto della loro assenza su organi come i polmoni. Poiché però tutti i topi sono morti immediatamente dopo la nascita, i ricercatori non si sono presi subito la briga di controllarne il sesso e hanno quindi ritardato questa scoperta puramente casuale. Quando hanno cercato la prostata degli animali, gli scienziati sono rimasti sorpresi nel non trovarla, ma ancora più sorpresi sono stati nello scoprire che dall'analisi genetica risultava che effettivamente la metà dei topi era maschio. Questi risultati sono quindi sufficienti per stabilire che il gene in questione determina il sesso maschile durante lo sviluppo dell'embrione, anche se i meccanismi non sono ancora chiari.
La ricerca potrebbe poi avere ulteriori sviluppi, visto che sono noti agli scienziati 22 fattori di crescita dei fibroblasti, e per ora è stato studiato soltanto l'effetto della mancanza del numero nove

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Anziani: 'caregiver' a rischio aggressività e depressione
Milano, 28 marzo - (Adnkronos) - Il 'caregiver', ovvero chi si prende cura di una persona malata, rischia fortemente di compromettere il proprio equilibrio psico-fisico: nell'arco di 12 mesi, infatti, i casi di aggressivita' aumentano dal 37,8% al 74,5% e i casi di depressione crescono dal 22,8% al 31,8%. E' quanto emerge da una ricerca condotta dall'Universita' Cattolica di Milano, per conto dell'Associazione Ager, i cui dati preliminari vengono presentati nell'ambito del convegno ''Condizione anziana e differenza di genere'', in programma oggi alle 15.30 presso l'ateneo milanese.
Il profilo della 'persona che assiste', secondo la ricerca guidata dal professor Giancarlo Tamanza su 136 coppie di caregiver di pazienti ospitati in tre day hospital lombardi (due a Milano e uno a Brescia), ha un'eta' compresa tra i 40 e i 49 anni nel 30% dei casi e tra i 50 e i 59 nel 40%, ed e' prevalentemente donna (figlie e nuore rappresentano insieme quasi il 75% del campione).
''Facile immaginare - sottolinea Tamanza - che si tratti di persone che devono affrontare, in aggiunta ai compiti assistenziali, altre impegnative incombenze, tra cui la cura di figli adolescenti o giovani oppure l'attivita' lavorativa extra-familiare''.

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Italiani: il 32% soffre d’ansia e disturbi affettivi
Roma, 28 marzo - (Adnkronos) - Sono 600 mila gli italiani con patologie mentali. Una cifra che aumenta se consideriamo i problemi psichici meno gravi: secondo i dati dell'unico studio italiano in materia, il 16,6% della popolazione va incontro, nel corso della vita, a disturbi dell'affettivita', il 16,5% a disturbi d'ansia. Seimila ragazzi, ogni anno, sono vittime di una crisi di dissociazione psicotica: 2 su tre potrebbero essere salvati da una seconda crisi se fossero curati in maniera adeguata. Questi i numeri del disagio nel nostro Paese ricordati in occasione della presentazione, oggi al ministero della Sanita', della Giornata mondiale per la salute mentale, il 7 aprile, promossa dall'Organizzazione mondiale della sanita'.
''Salute mentale: contro il pregiudizio, il coraggio delle cure''. Questo lo slogan scelto dall'Oms contro la stigmatizzazione e l'isolamento dei malati e dello loro famiglie e per sottolineare che le patologie mentali si possono guarire. Farmaci e trattamenti ci sono e garantiscono percentuali di guarigione piu' elevate che per altre malattie: il 70-80% per i casi di depressione, il 60-80% per i disturbi d'ansia, il 50-7'% per la schizofrenia, il 50-80% per anoressia e bulimia. Bisogna avere, pero', il coraggio di utilizzarli. ''La pecentuale di malati che ricevono un trattamento adeguato - sottolinea il presidente della Societa' italiana di psichiatria, Mario Maj - e' molto piu' bassa che per le altre patologie''

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Le zecche e l'immunità
Almeno un tipo di zecca effettua questo sabotaggio in un modo finora sconosciuto
Le Scienze, 30.03.2001 - Quando una zecca morde la pelle, essa rilascia una saliva che sopprime la coagulazione del sangue e la risposta immunitaria che diversamente la rigetterebbe. Almeno un tipo di zecca effettua questo sabotaggio in un modo che era sconosciuto, secondo un articolo pubblicato sul «Journal of Immunology». La saliva contiene infatti una proteina che assorbe interleuchina-2, un'altra proteina di cui hanno bisogno alcune cellule del sistema immunitario per moltiplicarsi.
La maggior parte dei morsi di zecca non sono in sé pericolosi, ma spesso questi animali trasportano agenti patogeni, come i batteri che provocanola malattia di Lyme. La soppressione del sistema immunitario offre a questi parassiti un ambiente perfetto da dove iniziare la loro invasione. Proprio questo effetto secondario ha spinto i ricercatori a studiare come operino i trucchi delle zecche. Essi hanno scoperto, per esempio, che la saliva di Ixodes scapularis impedisce la divisione dei linfociti T, ma il meccanismo non era molto chiaro. Per comprenderlo, due professori della Colorado State University hanno mischiato la saliva della zecca con cellule di milza, che contengono linfociti T. Essi hanno così scoperto che la saliva non ha bisogno di interagire con i linfociti per bloccare direttamente la loro crescita. Piuttosto, essa si lega all'interleuchina-2, nota per stimolare la crescita dei linfociti T, sia nell'uomo sia nei topi. Inoltre, questa proteina non influenza solo i linfociti, essa è necessaria anche ad altre cellule del sistema immunitario.

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Pillole di buonumore

"Gemelle ventunenni corrisponderebbero scopo fidanzamento con gemelli eventualmente fratelli. Scrivere..."

"A. Mago Via Margutta guarisce, indovina, toglie iettatura perche' astromediumrabdomante dalle 10 alle 19. Tel...."


     
APPROFONDIMENTI

Il paziente Manipolatore

Benche’ esista da qualche tempo la facolta’ di Laurea in Psicologia, destinata alla formazione di operatori e specialisti del settore, i medici si sono sempre considerati un po’ psicologi e si sono serviti di tecniche piu’ o meno empiriche per migliorare il rapporto con i pazienti, risolvere problemi relazionali o fornire aiuto e supporto sul piano emotivo a chi ne avesse bisogno.
L’ abilita’ psicologica acquistata sul campo (ma spesso inconsapevole, e non strutturata) e’ talvolta necessaria per riconoscere e contrastare le pressioni psicologiche che, con sistemi istintivi ma non per questo meno efficaci, i pazienti riversano sul medico, al fine piu’ o meno consapevole di sfuttarlo a proprio vantaggio.
E’ utile, percio’, rendersi consapevoli di alcune delle metodiche che i pazienti usano per manipolare il sanitario e che esso sono spesso fonte di disagi e sofferenze dalle origini indeterminate ma non per questo meno profonde.
Il medico, nella sua quotidianeita', opera nel convincimento che colui che si rivolge alla sua opera intenda chiedere aiuto e consiglio, cosi’ come egli, di converso, agisce secondo quanto ritenga meglio per il paziente. Opera cioe' con una presunzione di Buona Fede Biunivoca.
L' anamnesi, percio', anche per la scarsezza di tempo a disposizione, viene solitamente raccolta in base a questa presunzione di buona fede, senza un vaglio critico stringente e senza filtri censori particolarmente efficaci. Quando nella storia esistono zone di ambiguita', il medico tende a colmarle lui stesso basandosi sull’ esperienza conseguita in casi consimili, dando per scontati e sottintesi alcuni elementi che in realta’ non sono stati espressi.
Queto comportamento e' dettato sovente, oltre che dalla scarsita' di tempo a disposizione, dalla presunzione di "conoscere bene " il paziente. Ma cio’ non e’ sempre vero.
Esite infatti una tipologia di pazienti che, avendo sviluppato una naturale inclinazione alla manipolazione delle persone, sanno servirsi delle debolezze altrui per i propri scopi. Questi scopi spesso non hanno nulla a che fare con la ricerca della salute, ma tendono piuttosto a gratificare altri bisogni intimi del paziente.

  1. Primo tipo: il Falso Acquiescente. Si tratta del paziente che, ad ogni proposta del medico, dice sempre di si'. Approva incondizionatamente qualsiasi indicazione, prescrizione, proposta; si mostra entusiasta del proprio medico e ribadisce in ogni occasione la sua totale e illimitata fiducia; pero’ poi torna sempre indietro lamentando pietosamente il fallimento di quanto effettuato in seguito alle sue prescrizioni. La strategia consiste nel mettere il medico in "debito di fiducia". E' come se il paziente silenziosamente rimproverasse: "Io pongo tutta la mia fiducia in te, ma tu malgrado cio' non riesci a guarirmi". Il concetto non e' mai espresso esplicitamente a parole, in quanto il cardine della strategia e' lo stimolo profondo del senso di colpa, che si manifesta inconsciamente con un disagio sempre crescente da parte del medico. Se il paziente tira troppo la corda, il medico finira’ per sviluppare dei meccanismi difensivi, ma se invece sa riconoscere il momento giusto, potra’ approfittare invece della sua momentanea debolezza per chiedere la "riscossione del debito" mediante una richiesta impropria che normalmente sarebbe stata inaccettabile, ma che diventa obbligatoria per una sorta di ricatto morale. Ecco percio' come il medico finisce per prestarsi ad un certificato di comodo, ad una ricetta impropria e cosi' via.
  2. Secondo tipo: il Contagocce. Si tratta di pazienti che, pur mostrando una apparente massima collaborazione, tacciono invece al medico, deliberatamente, alcuni aspetti importanti delle proprie patologie, per rivelarle solo in seguito, poco a poco e sempre per sottolineare qualche erronea conclusione del sanitario. In questo modo, silenziosamente, accusano in questo modo il medico di incapacita'. La tecnica consiste nell’ approfittare della mancanza di tempo a disposizione per l’ anamnesi per riferire una serie di sintomi "dimenticando" pero’ di riferirne altri, in modo da "spiazzare" la diagnosi ed il trattamento proposti dal sanitario, facendone rilevare cosi' la pochezza. Il medico, confuso e in difficolta', finisce a questo punto per cedere alle vie d’ uscita che il paziente stesso gli propone. Il meccanismo, in questo caso, si basa sullo svilimento della figura del medico, che si mostra incapace di arrivare ad una diagnosi o ad una terapia senza il "suggerimento" del paziente, che cosi' riesce a far passare linee di comportamento gia’ da lui stabilite in precedenza. Esempi di queste strategie verranno esposti in seguito.
  3. Terzo tipo: il Medico di Se' Stesso. E' il paziente che in realta' non ha nessuna fiducia del medico e decide da se' (in base ai consigli della portiera, dei giornali femminili, di qualche rubrica televisiva) quali sono le sue malattie e quali le cure piu' idonee. Il medico, per questa tipologia di persone, riveste solo un ruolo di "prescrizione farmaci" e di "avallo" in modo che, in caso di insuccesso, esista una figura su cui il paziente possa riversare le responsabilita' del fallimento. Per ottenere questo risultato il paziente, a differenza della tipologia precedente, non si limita a tirar fuori gli elementi un po' alla volta al fine di contestare e sminuire le deduzioni del medico, ma deliberatamente li omette o addirittura (ma solo per certi dettagli, in modo da potersi eventualmente giustificare con una "dimenticanza") li falsifica. Sono quelli che "ti mettono in bocca la diagnosi". Se scoperto, l' interessato si difende affermando che "non sapeva che anche quei disturbi fossero importanti". Se vuole un antiulcera, ad esempio, descrive profusamente i sintomi della sua "esofagite" ma "dimentica" di dire, contando sulla fretta del medico, che ha assunto per parecchi giorni dell' ASA o che i disturbi sono insorti dopo un eccesso alimentare. E' un comportamento assai pericoloso perche' distorce enormemente i percorsi diagnostici del medico; e' anche un comportamento non sempre del tutto consapevole ma che, qualora scoperto, distrugge il rapporto di fiducia.
  4. Quarto tipo: il Simulatore. Qui si cade nella psicopatologia o nella truffa vera e propria. Rientrano veri e propri malati mentali (la Sindrome di Munchausen) o truffatori che tendono ad ottenere certificati non spettanti per false malattie o rimborsi assicurativi oppure farmaci in esenzione da regalare ad altri. Rientrano in questa tipologia le clamorose "ricette per il cane" che ancora ogni tanto capita di vedere. Si tratta di pazienti che, una volta individuati, non hanno la vita facile e tendono percio' a cambiare spesso medico. Questi soggetti possono poi riferire al nuovo medico tutta una serie di patologie o dati anamnestici fasulli, che vengono riportati come accertati dal medico precedente. Paradossalmente, il medico e' maggiormente in grado di scoprire comportamenti di questo tipo, in quanto gli sono chiari i fini e le metodiche; e' invece spesso indifeso rispetto ai comportamenti apparentemente non finalizzati ad un vantaggio, come quelli rappresentati nella categorie precedenti.

Anna e' una signora di mezza eta', sempre molto ossequiosa e deferente verso il medico. Non fa che ripetere che "si affida solo a lui, ascolta solo i suoi consigli, segue sempre alla lettera le sua prescrizioni". Pero' e' anche una delle persone piu' assidue nell' ambulatorio: spesso torna con aria vagamente disperata e sofferente, affermando che, purtroppo le terapie del suo medico non hanno sortito gli effetti sperati. Pero', aggiunge sempre un po' stoicamente, lei continua ad avere fiducia ed a fare tutto cio' che lui le dice. Poi aggiunge con timida vocina: dato che tutti i tentativi finora effettuati non hanno sortito effetto, non si potrebbe provare il farmaco XY, che ha fatto tanto bene alla sorella, e che certamente il medico stava per prescriverle?

Anna rientra tipicamente nel primo gruppo, basato sul "credito di fiducia".

Bruna riferisce con ricchezza di particolari una "terribile" sintomatologia dolorosa addominale, sentendosi certa di soffrire di ulcera e chiedendo una terapia specifica; il medico invece ritiene trattarsi di una diverticolosi riacutizzata, e prescrive farmaciantispastici e disinfettanti. Solo allora la paziente lo informa che "gia’ da tre giorni assume tali farmaci senza risultati" mettendo cosi’ in evidenza l’ "errore terapeutico" che si stava per compiere. Il medico propone allora di aggiungere dei farmaci antiacidi ma solo allora la paziente gli ricorda di aver avuto effetti collaterali da questi farmaci. Il medico non ricorda tale circostanza, ma intanto si sente in colpa sotto lo sguardo accusatore di Bruna che sembra dire"che razza di medico sei? se io non te lo avessi ricordato, mi avresti dato dei farmaci che mi fanno male". Il medico consiglia allora una dieta: "Ma come, dottore, e' la prima cosa che ho fatto". Il medico resiste ancora alla diagnosi precostituita dalla paziente e propone un approfondimento diagnostico. A questo punto Bruna si ricorda di riferire di aver gia’ consultato un gastroenterologo il quale aveva diagnosticato un’ ulcera, tanto tempo prima ("ma come, non se lo ricorda il dottore?"). E' quindi ritornata dallo stesso specialista il quale gli ha confermato la diagnosi e prescritto un apposito farmaco(e mostra una ricetta); lei certo non vuol fare di nuovo, inutilmente, quel terribile esame. A questo punto il medico cede e ripete la ricetta. Solo in seguito il medico viene a sapere che in realta' i sintomi erano molro meno importanti di quanto riferito, che la paziente aveva in realta’ assunto antispastici e disinfettanti solo in modo "virtuale" (una compressa o due), che i disturbi da antiacidi risalivano a vecchi farmaci non piu' in commercio, che il gastroenterologo aveva si' prescritto il farmaco antiulcera ma aveva pure avvertito la paziente che riteneva indispensabile un controllo endoscopico. Insomma, pur non dicendo nessuna vera bugia, con un attento stillicidio anamnestico la paziente aveva indotto il medico a seguire l' iter diagnostico e terapeutico da lei voluto.

Bruna e' una tipica paziente che sintetizza le caratteristiche del secondo e del terzo gruppo. La strategia iniziale consiste infatti nel far fare "brutta figura" al medico, che espone le sue ipotesi in base ad elementi volutamente lasciati incompleti e che viene per questo motivo sminuito; in questo modo viene spinto ad adeguarsi ad una soluzione "onorevole" presentata dalla paziente. Se il medico resiste a tale meccanismo, si passa alla alterazione e al sottacere deliberato e definitivo di alcuni elementi cruciali.

Mario e' un 50enne di livello culturale assai basso, convinto che "i fluidi del suo corpo si siano tutti mescolati dentro" e che "il suo corpo non assorbe piu' nulla di quanto gli viene somministrato, e si sta consumando". Cio' contrasta chiaramente con un fisico florido e sovrappeso, ma e' indubbio che egli creda fermamente in quanto afferma. Per questo motivo si presenta spesso con richieste di prescrizioni fantasiose per i farmaci piu' disparati, derivate da ardite estrapolazioni effettuate sul contenuto di articoli letti qui e li'. Per convincere il medico, secondo lui poco attento ai suoi problemi, inventa ogni volta una serie di sintomi sempre diversi e contraddicentisi tra loro. Il medico, che ormai si e' reso conto della cosa, ha provveduto ad attivare una idonea assistenza psichiatrica.

E' un paziente dell' ultimo gruppo, e l' ingenuita' con cui manifesta i suoi desideri ne fanno un soggetto innocuo, spinto dalla malattia piu' che da desideri illegittimi.

In conclusione: occorre che il medico sia piu' consapevole delle dinamiche relazionali che si instaurano con i pazienti "manipolatori" in modo da poter tenere attivo un sistema di "filtro critico" che evita l' itrappolamento negli schemi da essi creati.

POSSIBILI STRATEGIE DIFENSIVE:
Tutti questi meccanismi si basano, a ben vedere, sulla incompleta acquisizione di notizie da parte del medico. Allorche’ il medico si accorga di venire spinto verso un comportamento sgradito, e' fondamentale che egli provveda ad approfondire le informazioni che l' hanno condotto a tale punto. Sara' con sorpresa che si accorgera', il piu’ delle volte, che gli erano stati sottaciuti elementi cruciali. Questo sara' un elemento di allarme per le occasioni successive e permettera' di mettere in moto dei meccanismi di "filtro" e di difesa.
Le strategie difensive possono essere diversissime, in quanto dipendenti essenzialmente dalla personalita' del medico. Le principali possono essere:

Dott. Daniele Zamperini, In collaborazione con: Dott. Roberta Floreani, Biologa, laureanda in Psicologia (Pubblicato su Doctor, Marzo 2001)

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Pillole di buonumore

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MEDICINA LEGALE E NORMATIVA SANITARIA 
  Rubrica gestita dall' ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale Universita' Cattolica

Una pacca sul sedere è un atto di libidine
Atti di libidine - Prova dell'intento dell'autore (Sentenza)

Cassazione Penale, sez. V, n. 623 del 23 gennaio 2001

Il Giudice di Merito ha stabilito, mediante un esame approfondito delle modalita' concrete con cui si e' svolto il fatto, che una isolata, rapida e repentina pacca sul sedere non avesse avuto connotazioni sessuali tali da configurare reato;  la Suprema Corte, chiamata a rivedere tale decisione, rilevando l' intrinseca logicita' della sentenza, ritiene non poter entrare nel merito, essendo suo compito valutare la legittimita' della decisione  e l' esistenza o meno di motivazioni adeguate e coerenti.. (Riassunto di Daniele Zamperini. Testo completo su www.giustizia.it )

Il Tribunale di Venezia, nel 1994, condannava alla pena di un anno e sei mesi (piu' interdizione ai pubblici uffici per un anno) il signor M. E., imputato di aver abusato delle sue funzioni di amministratore straordinario della USSL e superiore gerarchico di D.R. A., compiendo sulla predetta atti di libidine consistiti nel palpeggiare il sedere della vittima contro la sua volontà (art.521, 61 n. 9 c.p) e inoltre di aver minacciato ripetutamente D.R. A., nei giorni successivi, al fine di non essere denunciato, di valersi delle sue prerogative e delle sue amicizie presso la USSL per danneggiarle la carriera.
L' imputato ricorreva in Appello ove, veniva assolto  perche' il primo fatto non costituisce reato, mentre il secondo reato veniva estinto per prescrizione.
Sia il Procuratore Generale che l' imputato ricorrevano in Cassazione.

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Violenza sessuale - Nozioni di atti sessuali (Sentenza)
(C.Cassaz., III Penale, n. 3990 dell'1 febbraio 2001)

La violenza sessuale non si realizza soltanto allorche' si effettuino con la forza degli atti di congiungimento carnale, ma anche allorche' si attuino comportamenti che, valendosi della forza o minaccia, ma anche della repentineita' atta a precedere eventuali opposizioni, vadano a coinvolgere la sfera sessuale dell' individuo offeso. (Riassunto da Daniele Zamperini; testo completo su www.giustizia.it )

Il 29.11.1999 la Corte di Appello di Lecce confermava la condanna del Tribunale di Brindisi che aveva affermato la penale responsabilità di I. G. (con conseguente condanna di anni uno e mesi sei di reclusione) per avere, con violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione di coordinatore amministrativo presso (omissis), con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso e con violenza, commesso atti di libidine sulle alunne (omissis) alle quali palpava il seno, e dava anche un bacio sulle labbra.
L' imputato proponeva ricorso in quanto:
a) la Corte territoriale - con argomentazioni anche superficiali ed inesatte - avrebbe ritenuto attendibili le accuse formulate dalle denunzianti, senza procedere ad una rigorosa valutazione delle stesse;
b) il reato era insussistente in quanto, mancando assolutamente alcun tipo di violenza ( intesa come esplicazione di una energia fisica atta a vincere la resistenza delle ragazze)   non sarebbero "idonei a varcare la soglia della rilevanza penale in relazione all'art. 609 bis; cod. pen.".

La Cassazione respinge il ricorso in quanto:

1. Secondo la giurisprudenza di Cassazione in tema di valutazione probatoria, la deposizione della persona offesa dal reato, anche se quest'ultima non è equiparabile al testimone estraneo, può tuttavia essere da sola assunta come fonte di prova, ove venga sottoposta ad un'indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l'ha resa. Tale credibilita' era stata correttamente esaminata dai giudici di merito, che   hanno sottoposto ad un controllo rigoroso le dichiarazioni accusatorie provenienti dalle giovani parti lese, evidenziandone anzitutto le caratteristiche peculiari di precisione, coerenza, ed uniformità nella loro reiterazione.

2. In relazione alla normativa precedente veniva considerato atto di libidine "lo sfogo dell'appetito di lussuria diverso dalla congiunzione carnale" e venivano ricondotte a tale figura criminosa in parola tutte le manifestazioni dell'istinto sessuale, e cioè tutte le forme in cui può estrinsecarsi la libidine (ivi compresi i semplici palpamenti), diverse dal coito, suscettive di dare sfogo alla concupiscenza, anche in modo non completo e di durata brevissima. Tali atti venivano distinti in violenti ed abusivi, perché dovevano essere compiuti mediante violenza o minaccia oppure con abuso delle condizioni di inferiorità in cui le persone offese si trovavano per il proprio stato fisico o psichico ovvero per il rapporto di soggezione intercedente con l'agente.
Dopo l'entrata in vigore della legge n. 66/1996, invece, l'individuazione della condotta tipica del reato di "violenza sessuale" si riconnette alla definizione della nozione, del contenuto e dei limiti della locuzione "atti sessuali", nella quale sono state concentrate le ipotesi criminose previste dalla precedente normativa, individuando quale unica condotta composita, idonea a ledere il bene giuridico della libertà sessuale, in luogo della "congiunzione carnale" e degli "atti di libidine violenti", il fatto di chi con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità "costringe" taluno a compiete o a subire "atti sessuali".
Le posizioni della dottrina, di fronte al problema dell'individuazione del minimum di condotta penalmente rilevante perché resti integrato il delitto di violenza sessuale, possono ricondursi a tre principali orientamenti:

a) la tesi della maggiore ampiezza dell'espressione "atti sessuali" rispetto a quella di "atti di libidine", che ricomprende nella nuova categoria, perlomeno in astratto, qualsiasi atto che sia comunque riconducibile (quanto ai motivi che lo ispirano, alle modalità di realizzazione, alle finalità perseguite) alla sfera della sessualità umana;

b) l'opinione che tra gli atti di libidine e gli atti sessuali vi è invece una fondamentale identità concettuale e che l'art. 609 bis, unificando i precedenti reati di violenza carnale e di atti di libidine nella figura unitaria della violenza sessuale, abbia lasciato sostanzialmente intatto il limite inferiore della tutela della libertà sessuale, costituito appunto dagli atti di libidine;

c) l'indirizzo secondo il quale la nozione di "atti sessuali" deve essere intesa in senso restrittivo rispetto a quella comunemente accolta in relazione agli atti di libidine e deve essere condotta in termini necessariamente oggettivi, senza che possano avere rilievo, nell'individuazione della condotta penalmente rilevante, "né l'impulso del soggetto attivo del reato, né la potenziale suscettibilità erotica del soggetto passivo, ma piuttosto l'oggettiva natura sessuale dell'atto in sé considerato", individuata "rifacendosi alle scienze medico psicologiche ed ancor più a quelle antropologico-sociologiche". In tale prospettiva, per potere qualificare un atto come "atto sessuale", si richiede necessariamente "il contatto fisico tra una parte qualsiasi del corpo di una persona con una zona genitale, anale od orale del partner". Restano pertanto fuori dalla nozione mini a di atto sessuale quelle condotte che, per quanto possano costituire espressioni di un impulso concupiscente o possano essere rivolti ad eccitare o a soddisfare la concupiscenza, siano però privi di quella oggettiva componente strettamente fisica (e non moralistica) nel senso dianzi enunciato.

Nella giurisprudenza della Corte Suprema è stato affermato che:

- va ricondotto alla definizione di atto sessuale "ogni comportamento che, nell'ambito di un rapporto fisico interpersonale, sia manifestazione dell'intento di dare soddisfacimento all'istinto, collegato con i caratteri anatomico-genitali dell'individuo", facendone derivare "che la condotta deve consistere, quanto meno, in toccamenti di quelle parti del corpo altrui suscettibili di essere - nella normalità dei casi - oggetto dei prodromi diretti al conseguimento della piena eccitazione o dell'orgasmo".

- "la nozione di atti sessuali, a differenza di quella di atti di libidine violenti, è disancorata dall'indagine sul loro impatto nel contesto sociale e culturale in cui avviene, in quanto punto focale è la disponibilità della sfera sessuale da parte della persona che ne è titolare … l'aggettivo sessuale attiene al sesso dal punto di vista anatomico, fisiologico o funzionale, ma non limita la sua valenza ai puri aspetti genitali del rapporto interpersonale sicché deve includersi nella nozione di atti sessuali tutti quelli che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo e ad entrare nella sua sfera sessuale con modalità connotate dalla costrizione (violenza, minaccia o abuso di autorità), sostituzione ingannevole di persona ovvero abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica, sì da assumere un significato prevalentemente oggettivo e non soggettivo come, invece, avveniva per gli atti di libidine"

- l'antigiuridicità della condotta vietata dall'art. 609 bis cod. pen. resta connotata "da un requisito soggettivo (la finalizzazione all'insorgenza o all'appagamento di uno stato interiore psichico di desiderio sessuale) (che non va confuso con l'elemento soggettivo del rato, individuabile nel dolo generico) innestantesi sul requisito oggettivo della concreta e normale idoneità del comportamento a compromettere la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale e ad eccitare o a sfogare l'istinto sessuale del soggetto attivo".

- "il concetto attuale di atti sessuali è semplicemente la somma dei concetti previgenti di congiunzione carnale e atti di libidine, sicché esso non comprende anche quegli atti o comportamenti che, pur essendo espressione di istinto sessuale, non si risolvano in un contatto corporeo tra soggetto attivo e soggetto passivo o comunque non coinvolgano la corporeità sessuale di quest'ultimo … In tutti i casi, quindi, compiere o subire atti sessuali implica un coinvolgimento della corporeità sessuale della persona offesa".

Nel caso in esame,  tenuto conto della oggettiva componente strettamente fisica dei comportamenti posti in essere dall'imputato, concretatisi essenzialmente in palpamenti ripetuti del seno delle alunne, si rileva che gli episodi contestati  sono stati correttamente ricondotti alle previsioni sia dell'abrogato art. 521 sia del vigente art. 609 bis cod. pen., considerando pure che, in tutte le vicende in esame, gli atti sono stati posti in essere con modalità idonee a vincere la resistenza delle vittime mediante repentinità e imprevedibilità e

- sono in se stessi riconducibili alla sessualità umana;

- hanno fisicamente coinvolto, nella loro connotazione oggettiva, la corporeità sessuale delle persone offese;

- hanno compromesso la libertà di autodeterminazione delle giovani parti lese nella loro sfera sessuale.

Va ribadito altresì, in proposito, il principio secondo cui la "violenza" richiesta dalla norma incriminatrice non è soltanto quella che pone il soggetto passivo nell'impossibilità di opporre tutta la resistenza voluta, tanto da concretarsi in un vero e proprio costringimento fisico, bensì anche quella che può manifestarsi nel compimento insidiosamente rapido dell'azione criminosa, consentendo in tal modo di superare la contraria volontà del soggetto passivo.
Anche in tali casi, infatti, vi è "un'esplicazione di energia fisica diretta a superare la contraria volontà del soggetto nei cui confronti viene esercitata"; la repentinità insidiosa, anzi, viene scelta proprio allo scopo di sorprendere la vittima e vanificarne ogni possibilità di reazione, incidendo sul tempo necessario all'impostazione di una qualunque forma di difesa.

Per tali motivi il ricorso dell' imputato viene respinto.

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