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"PILLOLE" DI MEDICINA TELEMATICA
Patrocinate da - SIMG-Roma -
A. S. M. L. U. C. - eDott. it 

Periodico di aggiornamento medico e varie attualità
di: 
Daniele Zamperini, Raimondo Farinacci e Marcello Gennari
Iscrizione gratuita su richiesta. Archivio consultabile su: www. edott. it e su http://zamperini. tripod. com
Il nostro materiale è liberamente utilizzabile per uso
privato. Riproduzione riservata
.


Luglio - Agosto 2003

INDICE GENERALE

PILLOLE


APPROFONDIMENTI


MEDICINA LEGALE E NORMATIVA SANITARIA


Rubrica gestita da D. Z. per l'ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale Università Cattolica

PILLOLE


Alcool e tumori

Ricercatori dell'Istituto Nazionale di Pubblica Sanità della Danimarca hanno scoperto che bere grandi quantità di alcool può aumentare le probabilità di sviluppare un tumore rettale, anche se sembra che il vino sia meno pericoloso della birra o di altri alcolici. "Il rischio sembra ridotto - spiegano gli studiosi in un articolo apparso sulla rivista "Gut" - se il vino costituisce almeno un terzo del consumo settimanale di chi beve regolarmente alcool".
I soggetti che bevono solo birra o superalcolici, e non vino, presentano infatti una probabilità di sviluppare un tumore rettale 3,5 volte maggiore rispetto ai non bevitori. Secondo gli autori, questo effetto benefico del vino sarebbe dovuto al fatto che chi beve vino pratica uno stile di vita più salutare, ma potrebbe anche dipendere da qualche sostanza nell'uva in grado di proteggere dal cancro: una ricerca precedente aveva mostrato che una sostanza chimica, il resveratrol, presente nell'uva e nel vino, inibisce la crescita dei tumori.
Gli autori non hanno trovato nessun legame fra l'alcool e il tumore dell'intestino, e affermano che non è chiaro il motivo per cui l'alcool possa causare il cancro rettale ma non nel colon. Suggeriscono però che le bevande potrebbero essere contaminate con composti cancerogeni durante la produzione, oppure che bere possa danneggiare il fegato, inibendo la distruzione dei carcinogeni.
Le scoperte si basano su uno studio sulle abitudini di quasi 30.000 pazienti fra i 23 e i 95 anni di età. I ricercatori hanno preso in esame anche altri fattori di rischio per il tumore colorettale e hanno seguito i pazienti per quindici anni.

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Anoressia nervosa e geni

L'anoressia nervosa è un disturbo grave e a volte letale. È caratterizzata dall'ossessione per il dimagrimento, dalla paura di guadagnare peso e dall'emaciazione. Spesso comincia nelle ragazze durante l'adolescenza ed è comune nelle famiglie: al rischio di svilupparla possono contribuire fattori come il perfezionismo, l'ansia e l'ossessività.
Un team di medici, biologi e psicologi di diverse istituzioni (fra cui l'Università di Pittsburgh e l'Università della California di Los Angeles) è riuscito a identificare due geni di una regione sul braccio corto del cromosoma 1 che potrebbero contribuire al rischio di sviluppare l'anoressia nervosa. Confrontando pazienti affetti da anoressia con individui di controllo, gli autori dello studio hanno scoperto un'associazione statisticamente significativa fra polimorfismi di sequenza in questi due geni e la malattia, con un aumento del rischio di sviluppare l'anoressia nervosa negli individui che presentavano specifici alleli.
Per effettuare l'analisi dell'associazione dei geni, i ricercatori si sono concentrati su una regione del braccio corto del cromosoma 1. Studi precedenti, a opera degli stessi scienziati, avevano mostrato che era probabile che questa regione contenesse geni che contribuiscono all'anoressia nervosa nelle famiglie. I ricercatori hanno studiato diversi geni, usando informazioni posizionali e biologiche, fino a scegliere tre geni candidati per un'analisi più dettagliata. Analizzando polimorfismi di sequenza in campioni di DNA provenienti da famiglie con casi di anoressia e altri disturbi alimentari e da individui non affetti dal disturbo, hanno scoperto che due geni (HTR1D, che codifica per il recettore 1D della serotonina, e OPRD1, che codifica per il recettore oppioide delta) mostrano un'associazione statisticamente significativa con la malattia.

Lo studio è stato descritto in un articolo pubblicato sulla rivista "Molecular Psychiatry", Volume 8, numero 4, pp. 397-406 (2003)

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Anticorpi contro l'Alzheimer?

La malattia di Alzheimer (AD), la malattia di Parkinson (PD), il diabete di tipo 1 e la malattia indotta da prioni sembrano riconoscere nel deposito di amiloide un evento patogenetico fondamentale.
In questo lavoro i ricercatori hanno sintetizzato una molecola con una struttura tridimensionale simile a quella della b-amiloide solubile, causa verosimile della AD.
Quindi hanno indotto la produzione di anticorpi contro questa molecola.
Gli anticorpi hanno dimostrato uno spiccato tropismo per la frazione solubile della b-amiloide, mentre non si legavano alla amiloide stabilizzata in fibrille e placche.
Gli anticorpi si legavano inoltre alla amilode caratteristica della PD, del diabete tipo 1 e della malattia da prioni.
In sezioni cerebrali ottenute da autopsie di pazienti con AD si è visto che gli anticorpi si legavano alle parti cerebrali più colpite da AD ma non si legavano a sezioni cerebrali ottenute da individui normali.
Siamo ancora ad uno stadio molto precoce della ricerca, per cui è troppo presto per ipotizzare eventuali teraspie sull'uomo. Sono attesi con interesse i prossimi risultati in esperimenti con animali.

Kayed r et al
Common structure of soluble amyloid oligomers implies common mechanism of pathogenesis
Science 2003 Apr 18; 300-486-9

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Corticosteroidi e Beta-agonisti per la COPD?

I pazienti affetti da sindrome ostruttiva cronica polmonare (COPD) possono giovarsi del trattamento con beta-agonisti.
In questo studio si cerca di capire il ruolo possibile dei corticosteroidi in questa patologia.
Sono stati randomizzati 1465 pazienti affetti da COPD. I gruppi di trattamento ricevevano rispettivamente 50 mg di salmeterolo due volte al giorno, 500 mg di fluticasone due volte al giorno, entrambi i farmaci e nessuno dei due farmaci ma solo placebo.
Ogni paziente presentava inizialmente una FEV1 non reversibile che risultava dal 25% al 70% di quella teorica.
Dopo un anno di trattamento la FEV1 era diminuita del 3% nel gruppo placebo ma aumentata del 2% in entrambi i gruppi trattati con monoterapia e del 10% nel gruppo di terapia combinata.
Le differenze apparvero significative.
La terapia combinata produsse un notevole miglioramento nello stato di salute e nei sintomi rispetto agli altri trattamenti, anche se non tutti i confronti tra i vari parametri raggiunsero la significatività statistica

Calverley P et al
Combinated salmeterol and fluticasone in the tratment of chronic obstructive pulmonary disease: a radomised controlled trial
Lancet 2003 feb 8; 361: 449-56

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La sintomatologia depressiva differenzia i sottogruppi di pazienti con disordini affettivi stagionali

I pazienti con disturbi affettivi stagionali (SAD, Seasonal Affective Disorder) possono presentare variazioni nella sintomatologia del loro umore depresso durante l'inverno.
Identificare le differenze nel corso della depressione può essere utile per predire le differenze di efficacia dei vari trattamenti.
Sono stati studiati 165 pazienti con disturbi bipolari (I, II) o disturbi depressivi maggiori, entrambi con caratteristiche stagionali, con l'obiettivo di delineare i profili sintomatologici.
La variazione è stata fatta mediante la scala SIGH-SAD (Structured Interview Guide for the Hamilton Depression Rating Scale - Seasonal Affective Disorder).
I pazienti con disturbi bipolari (I e II) sono risultati più depressi (maggiore punteggio alla scala SIGH-SAD) ed hanno mostrato più agitazione psicomotoria e sospensione sociale rispetto ai pazienti con disturbi depressivi maggiori.
I pazienti bipolari I presentavano più ritardo psicomotorio, insonnia tardiva e sospensione sociale rispetto ai pazienti bipolari II.
Gli uomini hanno mostrato più ossessione-compulsione ed idee suicidarie rispetto alle donne, mentre le donne hanno mostrato un maggior guadagno di peso ed insonnia precoce.
I pazienti con occhi più scuri sono risultati significativamente più depressi ed affaticati rispetto ai pazienti con occhi chiari.
I pazienti single, separati hanno presentato più ipocondriasi rispetto ai pazienti sposati.
I pazienti con occupazione hanno mostrato più sintomi atipici rispetto ai pazienti senza occupazione.

Depress Anxiety 2002; 15:34-41

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Disfunzione intestinale dopo chirurgia laparoscopica antireflusso

I Ricercatori del Dipartimento di Chirurgia della Mayo Clinic a Jacksonville (USA) hanno valutato l'incidenza, la gravità ad il decorso clinico della disfunzione intestinale postoperatoria, principalmente diarrea, dopo chirurgia laparoscopica antireflusso.
Dei 109 pazienti sottoposti a chirurgia laparoscopica antireflusso, il 77% (n=84) ha completato l'indagine.
Il 43% (n=36) non ha presentato disfunzione intestinale prima o dopo chirurgia, mentre il 35% (n=29) aveva una preesistente disfunzione intestinale. Nuovi sintomi intestinali si sono sviluppati dopo l'intervento chirurgico nel 36% (n=30) dei pazienti, comprendendo: gonfiore (19%; n=16) e diarrea (18%; n=15)
Nei 2/3 dei pazienti con diarrea di nuova insorgenza, questa si è presentata entro 6 settimane dall'intervento.
La diarrea variava per gravità da lieve a debilitante. In 4 casi si è avuta incontinenza fecale.
Nell'86,7% (13/15) dei pazienti con diarrea, i sintomi sono perdurati per 2 anni o più dopo l'intervento chirurgico.
La disfunzione intestinale postoperatoria, principalmente diarrea, rappresenta un importante effetto indesiderato della chirurgia antireflusso.

Am J Med 2003; 114:6-9

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Extrasistoli ventricolari dopo la prova da sforzo: mortalità aumentata

Durante un periodo di 10 anni, gli autori hanno eseguito test da sforzo su circa 30,000 adulti.
Si sono verificati episodi di extrasistolia ventricolare frequente (7 o più extrasistoli ventricolari al minuto, bigeminismo, trigeminismo, coppie o triplette e tachicardia ventricolare) solo durante l'esercizio nel 3% dei pazienti, solo durante i primi 3 minuti dopo l'esercizio nel 2% dei pazienti e durante entrambi i periodi nel 2% dei pazienti. Durante un follow-up medio di 5 anni si ebbe il decesso del 6% dei pazienti.
Aggiustando i dati per variabili potenzialmente confondenti, le extrasistoli ventricolari dopo l'esercizio risultarono associate con un rischio significativamente aumentato di decesso (rapporto di rischio 1,5) mentre nessuna associazione venne rilevata per l'extrasistolia durante l'esercizio.
La correlazione tra extrasistolia ventricolare dopo esercizio e morte venne rilevata sia in pazienti con normale funzione sistolica che in pazienti con funzione sistolica alterata.

Frolkis JP et al
Frequent ventricular ectopy after exercise as a predictor of death
N Engl J Med 2003 Feb 27; 348: 781-90

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JAMA e l'obesità

Numero speciale della rivista JAMA dedicato all'obesità. Molti report interessanti.
Una ricerca su 50.277 donne ha dimostrato che un incremento giornaliero di 2 ore nel tempo dedicato alla televisione è associato con un incremento del 23% del rischio di diventare obese. Un incremento giornaliero di 1 ora nel tempo impiegato in passeggiate a passo svelto si associa con un decremento del rischio del 24%.
Un trial randomizzato controllato e multicentrico ha dimostrato che un programma commerciale per perdere perso consistente in un programma dietetico e di esercizio fisico e un programma di modificazione delle abitudini instaurato mediante incontri settimanali ha prodotto una perdita di peso statisticamente significativa, ma clinicamente modesta, a paragone di un programma autogestito (perdita di peso media dopo due anni: 2,9 kg contro 0,2). (studio sponsorizzato da Weight Watchers International).
In uno studio su 106 bambini e adolescenti obesi (5-18 anni; BMI medio 34,7), si è visto che i bambini obesi avevano una qualità di vita molto inferiore rispetto ai bambini non obesi.
La qualità di vita dei bambini obesi è risultata paragonabile a quella dei bambini affetti da tumore.
Trial randomizzato e controllato per accertare l'efficacia della zonisamide, farmaco antiepilettico serotoninergico e dopaminergico. Sono stati reclutati 60 soggetti obesi e trattati per 16 settimane.
Con un piano dietetico personalizzato e un dosaggio di 100-600 mg di farmaco contro placebo si è avuta una perdita di peso nel gruppo di trattamento in media di 5,9 kg a paragone di 0,9 kg del gruppo di controllo.
Metanalisi di 107 studi sulla dieta a basso contenuto di carboidrati, tipo quella proposta dal dott Robert Atkins. Non si sono raggiunte conclusioni sui rischi e benefici poiché i metodi impiegati negli studi erano troppo eterogenei (assunzione di carboidrati giornaliera 0- 901 g; assunzione di calorie totali giornaliere 525-4629, durata 4-365 giorni).

Hu FB et al
Television watching and other sedentary behaviors in relation to risk of obesity and type 2 diabetes mellitus in women
JAMA 2003 Apr 9; 289: 1785-91

Heshka S et al
Weight loss with self-help compared with a structured commercial program: a randomized trial
JAMA 2003 apr 9; 289: 1792-8

Schwimmer JB et al
Health-related quality of life of severely obese children and adolescents
JAMA 2003 apr 9; 289: 1813-9

Gadde KM et al
Zonisamide for weight loss in obese adults: A randomized controlled trial
JAMA 2003 apr 9; 289:1820-5

Bravata DM et al
Efficacy and safety of low-carboidrate diets: a systematic review
JAMA 2003 Apr 9; 289: 1837-50

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Le mutazioni nel gene dell'emocromatosi sono associate ad un aumento del rischio di carcinoma del colon

Il ferro è un pro-ossidante che può promuovere la carcinogenesi.
Le mutazioni nel gene dell'emocromatosi sono associate ad un aumento dei depositi di ferro nell'organismo.
I Ricercatori dell'University of North Carolina hanno valutato il rischio di carcinoma del colon negli individui con o senza mutazioni nel gene dell'emocromatosi.
Un totale di 1.308 soggetti hanno partecipato allo studio, di cui 833 hanno costituito il gruppo controllo, mentre 475 erano pazienti con tumore al colon.
La frequenza allelica delle mutazioni H63D e C282Y è risultata maggiore nel gruppo dei pazienti (0,11 e 0,046, rispettivamente) rispetto al gruppo controllo (0,09 e 0,044, rispettivamente).
Le persone con mutazioni del gene dell'emocromatosi avevano una maggiore probabilità di presentare un carcinoma del colon rispetto ai soggetti senza mutazioni.
L'incidenza è risultata simile per le diverse mutazioni.
Tra coloro che avevano mutazioni del gene dell'emocromatosi, il rischio di tumore aumentava con l'aumentare dell'età e dell'apporto di ferro.

J Natl Cancer Inst 2003; 95: 154-159

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La lumpectomia è efficace quanto la mastectomia nel carcinoma mammario

I Ricercatori dell'Università di Pittsburgh (USA) hanno studiato 1851 donne con tumori mammari fino a 4 cm di diametro.
In più di 1/3 dei casi il tumore si era diffuso ai linfonodi ascellari.
Le pazienti sono state assegnate in modo random ad uno di 3 trattamenti: mastectomia, lumpectomia, lumpectomia seguita da radiazione.
Il periodo di follow-up è stato di 20 anni.
L'incidenza cumulativa di tumore recidivante della mammella ipsilaterale è stata del 14,3% nelle donne sottoposte a lumpectomia ed irradiazione mammaria e del 39,2% nelle donne sottoposte a lumpectomia senza irradiazione (p<0,001).
Nessuna significativa differenza è stata osservata riguardo alla sopravvivenza.
Il rapporto di rischio (hazard ratio, HR) di morte per le donne sottoposte alla sola lumpectomia rispetto alla mastectomia totale è risultato 1,05 (CI: 0,90-1,23; p=0,51); l'HR di morte per le donne sottoposte alla lumpectomia seguita da irradiazione della mammella rispetto alla mastectomia totale è risultato 0,97 (CI: 0,83-1,14; p=0,74).
Il rapporto di rischio di morte tra le donne sottoposte ad irradiazione della mammella postoperatoria e quelle sottoposte alla sola lumpectomia è risultato 0,91 (CI: 0,77-1,06; p=0,23).
Secondo questo studio la lumpectomia seguita da irradiazione può essere considerata un'appropriata terapia per le donne con carcinoma della mammella.

N Engl J Med 2002; 347: 1233-1241

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Scoperta nuova causa di distrofia muscolare

Come ben sanno i bodybuilder e tutti coloro che si allenano in palestra, l'esercizio fisico provoca strappi nella membrana muscolare e il processo di guarigione produce una maggiore quantità di muscoli sani. Ovviamente è implicito il fatto che negli individui sani la riparazione dei muscoli sia un processo efficiente e continuo. Tuttavia, si tratta di un meccanismo mai stato del tutto compreso. Una ricerca di scienziati dell'Università dello Iowa su due tipi di distrofia muscolare ha ora identificato una proteina che svolge un ruolo cruciale nel processo di riparazione.
La proteina, chiamata disferlina, presenta mutazioni nei pazienti di due distinti tipi di distrofia muscolare, noti come miopatia di Miyoshi e distrofia muscolare dei cingoli tipo 2b. Lo studio suggerisce che, in queste malattie, la caratteristica degenerazione muscolare progressiva sia dovuta a un meccanismo difettoso di riparazione dei muscoli più che a una debolezza intrinseca nell'integrità strutturale del muscolo. I risultati della ricerca, pubblicati sul numero dell'8 maggio della rivista "Nature", rivelano pertanto una causa cellulare di distrofia muscolare totalmente nuova e potrebbero guidare verso nuove scoperte sulla normale funzionalità dei muscoli e verso terapie per questi disturbi.
Il gruppo di ricercatori, guidato dal fisiologo e neurologo Kevin Campbell, ha studiato le conseguenze molecolari della perdita di disferlina, scoprendo che senza la proteina i muscoli non sono in grado di curare se stessi.
Dopo aver alterato geneticamente alcuni topi in modo da privarli del gene per la disferlina, gli scienziati hanno osservato i topi sviluppare un tipo di distrofia muscolare. Eppure, i test hanno rivelato che i muscoli dei topi privi di disferlina non erano più suscettibili a danni di quelli dei topi normali. Questo contrasta con la maggior parte delle distrofie muscolari note, dove le mutazioni genetiche indeboliscono le membrane muscolari e rendono i muscoli più a rischio di essere danneggiati.

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L'ormone paratiroideo nel trattamento dell'osteoporosi

Nessuna terapia è attualmente in grado di prevenire completamente il rischio di fratture nei soggetti con osteoporosi.
Una ricerca attraverso MEDLINE ed il Cochrane Database ha permesso di individuare studi clinici che hanno valutato l'effetto dell'ormone paratiroideo nel trattamento dell'osteoporosi.
Da questa ricerca è emerso che i dosaggi dell'ormone paratiroideo (generalmente somministrato per via sottocutanea) variava tra i 50 ed i 100 microg/die.
I risultati degli studi clinici di maggiori dimensioni (fino a 1.637 pazienti) sono stati discordanti.
Un aumento della densità minerale ossea della colonna vertebrale è stato osservata dopo somministrazione dell'ormone paratiroideo nell'osteoporosi indotta dai glucocorticoidi e nell'osteoporosi idiopatica.
L'ormone paratiroideo ha dimostrato di proteggere contro la perdita ossea associata agli agonisti dell'ormone rilasciante la gonadotropina.
L'incidenza di fratture della colonna vertebrale, rivelate mediante radiografia, è risultata ridotta dopo somministrazione dell'ormone paratiroideo.
Tuttavia l'ormone paratiroideo tende a ridurre la densità ossea del radio.
L'ipercalcemia associata all'impiego dell'ormone paratiroideo è risultata dose dipendente, e spesso si è manifestata precocemente.
Non è stato osservato un aumento del rischio di tumori tra i soggetti trattati con l'ormone paratiroideo.
Non è nota la sicurezza nel lungo periodo della somministrazione dell'ormone paratiroideo e la sua efficacia sulle fratture non vertebrali.

Arch Intern Med 2002; 162: 2297-2309

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Piccola proteina capace di inibire l'apoptosi

Ricercatori del Burnham Institute hanno scoperto che l'umanina, una piccola proteina comprendente 24 amminoacidi recentemente scoperta nel corso di studi sul morbo di Alzheimer, sopprime l'attività della proteina Bax. Quest'ultima innesca la morte cellulare patologica in un gran numero di malattie, compreso il morbo di Parkinson e la degenerazione delle ovaie durante la menopausa.
Questi risultati, che saranno pubblicati in futuro sulla rivista "Nature", suggeriscono lo sviluppo di una nuova terapia basata sull'inibizione dell'attività di distruzione cellulare della Bax.
La proteina Bax è nota per attivare l'apoptosi, il programma di morte cellulare latente in tutte le cellule. Agisce attaccando la sorgente di energia della cellula, il mitocondrio, provocando così il suicidio della cellula. L'apoptosi è importante per il normale sviluppo e per mantenere l'equilibrio cellulare. Molte malattie sono collegate al malfunzionamento di questo sistema: un eccesso di morte cellulare è associata con i disturbi degenerativi del sistema nervoso, il colpo apoplettico e l'attacco di cuore; l'incapacità di attivare il programma è invece una delle caratteristiche dei tumori.
John C. Reed e colleghi hanno identificato l'umanina come una proteina che interagisce con la Bax. Hanno scoperto che l'umanina si lega alla Bax, impedendole di attaccare il mitocondrio e bloccando la sua capacità di causare la morte cellulare. "I nostri risultati - spiega Reed - dimostrano che Bax è il bersaglio dell'umanina, e suggeriscono almeno tre nuovi modi di progettare terapie per prevenire o di arrestare le malattie associate all'attivazione di Bax".

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Psicofarmaci e rischio fratture

I Ricercatori dello Study of Osteoporotic Fractures Research si sono posti l'obiettivo di verificare se l'impiego dei farmaci attivi sul Sistema Nervoso Centrale (benzodiazepine, antidepressivi, anticonvulsivanti e narcotici) potesse aumentare il rischio di fratture nelle donne anziane.
Lo studio è stato condotto su 8.127 donne anziane.
Durante un periodo di follow-up medio di 4,8 anni, 1256 donne (15%) sono andate incontro ad almeno una frattura non vertebrale, tra cui 288 (4%) con prima frattura dell'anca.
Le donne che facevano uso di narcotici o di antidepressivi hanno presentato un maggiore rischio di subire fratture non vertebrali.
Le donne che assumevano antidepressivi triciclici o SSRI (inibitori del reuptake della serotonina) hanno presentato una similare incidenza di fratture.
Non è stata, invece, osservata alcuna associazione tra uso di benzodiazepine o di farmaci anticonvulsivanti e rischio di fratture non vertebrali.
Le donne che fanno uso di farmaci antidepressivi rispetto a quelle che non ne assumono presentano un aumento del rischio di fratture all'anca di 1,7 volte.

Arch Intern Med 2003; 163:949-957

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SARS: un riepilogo dei lavori dal NEJM e Lancet

La SARS (Severe Acute Respiratory Sindrome) è comparsa alla fine del 2002 nel sud della Cina, nella provincia di Guandong. Alla data del 14 aprile 2003 sono stati riportati in tutto il mondo 3169 casi con 144 decessi, e il numero è andato poi progressivamente aumentando.
Il periodo di incubazione è di variabile da 1 a 16 giorni (media 5 giorni). La maggior parte dei casi di contagio sono dovuti a stretto contatto con pazienti affetti dalla sindrome, benché alcuni casi si siano verificati solo dopo contatto occasionale.
I sintomi d'esordio sono costituiti da febbre, (100% dei pazienti) e malessere generale (70% dei pazienti), seguiti da tosse non produttiva (quasi 100% dei pazienti) e dispnea (80% dei pazienti).
Brividi, cefalea e rigor nucale sono comuni; in meno del 25% dei casi si osserva mal di gola e rinorrea.
All'esame obiettivo si evidenziano rumori secchi basali e ipofonesi.
L'esame del sangue evidenzia linfopenia, trombocitopenia, leucopenia e livelli elevati di LDH, ALT, AST, e CPK. In metà dei pazienti si osserva ridotta saturazione di ossigeno.
L'esame radiologico del torace evidenzia opacità polmonari che aumentno in dimensione con il passare dei giorni, particolarmente a carico dei lobi inferiori. Non sono stati osservati versamenti pleurici. La biopsia del tessuto polmonare mette in luce una polmonite interstiziale.
La causa più comune di SARS è un Coronavirus, che è diverso da quello che causa il raffreddore comune. In circa la metà dei pazienti affetti da SARS è stata dimostrata la presenza di questo virus nei campioni nasofarigei, riscontro che non è stato confermato in nessuno di altri 40 pazienti affetti da altri tipi di sindrome respiratoria.
In 32 pazienti fu ottenuto un secondo campione di siero per la titolazione delle immunoglobuline e in tutti si dimostrò la presenza di alti titoli anticorpali contro il coronavirus. In nessuno di altri 80 campioni di siero di pazienti affetti da patologie varie (anche polmonari) e 200 campioni di siero provenienti da donatori furono rilevati anticorpi contro il coronavirus.
L'RNA virale fu evidenziato anche in 10 su 18 campioni fecali ottenuti da pazienti con SARS.
Il coronavisur inoltre produsse nella scimmia una malattia simile alla SARS. L'intero menoma del Coronavirus è stato sequenziato.
Parecchi gruppi di ricerca hanno pubblicato lavori di trattamento con ribavirina (trial non controllati e non randomizzati), steroidi o oseltamivir. In uno di questi lavori si afferma che il ritardo nell'inizio del trattamento è associato con prognosi peggiore e afferma che il trattamento deve essere iniziato entrio i primi 8 giorni dall'inizio dei sintomi.

Una rassegna degli articoli pubblicati:
Poutanen SM et al
Identification of severe acute respiratory syndrome in Canada
N Engl J Med 2003 Mar 31

Tsang KW et al
A cluster of cases of severe acute respiratory syndrome in Hong Kong
N engl J Med 2003 Mar 31

Drazen JM
Case Clusters of the severe acute respiratory syndrome
N Engl J Med 2003 Mar 31

Lee N et al
A Major outbreak of severe acute respiratory syndrome in Hong Kong
N engl J Med 2003 apr 7

Peiris JSM et al
Coronavirus ad a possible cause of severe acute respiratory syndrome
Lancet 2003 apr 8

Falsey AR and Walsh EE
Novel Coronavirus and severe acute respiratory syndrome
Lancet 2003 apr 8

Ksiazek TG et al
A novel coronavirus associated with severe acute respiratory syndrome
N engl J Med 2003 Apr 10

Drosten C et al
Identification of a novel coronavirus in patients with severe acute respiratory syndrome
N engl J Med 2003 Apr 10

Altman LK
Health group certain of agnet in respiratory ailment
New York times 2003 Apr 17

Tutti questi lavori sono direttamente consultabili via internet ai siti delle rispettive riviste

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Spalla congelata (Capsulite adesiva): quale è il miglior trattamento?

La capsulite adesiva (spalla congelata) è una patologia a carico della articolazione gleno-omerale caratterizzata da dolore e limitazioni al movimento.
In questo lavoro viene paragonata l'efficacia di iniezioni di corticosteroidi con la fisioterapia (varie combinazioni di stimolazioni elettriche transcutanee, ultrasuoni, mobilizzazioni, esercizi e applicazioni di ghiaccio) in 93 pazienti affetti da Capsulite adesiva.
I pazienti vennero randomizzati per essere trattati con uno dei seguenti trattamenti: iniezione singola di corticosteroidi in sede glenoomerale con guida fluoroscopica, 12 sessioni fisioterapeutiche più una singola iniezione di placebo, entrambi i trattamenti, solo placebo.
A tutti i pazienti vennero suggeriti esercizi semplici da eseguirsi a domicilio per 10 minuti al giorno.
A 6 settimane tutti i gruppi riportarono un miglioramento su una scala di autovalutazione che valutava il dolore e la inabilità, ma il miglioramento fu significativamente maggiore nel gruppo di terapia combinata rispetto a quello con una sola infiltrazione, anche se la differenza non risultò statisticamente significativa. Durante un anno di follow-up le differenze tra i 4 gruppi progressivamente svanirono.
La infiltrazione steroidea, quindi, soprattutto in combinazione con la fisioterapia, è efficace in questo tipo di pazienti. La sola fisioterapia non è risultata significativamente migliore dell'astensione al trattamento.
La serie di esercizi giornalieri prescritti a tutti i gruppi sembra giocare un ruolo particolare, dato che molti pazienti, anche del gruppo placebo, sono migliorati solo con gli esercizi.

Carette S et al
Intrarticular corticosteroid, supervised physioterapy, or a cpombination of the two in the treatment of adhesive capsulitis of the shoulder: A placevbo-controlled trial
Arthritis Rheum 2003 Mar; 48: 829-38

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Statine per i pazienti ipertesi con colesterolo normale (ASCOT-LLA)

Lo studio ASCOT-LLA (Anglo-Scandinavian Cardiac Outcomes Trial - Lipid Lowering Arm) è un trial randomizzato e multicentrico progettato per valutare gli effetti di prevenzione cardiovascolare delle statine in pazienti ipertesi con livelli di colesterolo nella media o sotto la media.
Furono arruolati più di 10.000 pazienti ipertesi (età da 40 a 70 anni) che presentavano una media di 4 fattori di rischio oltre allo stato ipertensivo e che non avevano dati anamnestici di coronaropatie.
Questi pazienti furono randomizzati per ricevere oltre al trattamento antiipertensivo, atorvastatina (10 mg/die) o placebo.
La concentrazione basale di colesterolo risultò minore o uguale a 251 mg/dL (6,5 mmol/L); il valore medio risultò di 213 mg/dL (5,.5 mmol/L).
L'endpoint primario era rappresentato da infarto miocardio non fatale e morte per cardiopatia coronaria. Lo studio venne arrestato dopo 3,3 anni poiché nel gruppo trattato con atorvastatina si ebbe un numero significativamente ridotto di eventi rispetto al gruppo di controllo (100 contro 154; rapporto di rischio del 0,64%, riduzione del 36%).
Il gruppo trattato con atorvastatina andò incontro ad un numero significativamente inferiore di casi di ictus (89 contro 121, riduzione del 27%) di eventi totali cardiovascolari (389 contro 486) e eventi totali coronarici (178 contro 247).
Dopo 3 anni la concentrazione di colesterolo nel siero fu di 43 mg/dL inferiore nel gruppo trattato rispetto al gruppo placebo.
Non bisogna farsi trascinare troppo dalle valutazioni percentuali: tradotto in termini numerici assoluti si può dire che la terapia con atorvastatina riduce l'incidenza di malattia cardiovascolare di 3.4 eventi cardiovascolari maggiori ogni 1000 pazienti per anno e di 2 ictus ogni 100 pz/anno.

Sever PS et al
Prevention of coronary and stroke events with atorvastatin in hypertensive patients who have average or lower-than-average cholesterol concentrations, in the anglo-scandinavian cardiac Outcomes trial - Lipid Lowering Arm /ASCOT-LLA): A multicentre randomised controlled trial
Lancet 2003 apr 5; 361: 1144-5

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Terapia genica nella vasculopatia arteriosa periferica

In questo studio, ricercatori cinesi hanno impiegato un plasmide eucariotico caricato con il gene VEGF165 responsabile della sintesi del fattore di crescita dell'endotelio vascolare.
Il plasmide fu iniettato per via intramuscolare nei polpacci di 21 pazienti (età media 65, arti trattati in totale 24) che presentavano dolore a riposo o ulcerazioni che non guarivano con la normale terapia medica e che non potevano essere trattati chirurgicamente.
Furono somministrate due dosi al mese (400-2000 mg).
All'inizio del trattamento in 4 arti si evidenziava un inizio di gangrena.
A quattro settimane della somministrazione della seconda iniezione, l'indice polpaccio/braccio era significativamente migliorato (da 0,58 a 0,72).
L'angiografia mediante risonanza magnetica, eseguita in cieco, mostrò un miglioramento del flusso distale nei vasoi collaterali di 19 arti; il dolore a riposo scomparve completamente da 12 arti e le ulcere ischemiche guarirono in 6 arti.
Non fu rilevato effetto collaterale importante.
Occorrono altri studi per ben definire le modalità di impiego di questa nuova terapia, ma i dati preliminari sono certamente promettenti...

Shyu K-G et al
Intramuscular vascular endothelial growth factore gene therapy in patients with chronic critical leg ischemia
Am J Med 2003 Feb 1; 114: 85-92

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Trattare l'ipertensione nel paziente diabetico di tipo 2

La rivista Ann Intern Med pubblica nello stesso numero un trial randomizzato, una rivista delle evidenze disponibili e delle linee guida per il trattamento della condizione ipertensiva nel paziente diabetico.
Nel trail randomizzato i ricercatori hanno paragonato irbesartan, amlodipina e placebo.
Tutti i pazienti presentavano valori pressori maggiori di 135/85 ed erano trattati con antiipertensivi o presentavano proteinuria (900 mg die o più) e livelli alti di creatinina (da 1-1,2 mg dl a 3 mg/dl).
Alla fine dello studio, i pazienti in ogni gruppo erano trattati in media con 3 farmaci antiipertensivi e questo fatto ha invalidato la possibilità di valutare l'effetto del trattamento contro l'assenza del trattamento.
Il confronto degli end points (morte cardiovascolare, infarto miocardio, scompenso cardiaco, ictus e procedure di rivascolarizzazione non previste) nei differenti regimi terapeutici non ha mostrato differenze significative dopo un follow-up medio di 2.6 anni.
Il trattamento con irbesartan, tuttavia ha mostrato una significativa riduzione dei casi di scompenso cardiaco rispetto al placebo o all'amlodipina, ma anche un trend non significativo verso un maggior rischio di infarto miocardio.
A paragone del placebo è stato dimostrato un effetto protettivo dell'amlodipina rispetto all'infarto miocardico.
Nello stesso numero della rivista viene riportata una revisione di tre lavori concernenti il trattamento dell'ipertensione in corso di malattia diabetica.
In tutti e tre i trial si ebbe una riduzione di eventi cardiovascolari nei pazienti trattati per ipertensione. I benefici ottenuti furono tanto maggiori quanto maggior fu il controllo sullo stato ipertensivo. Anche in questo caso i risultati furono contrastanti per quanto riguardava il farmaco da preferire.
Le linee guida redatte da un comitato dell'American College of Physician raccomandano che l'ipertensione in corso di diabete sia trattata in modo da ottenere un valore pressorio di 135/80 mm Hg.
Come farmaci di prima scelta vengono raccomandati diuretici tiazidici e ACE inibitori.
Due autori delle linee guida raccomandano l'impiego dei farmaci inibitori del recettore dell'angiotensina, sulla base degli effetti positivi sul rene dimostrati.

Berl T et al
Cardiovascular outcomes in the Irbesartan Diabetic Nephropaty trial of patients with type 2 diabetes and overt nephropathy
Ann Intern Med 2003 Apr 1; 138-542-9

Snow V et alTthe evidence base for tight blood pressure control in the management of type 2 diabetes mellitus
Ann Intern Med 2003 Apr 1; 138-587-92

Vijian S and Hayward RA
Treatment of Hypertension in type 2 diabetes mellitus: Blood pressure goals, choice of agents, and setting priorities in diabetes care
Ann Intern Med 2003 Apr 1; 138-593-602

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Un virus contro il Glioma?

La chirurgia, la chemioterapia e le radiazioni rallentano a malapena la progressione del glioma maligno, un tumore del cervello estremamente rapido e aggressivo. Per la prima volta, tuttavia, alcuni ricercatori sono riusciti a curare completamente topi che presentavano la malattia, usando un virus modificato.
Nell'ultimo decennio, gli scienziati hanno messo a punto molte terapie anti-cancro basate sui virus. Fino a oggi, però, nessuna cura si è rivelata promettente contro il glioma.
La nuova terapia ha come bersaglio una proteina chiamata retinoblastoma. Quasi tutte le forme di glioma presentano una forma difettosa della proteina, che normalmente contribuisce a regolare la crescita cellulare. Nel 2000, il neurologo Juan Fueyo del M.D. Anderson Cancer Center dell'Università del Texas di Houston aveva modificato geneticamente un virus chiamato Delta-24 affinché si riproducesse solo nelle cellule con il retinoblastoma difettoso. Questo trattamento era però in grado di uccidere le cellule del glioma solo in una piccola percentuale dei topi infetti.
Immaginando che il virus sarebbe stato più efficace se fosse stato in grado di agganciarsi meglio alle cellule del glioma, Fueyo e colleghi dell'Istituto Catalano di Oncologia di Barcellona, in Spagna, e dell'Università dell'Alabama, negli Stati Uniti, hanno aggiunto del DNA per dare al virus la capacità di connettersi alle molecole sulla superficie delle cellule del tumore.
Un gruppo di topi, cui era stato impiantato glioma umano, è stato trattato con il nuovo virus, chiamato Delta-24-RGD, un'altro gruppo con il vecchio Delta-24 e un terzo gruppo con placebo. Più del 60 per cento dei topi curati con Delta-24-RGD sono sopravvissuti e alla fine dell'esperimento, durato quattro mesi, il loro cervello non mostrava segni di tumori né del virus. Inoltre i topi mangiavano, dormivano e interagivano normalmente, segno che tolleravano bene il trattamento virale. In confronto, solo il 15 per cento dei topi trattati con il Delta-24 sono guariti, e quelli del gruppo di controllo sono morti tutti entro tre settimane.
La ricerca è stata descritta in un articolo pubblicato sul numero del 7 maggio della rivista "Journal of the National Cancer Institute".

www.lescienze.it

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Warfarin a basse dosi per la Trombosi Venosa Profonda (TVP) Idiopatica Ricorrente e per l'Embolia Polmonare (PE)

Dopo aver completato il ciclo di terapia anticoagulante con warfarin della durata variabile di 3-12 mesi i pazienti affetti da TVP idiomatica ricorrente o EP sono a rischio aumentato di recidive. D'altro canto il mantenimento di questi pazienti in terapia anticoagulante per un periodo indefinito aumenta concretamente il rischio di emorragia.
Sul NEJM sono recentemente comparsi due articoli che si propongono di accertare se una terapia cronica con dosaggi più bassi può evitare complicazioni trombotiche e rischi emorragici.
Nel primo studio sono stati arruolati 508 pazienti con TVP idiomatica o PE. essi furono trattati con dose ottimale di warfarin (INR: 2-3) per una media di 6 mesi prima dell'arruolamento.
I pazienti in seguito furono randomizzati per ricevere un trattamento con warfarin a basse dosi (INR 1.5-2) o placebo.
Dopo un periodo di follow-up medio di 2.1 anni si ebbero 14 recidive su 255 pazienti trattati con warfarin e 37 su 253 pazienti trattati con placebo. La differenza risultò significativa.
Benché episodi di sanguinamento minori fossero risultati più comuni nel gruppo di trattamento, non si ebbero differenze per quello che riguardava il numero di sanguinamenti maggiori.
Si verificarono 4 decessi nel gruppo di trattamento e 8 nel gruppo placebo.
Il beneficio del trattamento con warfarin fu simile tra i pazienti con trobofilia ereditaria e quelli senza anomalie trombofiliche accertate.

Ridker PM et al
Long-term, low-intensity warfarin therapy for the prevention of recurrent venous thromboembolism
N Engl J Med 2003 apr 10; 348: 1425-34

Schafer AI
Warfarin for venous thromboembolism - Walking the dosing tightrope
N engl J Med 2003 apr 10; 348: 1478-80

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APPROFONDIMENTI


Intervista a un medico di base svedese

(Contributo di Stefano Ruggieri)

Ho il piacere d'intervistare per "Pillole" un medico svedese con decennale esperienza nella medicina di base e che cortesemente ci illustrerà il sistema svedese per quel che concerne la medicina di base.

D) Innanzitutto andiamo alle presentazioni qual è il tuo titolo professionale?

R) Mi chiamo Halvarsson Ann Sofie e sono medico con specializzazione in medicina generale.

D) Esiste una specializzazione in medicina generale?

R) Sì qui tutti i medici di base hanno una tale specializzazione che dura 5 anni ed è equiparata a tutte le altre specializzazioni.

D) Com'è strutturata la medicina di base in Svezia?

R) I medici di base di una zona sono raggruppati in un ambulatorio centralizzato di proprietà della Provincia ed i medici sono impiegati della provincia stessa. Responsabile amministrativo dell'ambulatorio è in genere un medico ma può essere anche un infermiera professionale affiancata in questo caso da un medico responsabile della parte medica. L'infermiera è una figura di rilievo nel sistema sanitario svedese. Nell'ambulatorio di medicina generale hanno il compito di selezionare i casi più urgenti tramite una previsita ed hanno possibilità di prescrivere alcuni prodotti (anticoncezionali, creme cortisoniche ecc.).

D) Che tipo di contratto ha il medico di base in Svezia?

R) In questo momento abbiamo avuto una riforma che introduce la possibilità per il paziente di scegliere il proprio medico di base, un sistema molto simile a quello in uso in Italia ormai da molti anni. Un medico che lavora a tempo pieno dovrebbe avere 1800 pazienti compresi i bambini. La scelta del medico è volontaria nel senso che quando il paziente va all'ambulatorio centralizzato e non ha scelto il proprio medico avrà la visita con il primo medico libero di turno. Il contratto è individuale intorno alle 46000 corone lorde ma nelle zone più impervie della Svezia si può guadagnare un 10% in più. Inoltre c'è la posibilità di diventare liberi dal servizio per un certo periodo e ci sono delle agenzie di affitto medici per compiti specifici (es. aziende che hanno bisogno per un certo periodo di un medico). In questo caso i guadagni sono maggiori.

D) Una volta appurata la diagnosi hai dei vincoli nella prescrizione del farmaco?

R) C'è una lista di farmaci consigliati dalla provincia e i medici sono pregati nell'ambito del possibile di seguire le indicazioni date dalla provincia ma non c'è l'obbligo a seguire la lista. Inoltre viene un informatore scientifico della provincia che consiglia o sconsiglia i farmaci in base alla documentazione scientifica. Il medico percepisce questa informazione come imparziale.

D) Qual è il rapporto tra medico di base e specialista? Qual è il grado di collaborazione?

R) Il paziente esce dall'ospedale con un resoconto clinico, ma se la richiesta di visita specialistica parte dal medico di base c'è una risposta personalizzata da parte dello specialista. Certo se si conosce personalmente lo specialista tutto funziona meglio.

D) Quali sono i rapporti con le case farmaceutiche?

R) Nel mio specifico caso non ricevo gli informatori medico scientifici in quanto il responsabile amministrativo ha deciso di evitare il ricevimento degli informatori.
Noi medici di base eravamo d'accordo in quanto non soddisfatti della qualità d'informazione. Ogni tanto partecipiamo a convegni scientifici di vario livello gestiti dalle case farmaceutiche.

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MEDICINA LEGALE E NORMATIVA SANITARIA


Rubrica gestita dall'ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale Università Cattolica (a cura di D. Z.)

Equo indennizzo: i sei mesi per richiederlo decorrono anche dalla consapevolezza della dipendenza della patologia da causa di servizio (Sentenza Consiglio di Stato)

Questo principio, già avanzato in altre precedenti occasioni, è stato ribadito dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 5923/2002, con la quale si confermava una sentenza del TAR Veneto che aveva annullato il provvedimento di reiezione di una domanda di concessione di equo indennizzo a causa dell'asserita tardività della domanda.

Sia il TAR che il Consiglio di Stato hanno richiamato principi ormai consolidati in base ai quali il termine stabilito dal primo comma dell'art. 36, D.P.R. 3 maggio 1957, n. 686 per verificare la tempestività delle domande di riconoscimento del beneficio in questione va rapportato non solo alla conoscenza della esistenza della malattia, ma anche a quella della sua gravità e delle sue conseguenze sull'integrità fisica.

Nel caso in cui l'infermità derivi da circostanze ambientali, che col decorso del tempo incidono mutevolmente sulla integrità psico-fisica del dipendente, non può con assoluta precisione essere identificato il giorno di decorrenza del predetto termine semestrale.
Da ciò consegue che la mera consapevolezza di essere affetto da una patologia non comporta per il dipendente l'onere di proporre la domanda nel termine semestrale. Il termine inizia a decorrere quando il dipendente stesso diviene consapevole dell'effettivo stato dell'infermità e di quanto ha potuto influire su di essa il lavoro prestato.
Da ciò consegue che, per le malattie che col decorso del tempo diventano permanenti, il dipendente può proporre domanda di accertamento della dipendenza da causa di servizio entro il termine semestrale decorrente dalla conoscenza della condizione di permanenza della malattia.

Se così non fosse verrebbe a verificarsi una situazione per cui i pubblici dipendenti avrebbero l'onere di proporre la domanda di accertamento per qualsiasi infermità, anche prima di poterne valutare la dipendenza da servizio o la successiva condizione di permanenza, al sol fine di evitare successive preclusioni: ciò non gioverebbe certo all'efficienza dell'azione amministrativa.

Daniele Zamperini

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Procedure più snelle per la scelta temporanea del medico fuori sede di residenza

La temporanea scelta del medico ha costituito un problema notevolmente sentito per i medici di famiglia, in quanto le norme in proposito sono state spesso difformemente interpretate e applicate nei diversi ambiti regionali.
La legge 23 dicembre 1978, n. 833 riconosceva già (4° comma art. 19) il diritto degli utenti, nei casi di temporanea dimora in luogo diverso da quello abituale, di accedere ai servizi di assistenza di qualsiasi unità sanitaria locale.
Tali diritti erano poi codificati, in maniera che si sforzava di essere univoca, nelle Convenzioni dei Medici di Famiglia (art. 26 del decreto del Presidente della Repubblica 28 luglio 2000, n. 270).
Molte Regioni, però, applicavano la normativa in maniera non uniforme, riservando generalmente l'iscrizione temporanea ai soggetti fuori residenza solo in casi particolari e ristretti. La maggioranza degli assistiti, in tali casi, era assimilata ai "villeggianti" e obbligati a corrispondere un onorario convenzionale ai medici di base, con successivo aleatorio rimborso.
Questa rigida interpretazione restrittiva poteva essere motivata, in alcuni casi, da interessi economici in quanto le Regioni potevano lucrare una parte delle quote capitarie destinate all'assistenza di tali soggetti, temporaneamente privi di copertura.

L'ACCORDO 8 maggio 2003 tra il Governo, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano (GU n. 121 del 27-5-2003) ha precisato alcuni principi:
Considerata l'evoluzione del quadro normativo in materia di iscrizione negli elenchi anagrafici della popolazione residente, le mutate condizioni di vita e di lavoro della popolazione, caratterizzate da un'accentuata mobilità sul territorio nazionale, e l'avvenuto consolidamento delle procedure di compensazione della mobilità sanitaria interregionale, e ritenuto opportuno condividere modalità uniformi di iscrizione temporanea degli aventi diritto negli elenchi dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta, che garantiscano con la necessaria flessibilità il rispetto del principio dalla legge 833; ritenuto che l'iscrizione temporanea nell'elenco degli assistiti di un'azienda sanitaria locale dà diritto a ricevere tutte le prestazioni incluse nei livelli uniformi di assistenza, fermo restando l'obbligo dei cittadini di effettuare l'iscrizione anagrafica nel comune ove abitualmente risiedono, con le eccezioni previste dalla legge, le aziende unità sanitarie locali provvedono all'iscrizione temporanea, in apposito elenco, dei cittadini non iscritti negli elenchi anagrafici del/dei comune/i incluso/i nel proprio territorio, che vi dimorino abitualmente, per periodi superiori a tre mesi, per motivi attinenti all'attività di lavoro, per motivi di studio o per motivi di salute. L'iscrizione ha scadenza annuale ed è rinnovabile.

Requisiti essenziali quindi sono:

  • dimora abituale oltre tre mesi
  • motivi genericamente attinenti ad attività lavorative, studio o salute.

Chiunque possa documentare il fatto, ad esempio, di svolgere un'attività lavorativa o di studio di qualsiasi genere, (ad es., studenti fuori sede), può chiedere l'iscrizione temporanea.

La disciplina di tale diritto resta alle Regioni prevedendo, in ogni caso, che l'azienda Usl che riceve la richiesta provvede all'iscrizione temporanea solo previo accertamento dell'avvenuta cancellazione dell'assistito dagli elenchi dei medici di medicina generale o dei pediatri di libera scelta dell'azienda Usl di residenza.
Questo aspetto burocratico può comportare lungaggini burocratiche o impedimenti; sarebbe quindi opportuno che gli interessati provvedano prima alla cancellazione dagli elenchi della sede di residenza, presentandone documentazione contestualmente alla domanda di nuova iscrizione.

Daniele Zamperini

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Nuovissime norme sulla prescrizione degli stupefacenti: Buprenorfina

È stato recentemente pubblicato il Decreto 4 aprile 2003 Modifiche ed integrazioni al decreto del Ministro della sanità del 24 maggio 2001, concernente "Approvazione del ricettario per la prescrizione dei farmaci di cui all'allegato III-bis al decreto del Presidente della Repubblica del 9 ottobre 1990, n. 309, introdotto dalla legge 8 febbraio 2001, n. 12". (GU n. 122 del 28-5-2003).
Le novità apportate da tale decreto appaiono poco rilevanti, dal punto di vista pratico, in quanto il ricettario per stupefacenti di nuova concezione ed entrato in vigore solo recentemente, viene ad essere modificato, ad uso delle Rgioni a Statuoto speciale, ove vige il bilinguismo, in modo da riportare le istruzioni e le indicazioni nelle lingue in uso localmente.
Un aspetto importante è invece quello che riguarda la Buprenorfina (Temgesic): il fermaco, finora prescritto con rietta "bianca" non ripetibile, era stato incluso nell'allegato III bis della legge n. 12 dell'8/2/2001, venendo quindi a rientrare tra i farmaci per cui era obbligatorio l'uso del ricettario stupefacenti.
Anzichè semplificarsi, per il farmaco in questione, le procedure venivano perciò a complicarsi.
Il DM del maggio 2003, ribadisce tuttavia che anche i medicinali contenenti Buprenorfina, comunque somministrabili, impiegati nella terapia del dolore severo in corso di patologia neoplastica o degenerativa per una cura di durata non superiore a trenta giorni, devono essere prescritti utilizzando il ricettario per stupefacenti previsto dalle nuove normative.
Andrà valutata la metodica di ricettazione per le patologie che non rientrino nel dell'allegato III bis (patologie acute, ad es.) per le quali dovrebbe rimanere in vigore la ricettazione effettuata con i criteri precedenti.

Daniele Zamperini

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PRINCIPALI NOVITÀ IN GAZZETTA UFFICIALE: mese di maggio-giugno 2003 (a cura di Marco Venuti)

La consultazione dei documenti citati, come pubblicati in Gazzetta Ufficiale, è fornita da "Medico & Leggi" di Marco Venuti: essa è libera fino al giorno 27.07.2003. Per consultarli, cliccare qui

DATA GU TIPO DI DOCUMENTO TITOLO DI CHE TRATTA?
27.05.03 121 Conferenza Stato-Regioni, accordo 08.05.03 Accordo tra il Governo, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano in materia di iscrizione temporanea negli elenchi dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta delle aziende sanitarie locali di temporanea dimora .........
28.05.03 122 Decreto del Ministero della salute Modifiche ed integrazioni al decreto del Ministro della sanità del 24 maggio 2001, concernente «Approvazione del ricettario per la prescrizione dei farmaci di cui all'allegato III-bis al decreto del Presidente della Repubblica del 9 ottobre 1990, n. 309, introdotto dalla legge 8 febbraio 2001, n. 12» .........
06.06.03 129 Decreto del Presidente della Repubblica n. 129 Regolamento di organizzazione del Ministero della salute .........
18.06.03 139 suppl. ord. 95 Decreto del Presidente della Repubblica 23.05.03 Approvazione del Piano sanitario nazionale 2003-2005 .........
23.06.03 143 Legge 141 Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 aprile 2003, n. 89, recante proroga dei termini relativi all'attività professionale dei medici e finanziamento di particolari terapie oncologiche ed ematiche, nonchè delle transazioni con soggetti danneggiati da emoderivati infetti .........

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