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"PILLOLE" DI MEDICINA TELEMATICA
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Periodico di aggiornamento medico e varie attualità
di: 
Daniele Zamperini, Raimondo Farinacci e Marcello Gennari
Iscrizione gratuita su richiesta. Archivio consultabile su: www.edott.it e su http://zamperini.tripod.com
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"La Guida di Normativa Sanitaria"

Febbraio 2003

INDICE GENERALE

PILLOLE


APPROFONDIMENTI


MEDICINA LEGALE E NORMATIVA SANITARIA

Rubrica gestita da D. Z. per l'ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale Università Cattolica

PILLOLE


ALLHAT: uno studio importantissimo di cui si sente poco parlare...

Difficilmente gli informatori che frequentano i nostri ambulatori ci presenteranno uno degli studi più importanti della storia della medicina moderna: lo studio ALLHAT (Antihypertensive and Lypid-Lowering treatment to prevent Heart Attack Trial).
Si tratta di un trial randomizzato in doppio cieco che ha coinvolto 33.357 pazienti di età di 55 anni o più affetti da ipertensione e almeno un altro fattore di rischio coronarico. I pazienti sono stati randomizzati per essere trattati con il diuretico tiazidico clortalidone, con il calcioantagonista amlodipina, con l'aceinibitore lisinopril o l'alfabloccante doxazosin.
I pazienti che necessitavano di ulteriore terapia venivano trattati con atenololo, reserpina o clonidina.
Il braccio di trattamento con doxazosin fu chiuso nel 2000 a causa di una eccessiva incidenza di scompenso cardiaco nei pazienti trattati.
Ora, dopo un follow-up di 5 anni non si sono viste differenze negli endpoint primari (malattia coronarica fatale o infarto miocardico non fatale) o nella mortalità per tutte le cause tra i vari gruppi.
Tuttavia i pazienti trattati con amlodipina presentarono una incidenza cumulativa a 6 anni di scompenso cardiaco significativamente maggiore (10.2% contro 7.7%).
I pazienti trattati con lisinopril presentarono anche essi una maggiore incidenza a 6 anni di scompenso cardiaco (8.7% contro 7.7%), ictus (6.3% contro 5.6%) e angina (13.6% contro 12.1%).
I risultati di questo studio sono statisticamente robusti, generalizzabili, e lasciano poco spazio alle contestazioni.
Sulla base di questo studio si potrebbero estrapolare poche (ma solide) regole.
Un paziente iperteso: somministrazione di un diuretico (quando non controindicato).
Il farmaco da associare in caso di insufficiente efficacia del solo diuretico è l'aceinibitore.
Il farmaco di terza scelta nella associazione è il calcioantagonista. Utilizzare un calcioantagonista come prima o seconda scelta comporterebbe un inutile aumento di spesa, con aumento di rischio di complicanze per il paziente.

The ALLHAT Officers and Coordinators for the ALLHAT Collaborative Research Group. Major outcomes in high-risk hypertensive patients randomized to angiotensin-converting enzyme inhibitor or calcium channel blocker vs diuretic: The Antihypertensive and lipid-Lowering treatment to prevent Heart Attack Trial (ALLHAT).
JAMA 2002 Dec 18; 288: 2981-97

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ALLHAT anche per l'iperlipidemia

Lo studio ALLHAT ha incluso anche un sottostudio randomizzato non in cieco in cui circa 10, 000 pazienti di età di 55 anni o più, ipertesi e con almeno un fattore di rischio coronarico sono stati trattati con pravastatina a 40 mg/die contro trattamento usuale.
Come criterio di inclusione si scelse un livello di LDL colesterolo compreso tra 120 e 189 mg/dl per i pazienti senza coronaropatia (fu considerato antietico negare la statina a pazienti affetti da coronaropatia e livelli più alti di LDL).
Dopo 4 anni, l'84% dei pazienti del gruppo di trattamento con pravastatina assumevano ancora il farmaco, a paragone del 17% del gruppo di controllo e i livelli medi di LDL colesterolo erano scesi del 28% a paragone dell'11% tra i pazienti in terapia usuale.
In un periodo di follow-up di 5 anni non si osservarono differenze significative tra i due gruppi per quanto riguarda la mortalità per tutte le cause (14.9% contro 15.3%) o per quel che riguarda l'incidenza di infarto cardiaco fatale e nonfatale (9.3% contro 10.4%).
I risultati di questo studio contrastano con quelli di numerosi e conosciuti studi precedenti.
Gli autori sostengono che le differenze nella concentrazione delle LDL nel gruppo di trattamento e quello di controllo non erano così marcate come negli altri studi e che lo studio ALLHAT, con 500 gruppi di lavoro interessati riflette una realtà molto più eterogenea degli altri studi.

The ALLHAT Officiers and Coordinators for the ALLHAT Collaborative Research Group. Major outcomes in moderately hypercolesterolemic, hypertensive patients randomized to pravastatin vs usual care: The Antihypertensive and Lypid-Lowering treatment to prevent Heart Attack Trial (ALLHAT-LLT)
JAMA 2002 Dec 18; 288: 2998-3007

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Avastin in combinazione con chemioterapia: risultati incoraggianti

Un nuovo farmaco sperimentale disegnato per ridurre l'apporto di sangue ai tumori ha mostrato incoraggianti risultati nei pazienti affetti da cancro colorettale in fase avanzata se appaiato alla tradizionale chemioterapia. I risultati di questo studio condotto presso lo UCLA Jonsson Cancer Center, potrebbero cambiare le modalità di trattamento dei pazienti con cancro in fase terminale. La combinazione dia Avastin e chemioterapia si è dimostrata superiore alla chemioterapia da sola nel trattamento del cancro colorettale in fase avanzata. Un tumore non può raggiungere grandi dimensioni finché non crea un autonomo apporto di sangue con un processo chiamato neoangiogenesi che può procurargli un adeguato apporto di ossigeno e sostanze nutritive. I ricercatori ipotizzano che rallentare o meglio fermare questo processo può "affamare" il tumore e addirittura ucciderlo. In questo studio l'Avastin è stato somministrato insieme alla classica terapia con 5-fluorouracile e folati con la speranza che questo nuovo farmaco, un anticorpo monoclonale che attacca il Growth factor endoteliale, potesse rendere più efficace la chemioterapia e viceversa con un meccanismo sinergico. I pazienti dello studio di fase II che ricevettero l'Avastin in combinazione con la chemio hanno avuto una percentuale di risposte migliore e una migliore sopravvivenza rispetto ai pazienti trattati con la sola chemioterapia. Inoltre i pazienti sottoposti al trattamento combinato hanno avuto un più lungo periodo di remissione e più bassi livelli di markers tumorali. I risultati di questo studio hanno permesso la costruzione di un trial di fase III su 1.000 pazienti.I risultati di questo ultimo trial sono attesi per il prossimo anno e dovrebbero fornire alcune risposte definitive sull'uso dell'Avastin.

www.docguide.com

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Confermata negli studi a 2 anni l'efficacia dell'Alendronato 70 mg 1 volta a settimana

L'intento dello studio è stato quello di dimostrare che l'alendronato a 70 mg 1 volta a settimana o a 35 mg 2 volte a settimana ha la stessa efficacia della somministrazione giornaliera a 10 mg.
1258 donne in post menopausa (età compresa tra 42- 95 anni), con densità minerale ossea inferiore a T Score di -2,5 SD a livello della colonna lombare o del collo femore, sono state assegnate in modo randomizzato al trattamento con alendronato ai dosaggi: 10 mg /die, 35 mg 2 volte a settimana, 70 mg 1 volta a settimana. Lo studio in doppio ceco ha avuto una durata di 2 anni.
L'incremento medio della BMD a 24 mesi nei tre gruppi si dimostrato sostanzialmente simile nei tre gruppi (circa il 7% a livello della colonna lombare e circa il 4% a livello del femore), anche la riduzione dei markers di riassorbimento osseo è stata simile nei 2 gruppi. Tutti e 3 i regimi sono stati ben tollerati con una incidenza di effetti collaterali a livello gastrointestinale molto simile tra i 3 gruppi. Per quanto concerne il numero delle fratture non sono emerse differenze significative tra i 3 gruppi. Lo studio conferma i dati degli studi ad 1 anno sulla equivalenza del regime terapeutico con alendronato a 70 mg settimana rispetto alla classica somministrazione giornaliera.

J Bone Miner Res 2002 Nov;17(11):1988-96

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Entecavir più efficace della Lamivudina nell'Epatite B

Un nuovo analogo nucleotidico l'entecavir sembra avere un effetto antivirale più potente della Lamivudina contro l'infezione cronica da virus dell'Epatite B. In un trial clinico in doppio ceco di fase II su 169 pazienti con infezione cronica da virus dell'Epatite B durato 24 settimane sono stati raffrontati lamivudina e entecavir.
L'entecavir ha dimostrato una chiara risposta dose dipendente e alla dose di 0,5 mg /die si è ottenuta una carica virale non dosabile con la metodica in uso (Quantiplex branched DNA assay) nell'83% dei pazienti contro il 57,5 % dei pazienti i trattamento con lamivudina. Pochissimi pazienti in entrambe i gruppi hanno raggiunto la sieroconversione o la scomparsa dello HBeAg a 22 settimane in compenso un numero maggiore di pazienti in trattamento con entecavir ha raggiunto una normalizzazione delle transaminasi a 22 settimane rispetto ai pazienti trattati con lamivudina anche se non in maniera statisticamente significativa. L'entecavir, per finire, si è dimostrato meglio tollerato.

Gastroenterology 2002;123(6):1831-1838

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HRT: non utili nè Terapia Ormonale Sostitutiva (TOS) nè gli antiossidanti, nelle donne con stenosi coronarica documentata

Sono state selezionate per questo studio 423 donne in condizione postmenopausale (età media 65 anni), affette da stenosi coronarica documentata angiograficamente.
La popolazione femminile in oggetto fu randomizzata per ricevere TOS (0.625 mg di estrogeni equini coniugati più 2.5 mg di progesterone nei soggetti che non erano stati isterectomizzati) contro placebo.
Inoltre, nell'ambito dei due gruppi, i soggetti furono ulteriormente randomizzati per ricevere farmaci antiossidanti (400-IU di vitamina E più 500 mg di vitamina C) o placebo.
Le coronarografie vennero eseguite all'entrata nello studio e dopo una media di 2.8 anni. Il calibro medio delle arterie coronarie esaminate non differì in modo significativo nei due gruppi.
Alla fine dello studio, si vide che le donne assegnate alla TOS andarono incontro a morte improvvisa e infarto in numero maggiore rispetto al gruppo di controllo.
Le donne trattate con antiossidanti ebbero esiti peggiori del gruppo placebo, benchè il dato non risultasse significativo.

Waters DD et et al
Effects of hormone replacement therapy and antioxidant vitamin supplements on coronary atherosclerotis in postmenopausal women: A randomized controlled trial
JAMA 2002 Nov 20; 288: 2432-40

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Ipertesi una volta, ipertesi per sempre? No!

Studi preliminari, principalmente metanalisi, hanno dimostrato come pazienti ipertesi di grado lieve-medio con buon controllo della pressione, una volta sospesa la terapia antipertensiva, nel 42% dei casi rimangano normotesi.
In questo studio prospettico, gli autori hanno cercato di definire i fattori in grado di predire se un paziente iperteso in trattamento, dopo la sospensione della terapia possa rimanere a con la pressione a valori normali e per quanto tempo.
I pazienti, di età compresa tra 65 e 84 anni furono reclutati da un trial nazionale sul trattamento della ipertensione.
Al momento della sospensione della terapia, 503 pazienti che rimasero normotesi a 2 settimane furono reclutati per lo studio e seguiti per 12 mesi.
Dopo 12 mesi 181 pazienti (36%) rimasero normotesi, 273 (54%) ritornarono ipertesi e 49 (10%) ebbero diversa classificazione, dato che ricominciarono ad assumere farmaci antiipertensivi per ragioni diverse dall'aumento della pressione.
Circa metà dei pazienti che ritornarono ipertesi manifestarono la condizione entro 70 giorni dalla sospensione della terapia.
L'analisi multivariata dei dati dimostrò che i fattori predittivi più importanti per lo stato di permanente normotensione furono l'età più giovane (64-74 anni), un minore rapporto cintura/anca, una precedente terapia antipertensiva con singolo farmaco e un minore valore di pressione sistolica durante il trattamento.

Nelson MR et al
Predictors of normotension on withdrawal of antihypertensive drugs in elderly patients : Prospective study in second australian national blood pressure study cohort
BMJ 2002 Oct 12; 325: 815-7

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La cannabis fa male (1)

In questo studio australiano sono stati seguiti 1601 adolescenti di età media di 14.5 anni per 7 anni. All'età di 20 anni, circa il 60% della popolazione aveva provato la cannabis e il 7% continuava ad impiegarla giornalmente.
Uno stato iniziale di depressione ed ansia non era predittivo di futuro uso di cannabis, mentre un uso settimanale di cannabis era predittivo di un aumento del doppio di casi di depressione e sindromi ansiose.
L'impiego giornaliero nelle donne si associava con un incremento di circa 5 volte nel rischio di insorgenza di depressione e sindrome ansiosa.

Patton GC et al
Cannabis use and mental health in young people: Cohort study
BMJ 2002 Nov 23; 325: 1195-8

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La cannabis fa male (2)

La pubblicazione dei risultati della continuazione di uno studio svedese, con un follow-up più lungo, comprendente 50,087 uomini di età compresa tra 18 e 20 anni ha dimostrato una relazione dose dipendente tra l'impiego di cannabis e il rischio di sviluppare schizofrenia.
Tra i consumatori solo di cannabis che ne avessero fatto uso almeno 50 volte si osservò una Odds Ratio aggiustata pari a 6.7.

Zammit S et al
self reported cannabis use as a risk factor for schizophrenia in Swedish conscripts of 1969: Historical cohort study
BMJ 2002 Nov 23; 325: 1199-201

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La cannabis fa male (3)

Ulteriore studio neozelandese sull'argomento. Furono arruolati 759 bambini di 11 anni di età.
I soggetti furono esaminati dal punto di vista psichiatrico al momento dell'arruolamento e all'età di 26 anni. Il consumo di cannabis venne testato all'età di 15 e 18 anni.
A paragone dei soggetti che avevano impiegato cannabis raramente o mai (65% del gruppo), i consumatori abituali di cannabis presentavano una probabilità significativamente maggiore di avere sintomi di schizofrenia all'età di 26 anni.

Arseneault I et al
Cannabis use in adolescents and risk for adult psychosis: Longitudinal prospective study
BMJ 2002 Nov 23; 325: 1212-3

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Lipoproteine e esercizio fisico

In questo studio sono stati inclusi 84 adulti in soprappeso con abitudini sedentarie e dislipidemia da lieve a media.
I pazienti sono stati randomizzati in 4 gruppi: molto esercizio fisico ad alta intensità (equivalente a 20 miglia alla settimana di jogging); poco esercizio fisico ad alta intensità (equivalente a 12 miglia di jogging alla settimana); poco esercizio fisico ad intensità media (equivalente a 12 miglia di passeggiata alla settimana); nessun esercizio.
Le lipoproteine vennero valutate all'inizio dello studio e dopo 8 mesi.
Alla fine dello studio non si apprezzarono variazioni significative nel dosaggio delle LDL colesterolo o del colesterolo totale tra i vari gruppi.
Tuttavia, a paragone del gruppo di controllo il gruppo sottoposto a esercizio intenso in grande quantità mostrò un significativo aumento dei dosaggi di HDL-Colesterolo e nella grandezza delle LDL e una diminuzione significativa nella concentrazione delle LDL di piccola dimensione, considerate essere molto più aterogene delle LDL di più grandi dimensioni.
Nei due gruppi intermedi si dimostrarono variazioni di uguale tipo ma meno marcate.
Considerando 11 differenti variabili legate alle lipoproteine, si vide che il fattore più importante per i cambiamenti nell'assetto lipidico era la quantità di esercizio fisico, piuttosto che la intensità

Kraus WE et al
Effects of the amount and intensità of exercise on plasma lipoproteins
N Engl J Med 2002 Nov 7; 347: 1483.92

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Obesità e bendaggio gastrico (1)

Il bendaggio gastrico consiste nel mettere una "cintura" intorno al corpo dello stomaco in modo da formare una tasca prossimale che, funzionando da "stomaco", riduce il volume disponibile per l'introduzione di alimenti.
Mediante un catetere connesso con un port sottocutaneo, si può iniettare o aspirare fluido nel bendaggio, chiudendo o aprendo lo stoma così formato tra la tasca superiore e il resto dello stomaco.
In questo lavoro vengono presi in esame i risultati concernenti 500 pazienti in cui è stato inserito il dispositivo "Lap band".
Non si osservarono morti perioperatorie.
La complicanza maggiore più comune fu la perforazione gastrica (4 pazienti).
Altre complicazioni, osservate in 80 pazienti, furono costituite da scivolamento della banda e disfunzione del dispositivo di regolazione della larghezza dello stoma.
52 pazienti (circa il 10%) furono rioperati per correggere complicanze di questo tipo.
I pazienti operati persero in media metà del loro peso nell'arco di 2 anni.

Zinzindohoue F et al
Laparoscopic gastric banding: A minimally invasive surgical treatment for morbidy obesity. Prospective study of 500 consecutive patients.
Ann Surg 2003 Jan; 237: 1-9

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Obesità e bendaggio gastrico (2)

In questo lavoro sono riportati i risultati di 625 interventi in cui fu impiantato un dispositivo di bendaggio gastrico regolabile denominato "Swedish adjustable gastric band", non ancora approvato dalla FDA.
Non si verificarono morti preoperatorie. Due pazienti richiesero un reintervento precoce per complicanze e 49 furono rioperati a distanza di tempo.
Anche in questo studio i pazienti persero in media metà del loro peso in eccesso dopo 2 anni.

Ceelen W et al
Surgical treatment of severe obesity with a low-pressure adjustable gastric band: Experimental data and clinical results in 625 patients
Ann Surg 2003 Jan; 237: 10-6

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Omocisteina e malattia cardiovascolare

Sono in corso trias randomizzati in popolazione asintomatica che hanno per obiettivo la dimostrazione di possibili riduzioni del rischio cardiovascolare mediante l'abbassamento dei livelli ematici di omocisteina.
In attesa di questi risultati gli autori di questo studio hanno condotto una metanalisi degli studi osservazionali più rilevanti.
Sono stati identificati 30 studi, con il coinvolgimento di più di 16,000 soggetti.
I dati sono stati aggiustati per età, sesso, fumo, pressione del sangue e colesterolo.
I dati ottenuti dai 12 studi prospettici (circa 9000 soggetti) indicano che un abbassamento del 25% dei livelli di omocisteina è associato con una diminuzione del rischio dell'11% per cardiopatia ischemica e del 19% per ictus.
Gli autori dello studio concludono che l'omocistienemia elevata può essere al massimo un modesto predittore indipendente di eventi vascolari.
I trias in arrivo chiariranno ulteriormente le idee.

The Homocysteine studies Collaboration. Homocysteine and risk of ischemic heart disease and stroke:a meta-analysis
JAMA 2002 Oct 23/30; 288:2015-22

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Rischio cardiovascolare: tenere conto anche della proteina C reattiva (PCR)

Partendo da dati preliminari che suggerivano una associazione tra valori della PCR e malattie cardiovascolari, gli autori di questo studio hanno paragonato i valori di LDL colesterolo e PCR come predittori di malattie cardiovascolari in 28,000 donne di età media di 55 anni.
Durante un follow-up medio di 8 anni, si è visto che il livello di CPR era in grado di predire meglio delle LDL la possibilità di primo evento cardiovascolare.
Nel quintile con i valori maggiori di PCR, il rischio era 2.3 volte maggiore rispetto al quintile con valori minori. Il rischio relativo calcolato per le LDL era invece solo 1.5.
La probabilità di non avere alcun episodio di cardiopatia risultò del 99% nelle donne in cui sia i livelli di PCR che quelli delle LDL erano entrambi inferiori alla media di popolazione, ma scendeva al 96.5% nelle donne in cui PCR e LDL erano entrambi sopra i livelli medi della popolazione.
La combinazione tra alti livelli di PCR/bassi livelli di LDL o alti livelli di LDL/bassi livelli di PCR individuava pazienti con profilo di rischio intermedio.
Sembrerebbe quindi che anche la PCR possa fornire informazioni sulla malattia aterosclerotica coronaria, che risulterebbero diverse da quelle fornite dal dosaggio delle LDL.
Tuttavia l'impiego del dosaggio della PCR necessita ancora di parecchie puntualizzazioni per essere inserito in un contesto di ricerca allargata a tutta la popolazione.

Ridker PM et al
Comparison of C-reactive protein and low-density lipopritein cholestewrol levels in the prediction of first cardiovascular events
N Engl J Med 2002 Nov 14; 347: 1557-65

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Rinosinusite cronica e antimicotici per via intranasale

La Rinosinusite cronica è una malattia cronica molto comune e molto spesso refrattaria al trattamento medico. Un gruppo di ricercatori della Mayo Clinic di Rochester negli USA ha condotto uno studio prospettico per dimostrare la sicurezza e l'efficacia di un trattamento con antimicotici per via intranasale nei pazienti affetti da rinosinusite cronica. Sono stati arruolati nello studio 51 pazienti randomizzati che sono stati trattati mediante instillazione nasale di 20 ml due volte al giorno di una soluzione di amfotericina B alla concentrazione di 100 microgrammi/ml. La valutazione dei risultati è stata ottenuta raffrontando i sintomi riportati dai pazienti, tac dei seni paranasali e esami endoscopici prima e dopo il trattamento.
Risultati:con l'uso dell'amfotericina B è stato riscontrato un miglioramento della sinusite in 38 (75%) dei 51 pz. Endoscopicamente 18 (35%) dei pazienti era libero da malattia dopo il trattamento ed un ulteriore 39% (20 pz) aveva avuto un miglioramento valutabile in almeno 1 stadio della malattia. In 13 pz (25%) non è stato osservato alcun miglioramento. La tac ottenuta dopo terapia paragonata con quella eseguita prima del trattamento ha evidenziato una significativa riduzione dello spessore della mucosa infiammata che occludeva i seni paranasali.
Gli autori concludono che la somministrazione intranasale di amfotericina B è sicura ed efficace nel trattamento della rinosinusite cronica, tuttavia per definire meglio il ruolo degli antimicotici nella rinosinusite cronica occorrono altri studi.

J Allergy Clin Immunol 2002 Dec;110(6):862-6

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Pazienti con fibrillazione atriale: controllo del ritmo o della frequenza? (1)

Un paziente con fibrillazione striale può essere trattato per ottenere il ripristino del ritmo sinusale (controllo del ritmo) o si può cercare di mantenere una frequenza costante nell'ambito di un ritmo cronicamente fibrillante (controllo della frequenza).
In questo studio di cerca di dimostrare una reale differenza in termini di utilità clinica tra queste due condotte terapeutiche.
Sono stati arruolati 4060 pazienti affetti da fibrillazione striale di recente insorgenza ( non più di 6 mesi) di età massima di 65 anni o con fattori di rischio per ictus.
I pazienti furono randomizzati per essere trattati per il ripristino del ritmo (farmaci antiaritmici e cardioversione se necessario) o per il controllo della frequenza (beta-bloccanti, calcioantagonisti, diossina o combinazioni di questi farmaci) e furono seguiti per un periodo medio di 3.5 anni.
Entrambi i gruppi furono trattati con warfarin.La mortalità stimata a 5 anni risultò del 23.8% nel gruppo trattato per il ripristino del ritmo e del 21.3% nel gruppo trattato per il controllo della frequenza (P=0.08). Nel gruppo trattato per il controllo del ritmo, inoltre, si osservò un maggiore tasso di ospedalizzazione e effetti collaterali da farmaci.

The Atrial Fibrillation Follow-up Investigation of Rythm Management (AFFIRM) Investigators
A Comparison of rate control and rhytm control in patients with atrial fibrillation
N Engl J Med 2002 dec 5; 347: 1825-33

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Pazienti con fibrillazione atriale: controllo del ritmo o della frequenza? (2)

Stesso protocollo dello studio precedente in 522 pazienti di età media di 68 anni affetti da fibrillazione striale ricorrente o persistente dopo tentativo di cardioversione.
Durante un periodo medio di follow-up di 2.3 anni, l'endopoint composto da morte cardiovascolare, scompenso cardiaco, tromboembolia, sanguinamento, impianto di paca-maker o effetti collaterali da farmaci gravi, si verificò più frequentemente nel gruppo in cui si cercava di ripristinare il ritmo sinusale rispetto al gruppo di controllo della frequenza (22.6% contro 17.2%).
Il confronto non mostrò differenze significative.
In particolare si vide che le donne e i pazienti ipertesi manifestarono esiti peggiori se sottoposti a tentativo di ripristino del ritmo sinusale.
(
Una osservazione è doverosa: esiste una tecnica di recente introduzione che permette, tramite ablazione in radiofrequenza, di ristabilire il ritmo sinusale in pazienti affetti da fibrillazione atriale.
Questa tecnica non è stata presa in considerazione in questi studi ma in gruppi selezionati di pazienti risulta una più che valida alternativa al controllo della frequenza. La sua complessità non la rende ancora disponibile ad un gruppo allargato di pazienti.)

Van Gelder IC et al
A comparison of rate control and rythm control in patients with recurrent persistent atrial fibrillation
N Engl J Med 2002 Dec 5; 347: 1883-4

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Sclerosi Multipla progressiva nuovo approccio terapeutico

La Sclerosi Multipla, malattia autoimmune che colpisce soprattutto la sostanza bianca del cervello e del midollo spinale, è una delle affezioni neurologiche più comuni tra i giovani adulti ed è causa di gravi disabilità. Circa l'85 % dei pazienti sperimenta all'inizio della malattia una o più ricadute seguite da fasi di acuzie della malattia e da remissioni complete o incomplete (relapsing-remitting) ma nell'arco di 10 anni circa il 50% di questi pazienti passerà alla fase secondaria progressiva della malattia caratterizzata da un peggioramento graduale delle disabilità neurologiche con sovrapposte o meno fasi di acuzie. Circa un 10% dei pazienti, invece, verrà colpito da una forma che si presenta come progressiva fin dall'esordio (Sclerosi Multipla Progressiva Primaria). Un ulteriore 5% dei pazienti verrà colpito invece da una forma progressiva fin dall'inizio ma accompagnata nella fase finale da episodi di acuzie e remissioni definita dagli autori di lingua inglese come "progressive-relapsing multiple sclerosis".
Attualmente disponiamo di tre farmaci capaci di modificare il decorso clinico della malattia approvati per il trattamento della Sclerosi Multipla relapsing-remitting: interferone beta-1b-, interferone beta-1a-, e glatiramer acetato. Questi farmaci riducono significativamente la media degli episodi nell'anno e rallentano la progressione del processo morboso sottostante come dimostrato dagli studi seriati del SNC e del midollo spinale eseguiti con RM. In Europa, come dimostrato dallo studio EUSP, l'interferone 1 beta -1b è stato capace di ritardare significativamente l'esordio della fase progressiva della malattia e quindi la comparsa dei danni permanenti neurologici misurati con al scala EDSS. Questi risultati non sono stati confermati, però, in altri Trial di fase III (SPECTRIMS e IMPACT) e il National Institute for Clinical Excellence nel Regno Unito ha raccomandato la sospensione dell'approvazione dell'interferone beta -1b nel trattamento della Sclerosi Multipla progressiva secondaria senza recidive.
Il Mitoxantrone, farmaco usato per il trattamento di diverse forme tumorali, possiede alcune proprietà immunosoppressive che spiegano il rationale d'uso nella Sclerosi Multipla che notoriamente è associata ad una alterata risposta delle T e B cells agli antigeni del sistema nervoso centrale.
Il Mitoxantrone inibisce l'attivazione delle T-cells e blocca la proliferazione delle T-cells e delle B-cells, inibisce i macrofagi e diminuisce la produzione di anticorpi. In laboratorio il mitoxantrone è in grado di curare la encefalomielite autoimune indotta nei topi che costituisce il modello animale sperimentale della Sclerosi Multipla.
Alcuni incoraggianti risultati ottenuti in precedenti studi pilota hanno portato al Trial multicentrico di fase III sull'uso del Mitoxantrone nella Sclerosi Multipla progressiva secondaria (MIMS study).
194 pazienti sono stati arruolati nello studio, 188 di questi sono stati verificati a 24 mesi. I pazienti sono stai assegnati in maniera randomizzata ai due bracci dello studio: placebo o mitoxantrone (5mg/m2) o 12 mg/m2)ogni 3 mesi per 24 mesi. L'endpoint primario è stato determinato con l'analisi multivariata di 5 paramentri clinici.
Trai 188 pazienti giunti alla verifica del 24°mese non sono stati osservati effetti collaterali correlati al farmaco o segni di danno cardiaco. A 24 mesi il gruppo in terapia con mitoxantrone riportava benefici clinici statisticamente significativi rispetto al gruppo placebo.La terapia con mitoxantrone a 12 mg /m2 è stata in genere ben tollerata ed ha portato ad una riduzione della progressione dei danni neurologici e delle riacutizzazioni della malattia. Sono necessari ulteriori studi per determinare quali pazienti affetti da Sclerosi Multipla abbiano le maggiori probabilità di rispondere al trattamento e quali siano i protocolli di trattamento più appropriati.

Lancet: 2002;360:2018-25

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Coronaropatia multivasale: stent o bisturi?

L'angioplastica si è dimostrata efficace come il bisturi per le coronarie stenotiche, ma è gravata da una percentuale maggiore di restenosi.
Attualmetne però, l'impiego degli stent può ridurre il tasso di restenosi rendendo competitiva di nuovo la metodica meno invasiva.
In questo studio sono stati reclutati 988 pazienti randomizzati per essere sottoposti a stenti o bypass.
Dopo un follow-up medio di 2 anni, l'incidenza dell'endpoint composto da morte e infarto con onda Q fu simile in entrambi i gruppi (circa il 10%), ma la mortalità per tutte le cause fu significativamente minore nel gruppo trattato con bypass (5% contro 2%). Va però detto che nel gruppo trattato con stent vi furono 8 decessi per neoplasia, patologia difficilmente correlabile al trattamento.
La necessità di ulteriori procedure di rivascolarizzazione fu significativamente maggiore nel caso di impianto di stent che di bypass (21% contro 6%).
(
Difficile trarre conclusioni da questo studio: Gli stent riducono la percentuale di restenosi dell'arteria, questo è certo. Però altrettanto certo è che l'impianto di stent richiede ancora una percentuale maggiore di nuovi interventi sulle arterie in seguito al fallimento della procedura primaria.
Inoltre in questo studio la mortalità nel gruppo trattato con stent risulta maggiore. Questo dato tuttavia non è confermato da altri studi ed è gravato dal fatto che nel gruppo trattato con stent vi sono stati 8 decessi per neoplasia.
Inoltre sono a disposizione ora nuovi stent medicati con percentuali ancora minori di restenosi.
Un nuovo importante trial che prende in considerazione questi nuovi dispositivi è in corso e si attendono i risultati.)

The SoS Investigators. Coronary artey bypass surgery versus percutaneous coronary intervention with stent impalntation in patients with multivessel coronary artery disease (the Stent or Surgery trial): A randomised controlled trial.
Lancet 2002 sep 28; 360: 965-70

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Studio Cooperate (2 farmaci sono meglio che 1, nell'insufficienza renale)

Le attuali terapie con ACE inibitori non sono in grado di arrestare la progressione dell'insufficienza renale non correlata a diabete. Scopo dello studio COOPERATE è quello di testare gli effetti, in termina di efficacia e sicurezza, di un trattamento combinato ACE-inibitore/Antagonisti recettoriali della Angiotensina II in raffronto alla monoterapia con entrambe le classi di farmaci al massimo dosaggio nei pazienti con nefropatia non diabetica. 336 pazienti affetti da insufficienza renale cronica non correlata a nefropatia diabetica sono stati arruolati in Giappone tra i pazienti ambulatoriali della nefrologia, dopo uno screening e un periodo di osservazione di 18 settimane 263 pazienti sono stati assegnati in maniera randomizzata al trattamento con sartanici (Losartan 100 mg /die) o ACE -inibitori (trandolapril 3 mg/die) o a una terapia combinata con entrambe i farmaci a dosi equivalenti. Sono state effettuate quindi le analisi di sopravvivenza per comparare gli effetti di ogni regime sugli endpoint primari combinati: raddoppio della creatinina o insufficienza renale terminale.
7 pazienti interruppero il follow up.10 pazienti su 85 (11%) del gruppo in trattamento con terapia combinata raggiunsero l'endpoint combinato contro 20 (23%) degli 86 pazienti in trattamento con losartan da solo e i 20 (23%) degli 85 pazienti in trattamento con trandolapril da solo. La frequenza di effetti collaterali con la terapia combinata fu la stessa osservata con il trandolapril da solo.
Conclusioni:Il Trattamento combinato ritarda in maniera sicura la progressione dell'insufficienza renale non correlata a nefropatia diabetica se paragonata alla monoterapia.Tuttavia, dato che alcuni pazienti hanno raggiunto l'endpoint primario anche in terapia combinata, sono necessarie ulteriori strategie terapeutiche per un completo management della insufficienza renale progressiva non correlata a nefropatia diabetica.

Lancet 2003;361:117-24

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Un fattore dietetico sconosciuto responsabile della vasculopatia diabetica?

Gli AGEs (advanced glycation end products) sono composti che si formano dalla complessazione degli zuccheri con proteine o lipidi.
Il contenuto in AGEs dei cibi può essere variato con il controllo del tempo di cottura e della temperatura.
Gli autori di questo studio dimostrano che un composto di questo tipo, assunto con la dieta, possiede capacità di indurre la vasculopatia nel diabetico.
24 pazienti diabetici sono stati randomizzati e assegnati per 6 settimane a due regimi dietetici equivalenti per calorie, proteine, carboidrati e grassi, però uno dei due regimi dietetici presentava un basso contenuto in AGEs, mentre l'altro aveva un contenuto in AGEs 5 volte superiore al normale.
I pazienti che assumevano meno AGEs con la dieta presentavano meno AGEs nel sangue, inoltre presentavano una minore concentrazione ematica di citochine infiammatorie di vario tipo, di markers infiammatori (es PCR) e di molecole di adesione, tutti composti chimici associati fortemente con la presenza di vasculopatia.
La concentrazione ematica di PCR aumentò del 35% nei pazienti a regime dietetico con alto contenuto di AGEs e diminuì del 20% nei pazienti con regime a basso contenuto di AGEs.
Parallelamente il fattore di necrosi tumorale alfa aumentò dell'86% con la dieta ad alto contenuto di AGE e diminuì del 20% con la dieta a basso contenuto di AGE.
Sembrerebbe una importante scoperta, se confermata. La riduzione del rischio di vasculopatia nel diabetico attenuta con la semplice modificazione del sistema di cottura dei cibi.
Occorrono altre conferme, ma la premesse di una scoperta importante ci sono tutte.

Vlassara H et al
Inflammatory mediators are induced by dietary glycotoxins, a major risk factor for diabetic angiopaty
Procl Natl Acad Sci USA 2002 Nov 26; 99; 15596-601

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APPROFONDIMENTI


A proposito di terapia ormonale sostitutiva in menopausa (il pensiero di alcune associazioni rappresentative della medicina generale)

Il recente studio americano denominato Women’s Health Initiative (WHI), pubblicato sulla rivista JAMA, ha dimostrato che l’assunzione combinata di estrogeni e progestinici dopo la menopausa presenta complessivamente più rischi che benefici. Questo risultato, contrario alle aspettative e ampiamente diffuso dalla stampa, ha suscitato comprensibili preoccupazioni (in Italia si stima che circa l’8% delle donne in menopausa assumano estrogeni), ma anche reazioni e commenti non sempre utili a fare chiarezza, e talvolta persino fuorvianti. Le Società Scientifiche dei Medici di Medicina Generale e gli altri gruppi e associazioni  firmatari del presente documento, ritengono perciò opportuno presentare questa posizione, basata sulle conoscenze attualmente disponibili ed elaborata congiuntamente, che riassume le informazioni essenziali. 
Le donne interessate potranno ottenere dal loro medico di fiducia ulteriori chiarimenti ed indicazioni personalizzate, in modo da poter compiere una scelta libera e consapevole.

Le conoscenze precedenti

Precedentemente al WHI numerose osservazioni suggerivano un possibile e notevole effetto protettivo degli estrogeni (somministrati a lungo dopo la menopausa) nella prevenzione dell’osteoporosi e di alcune importanti patologie cardiovascolari: alcuni dati lasciavano supporre addirittura un dimezzamento di malattie come la cardiopatia ischemica e l’infarto del miocardio. Era noto anche il rischio di un aumento dei tumori al seno, che tuttavia appariva di entità modesta e tale da non pregiudicare i possibili benefici se la terapia veniva seguita in assenza di controindicazioni, da donne attentamente seguite dai medici e disposte agli opportuni controlli periodici. Sta di fatto però che si trattava soltanto di ipotesi non dimostrate mediante studi scientifici rigorosi, e lo studio WHI si proponeva quindi di sottoporle ad una  verifica definitiva.
Lo studio Women’s Health Initiative (WHI) Circa 16.000 donne di età compresa tra 50 e 79 anni, in buone condizioni di salute, dopo aver fornito un consenso informato alla prova, sono state incluse nella sperimentazione. Di queste, metà sono state sorteggiate ad assumere una combinazione di pillole a base di estrogeni naturali coniugati associati ad un progestinico (indispensabile per bilanciare il rischio di tumori all’utero), mentre l’altra metà assumeva pillole di placebo, cioè prive di ormoni. Questa metodologia di indagine (trial clinico controllato) è la più sicura per dimostrare gli effetti di una terapia, e viene infatti normalmente usata nelle ricerche cliniche per ottenere risultati affidabili. La durata prevista dello studio era di circa 8 anni, al termine dei quali si sarebbero tratte le conclusioni confrontando gli effetti nei due gruppi di donne. Come è noto, lo studio è stato invece interrotto in anticipo, non appena è divenuto chiaro che gli svantaggi prevalevano sui benefici e la sua prosecuzione non avrebbe più potuto modificare i risultati. Nei circa 5 anni precedenti all’interruzione del WHI, si sono avuti nelle donne che assumevano estrogeni e progesterone:

  • un aumento del 29% di cardiopatie coronariche, pari a circa 7 casi in più ogni anno su 10.000 donne,
  • un aumento del 26% di tumori del seno, pari a circa 8 casi in più ogni anno su 10.000 donne,
  • un aumento del 41% di ictus cerebrale, pari a circa 8 casi in più ogni anno su 10.000 donne,
  • un aumento del 113% di tromboembolie polmonari, pari a circa 8 casi in più ogni anno su 10.000 donne.

I vantaggi sono stati invece:

  • una diminuzione del 34% delle fratture dell’anca, pari a circa 5 casi in meno ogni anno su 10.000 donne,
  • una diminuzione del 37% dei tumori del colon, pari a circa 6 casi in meno ogni anno su 10.000 donne.

Non vi sono state invece differenze significative di mortalità nei due gruppi di donne.
Come si può osservare dai dati, i valori espressi in percentuale danno un’impressione preoccupante, ma i numeri assoluti per 10.000 donne chiariscono che si tratta di rischi modesti e non è quindi giustificato alcun allarmismo. Tuttavia è innegabile che ci si trova di fronte all’opposto di quanto si sperava di poter dimostrare: la terapia a base di estrogeni associati a progestinici, pur riducendo le fratture e i tumori del colon, nel complesso presenta più rischi che benefici. La grandissima maggioranza delle donne che la pratica, anche se non incorre in effetti avversi, non ottiene quindi nessun reale vantaggio in termini preventivi, facendo cadere la motivazione per un trattamento prolungato. La conclusione è che in base a questi risultati una terapia ormonale sostitutiva di lunga durata non è raccomandabile per le donne appartenenti alla tipologia studiata, quelle cioè apparentemente in buona salute di età tra 50 e 79 anni. Per quanto riguarda invece le donne affette da malattie cardiovascolari, vi erano già altri studi in base ai quali la terapia è da ritenersi controindicata.
Va precisato che i risultati di questa ricerca non sono applicabili a trattamenti di breve durata (alcuni mesi) effettuati per ridurre i fastidiosi sintomi della menopausa, né ai trattamenti effettuati nelle donne più giovani, ad esempio per una menopausa precoce: in questi casi i vantaggi possono essere superiori ai rischi. Inoltre il WHI non fornisce informazioni sul trattamento con estrogeni non associati a progestinici, che però possono essere dati solo a donne isterectomizzate.

Le critiche allo studio WHI

Lo studio è stato criticato perché includeva donne in media più anziane di quelle che normalmente assumono estrogeni associati a progestinici per la menopausa in Italia, e inoltre perché vi sarebbe stata una maggiore presenza di donne a rischio vascolare (diabetiche, ipertese, o in sovrappeso). L’obiezione è infondata: nello studio WHI non risultano differenze in base all’età, alla pressione arteriosa, al peso o alla presenza di diabete, e i risultati sono quindi validi indipendentemente dall’età delle donne, dal peso, dalla pressione arteriosa e dalle diverse altre situazioni considerate. Peraltro si può presumere che nelle donne più giovani anche i vantaggi sulle fratture da osteoporosi e sulla prevenzione dei tumori del colon sarebbero in assoluto minori, perché meno a rischio di incorrere in tali  patologie. 

Si è inoltre sostenuto che i cerotti agli estrogeni siano più sicuri delle pillole, ma nonostante quanto riportato da alcuni organi di stampa, non vi sono prove a supporto di questa opinione. Prima di affermarlo sarà necessario effettuare sperimentazioni cliniche altrettanto rigorose (se non altro per non basarsi su impressioni che possono essere ancora una volta smentite).

Infine, secondo alcuni, si sarebbe ingiustamente trascurato il fatto che le donne trattate con estrogeni e progestinici hanno una migliore qualità di vita. A questo proposito va sottolineato che la terapia di breve durata a base di tali farmaci per i sintomi della menopausa non è in discussione, ma in assenza di disturbi del climaterio non è stato finora dimostrato che le donne che li assumono abbiano davvero una migliore qualità di vita per effetto del trattamento: potrebbe darsi, ad esempio, che le donne con una migliore qualità di vita siano più disposte ad utilizzarli delle altre. Comunque buona parte delle interessate interrompe la terapia spontaneamente (in genere non molto tempo dopo la scomparsa dei disturbi) e questo fa presumere che di solito le donne non avvertano  particolari disagi quando smettono. In ogni caso, solo ciascuna singola donna può decidere sulla sua qualità della vita, valutando globalmente con l’aiuto del suo medico i pro e i contro della terapia. 

Raccomandazioni

L’assunzione di estrogeni per ridurre i sintomi che si manifestano all’inizio della menopausa (i più comuni sono vampate, sudorazioni, insonnia e secchezza della vagina) può essere molto utile specialmente se i disturbi sono mal sopportati. Un trattamento breve (alcuni mesi in genere sono sufficienti) comporta in questi casi molti più benefici che rischi, e salvo controindicazioni assolute non c’è nessun motivo per rinunciarvi. Analogamente, nel caso di menopausa precoce (naturale o chirurgica), la terapia può essere opportuna fino all’età media della menopausa nella nostra popolazione (50-51 anni), sempre se non vi sono controindicazioni e sottoponendosi ai necessari controlli.

Non è invece raccomandabile continuare la terapia ormonale sostitutiva oltre il periodo necessario per ridurre i sintomi, almeno dopo aver raggiunto l’età della menopausa naturale. 
Le stesse indicazioni vanno prudenzialmente considerate valide sia per gli estrogeni orali che per quelli in formulazioni transdermiche (cerotti), mentre nelle donne senza utero che assumono solo estrogeni i dati attualmente disponibili sono insufficienti per dare indicazioni precise (vi sono studi in corso). 
Le donne che assumono estrogeni in qualunque formulazione abbinati a progestinici a scopo unicamente preventivo, cioè al di fuori dei casi di terapia dei sintomi o della menopausa precoce, dovrebbero quindi consigliarsi con il loro medico di fiducia circa l’opportunità di smettere il trattamento. 

I benefici che si volevano perseguire con la terapia ormonale sostitutiva (soprattutto prevenzione dell’osteoporosi e delle malattie cardiovascolari) possono essere ottenuti con altre misure, tra le quali spicca per importanza ed efficacia lo stile di vita basato su alimentazione corretta, astensione dal fumo ed esercizio fisico. Nei casi di rischio particolarmente elevato, sono comunque disponibili altri farmaci. 

16 Ottobre  2002 

CSeRMEG - Centro Studi e Ricerche in Medicina Generale; SIMeF - Società Italiana di Medicina di Famiglia; FIMMG - Federazione Italiana Medici di Medicina Generale; AIMEF - Associazione Italiana di Medicina di Famiglia; AssCumi - Associazione Culturale Medici Italiani; EGPRW - European General Practice Research Workshop - Italia; SIQuAS - VRQ - Società Italiana per la Qualità dell'Assistenza  Sanitaria - Verifica e Revisione di Qualità; Heart Care Foundation - Fondazione Italiana per la Lotta alle Malattie Cardiovascolari - ONLUS; AIE - Associazione Italiana di Epidemiologia; ANMCO - Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri; Rivista Occhio Clinico; Coordinamento Tecnico Direttori Dipartimento Servizi Sanitari di Base di ASL Regione Lombardia 

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MEDICINA LEGALE E NORMATIVA SANITARIA


Rubrica gestita dall'ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale Università Cattolica (a cura di D. Z. )

I FANS controindicati in gravidanza

Il Decreto 6 dicembre 2002 (GU n. 3 del 4-1-2003) "Modifica degli stampati di specialità medicinali contenenti antinfiammatori non steroidei" ha imposto la modifica delle schede tecniche e dei foglietti illustrativi dei farmaci antiinfiammatori non steroidei.
Le modifiche, che andranno a regime in occasione dell'immissione in commercio dei lotti successivi al decreto, prevedono, nella voce "Speciali avvertenze e precauzioni d'uso" che venga riportata l'avvertenza "L'uso (di questo farmaco ndr), come di qualsiasi farmaco inibitore della sintesi delle prostaglandine e della cicloossigenasi è sconsigliato nelle donne che intendano iniziare una gravidanza. La somministrazione dovrebbe essere sospesa nelle donne che hanno problemi di fertilità o che sono sottoposte a indagini sulla fertilità."
Sarà necesssario, per i medici, porre attenzione a questa nuova circostanza.

Daniele Zamperini

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La prova della causa di lavoro di una malattia professionale deve essere stabilita con ragionevole certezza

Cassazione, sez. Lavoro n. 5352 del 13 aprile 2002
Il Pretore del lavoro di Trani aveva affermato il diritto di G. B. alla costituzione di rendita per ipoacusia di origine professionale.
L'INAIL proponeva appello, deducendo che la decisione del primo giudice era stata adottata sulla scorta delle sole prove testimoniali, senza esperire consulenza tecnica per l'accertamento delle condizioni di lavoro e di salute dell'assicurato.
Il Tribunale respingeva la richiesta di CTU e, con sentenza del 7 gennaio 1999, rigettava l'appello, richiamando il verbale di visita medica collegiale, disposta dall'INAIL, in esito alla quale il B. era stato riconosciuto affetto da ipoacusia bilaterale nella misura del 16% e ritenendo sufficienti a dimostrare che il lavoro svolto dall'assicurato era stato la causa unica della riscontrata invalidità le risultanze della prova testimoniale, avvalorate dal mancato riscontro di altri fattori causali di carattere extralavorativo, come pure dalla circostanza che l'INAIL aveva concesso una rendita per ipoacusia ad altro lavoratore operante nel medesimo settore di attività dell'appellato.
L'INAIL proponeva ricorso in Cassazione censurando la sentenza impugnata osservando che, in presenza di una ipoacusia, di cui è nota la genesi multifattoriale, la prova della eziologia professionale esige una rigorosa verifica del livello della rumorosità e della esposizione personale e quotidiana del lavoratore, nonché della sussistenza di un diretto nesso causale tra malattia e condizioni di lavoro, da accertare con l'ausilio di specifiche conoscenze e risultati tecnici (fonometrici nel caso di specie), al fine di stabilire che proprio l'attività svolta e non altri fattori ne hanno determinato la insorgenza e provocato la evoluzione.
La Corte respingeva il ricorso richiamando in proposito il proprio costante insegnamento, alla stregua del quale, in ipotesi di malattia professionale non tabellata, la prova della causa di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità, questa può essere, tuttavia, ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità (cfr. Cass. 3 aprile 1992 n.4104;8 luglio 1994 n.6434; 23 aprile 1997 n.3523).
Correttamente si era perciò comportato il Tribunale nel ritenere provata la origine professionale della ipoacusia bilaterale dalla quale il B. era stato riconosciuto affetto in occasione della visita medica collegiale effettuata per disposizione dell'INAIL. L'appellato aveva infatti dimostrato, attraverso la prova testimoniale, di aver lavorato per oltre trent'anni e contemporaneamente a numerosi altri operai (circa 200) nel capannone di una grande industria metalmeccanica dove si tranciavano metalli per la produzione di automobili e si usavano compressori per l'alimentazione di macchine semiautomatiche per la pulizia dei materiali; come l'INAIL avesse riconosciuto la rendita per ipoacusia al 36% a favore di altro lavoratore operante nel medesimo ambiente e settore di attività del B.; come non fossero stati addotti né riscontrati altri fattori, diversi ed indipendenti dall'attività di lavoro, che potessero costituire causa della lamentata affezione.
L'elevata rumorosità dell'ambiente di lavoro non richiedeva certo l'esperimento di una consulenza tecnica, essendo sufficiente a giustificarla il riferimento alla tipologia delle lavorazioni svolte e alla natura dei macchinari presenti nell'ambiente di lavoro.
Né il mancato accoglimento della richiesta di consulenza tecnica era censurabile: la norma, infatti, rende obbligatoria la nomina di un consulente tecnico nei processi relativi a domande di prestazioni previdenziali o assistenziali, per il caso in cui queste richiedano accertamenti tecnici. Ma il Tribunale aveva motivatamente e persuasivamente escluso che tali accertamenti fossero necessari o anche solo utili nel caso concreto.
Per questi motivi il ricorso veniva respinto e l'INAIL condannata al pagamento delle spese di giudizio.

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È colpevole di peculato il dipendente pubblico che fa uso illegittimo del telefono di ufficio

Corte di Cassazione, sez. IV penale n. 30751 del 13 settembre 2002

I fatti

C.R., con più azioni esecutive nel medesimo disegno criminoso, si era appropriato momentaneamente del telefono attivatogli in ragione del suo ufficio, effettuando sessantaquattro chiamate per motivi personali dal 31 marzo al 3 giugno 1998.
Denunciato per il reato di cui agli artt. 81, co. 2° e 314 co. 2°, veniva assolto dal G.U.P. del Tribunale di Campobasso perché il fatto non sussiste. Il G.U.P. sottolineava in particolare la sporadicità e l'importo esiguo delle telefonate.
Il Procuratore della Repubblica proponeva ricorso deducendo che il giudicante aveva arbitrariamente introdotto una sorta di "soglia di punibilità" che non era in alcun modo prevista dalla legge, e sottolineando che l'art. 323 bis c.p., contemplando una specifica circostanza attenuante per i casi di "particolare tenuità" del reato, confermava come anche queste fossero meritevoli di sanzioni penali.
La Cassazione accoglieva il ricorso rilevando oltretutto come la condotta del funzionario non fosse inquadrabile nel cosiddetto "peculato d'uso" di ci al comma 2 del nuovo art. 314 c.p. (applicabile solo nel caso di uso provvisorio della cosa in difformità della destinazione datale nell'organizzazione pubblica;
Nel caso in oggetto, si è invece verificata una vera e definitiva appropriazione degli impulsi elettronici attraverso i quali si trasmette la voce, atteso che l'art. 624, 2° co., c.p. dispone che "agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile anche l'energia elettrica ed ogni altra energia che abbia valore economico".
"Se, quindi, il pubblico ufficiale e l'incaricato di pubblico servizio, disponendo, per ragione dell'ufficio o del servizio, dell'utenza telefonica intestata alla pubblica amministrazione, la utilizza per effettuare chiamate di interesse personale, il fatto lesivo si sostanzia non nell'uso dell'apparecchio telefonico quale oggetto fisico, come ritenuto in sede di merito, bensì nell'appropriazione, che attraverso tale uso si consegue, delle energie, entrate a far parte della sfera di disponibilità della pubblica amministrazione, occorrenti per le conversazioni telefoniche."
L'ipotesi di reato va perciò inquadrata nel peculato ordinario.
Ciò chiarito, la Corte osserva poi come venga concesso (Decreto del Ministro per la Funzione Pubblica del 31 marzo 1994 (in G.U. 28.06.1994, n. 149) l'uso personale del telefono d'ufficio per "casi eccezionali" qualora il dipendente sia effettivamente "compulsato da rilevanti e contingenti esigenze personali". Tale circostanza non appare però dimostrata, nè il numero delle telefonate (sessantaquattro) deporrebbe per una loro episodicità né sporadicità.
Per questi motivi la Corte di Cassazione annullava la sentenza di assoluzione e rinviava gli atti al Tribunale per un nuovo procedimento.

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Il problema (ancora in dibattito) della tassa sulle targhe

Periodicamente si ripresenta il problema se sia o no ancora in vigore l'imposta sulla pubblicità applicata alle targhe che medici o altri operatori sanitari espongono preso la sede della loro attività.
Benchè ci fossero tutte le premesse utili ad una definitiva conclusione, nel senso di un'abolizione di tale imposta, viene segnalato da più parti come alcuni Comuni, con una motivazione o un'altra, esigano ancora il pagamento della tassa.
È utile, quindi, presentare una panoramica generale della normativa riguardante il problema, in modo da poterne trarre utili indirizzi di comportamento.
Occorre intanto operare una distinzione tra le norme che riguardano il medico convenzionato con il SSN rispetto a quanto attenga invece al libero-professionista "puro".

Per il Medico Convenzionato

La prima normativa importante è il D.Lgs del 15/11/93 nr. 507. Questo, al capo I art. 1 esenta dall'imposta: " le insegne, le targhe e simili la cui esposizione sia obbligatoria per disposizione di legge o di regolamento sempre che le dimensioni del mezzo usato, qualora non espressamente stabilite, non superino il mezzo metro quadrato di superficie".
Tale norma riguarda specificatamente il Medico Convenzionato in quanto è tenuto ad esporre al pubblico, in base alle norme della Convenzione, un cartello con l'orario dello studio.
Lo stesso Decreto, all'art. 17, lettera 1 precisava ulteriormente che per targhe con superficie non superiore al mezzo metro quadrato che rechino solo il nominativo del medico e l'orario, non fosse dovuto nessun tributo.
Tale norma veniva poi ulteriormente precisata dalla Risoluzione 125 del 20/05/97 del Ministero delle Finanze (http://www.finanze.it ).
Da tutto ciò è derivata, pacificamente, l'esenzione dalla tassa per i medici che rispettassero questi limiti.
Ma per i medici non-convenzionati, e per quelli che, pur convenzionati, aggiungessero nella targa ult
eriori informazioni che esulassero da quanto concesso, entrava in vigore un diverso articolo dello stesso decreto Legislativo del 1997, il quale stabiliva in modo generalizzato che per targhe con superficie inferiore a 300 cm 2 non è dovuto nessun tributo ( D.Lgs. 507/93, art. 7, comma 2).
La questione poi sembrava definitivamente risolta in seguito alla pubblicazione delle Legge Finanziaria 2002, in quanto veniva stabilito testualmente (art. 17, comma 1 bis, Legge 28.12.01, n. 448): "L'imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali e di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la sede
ove si svolge l'attività cui si riferiscono, di superficie complessiva fino a 5 metri quadrati
".
Questa dizione sembrava in effetti sgombrare il terreno da ogni problema interpretativo a proposito delle tipologie e dei contenuti delle targhe; molti Comuni però hanno disatteso tale norma, con varie motivazioni. In alcuni casi si è operata una sottile distinzione tra "targhe" e "insegne", sostenendosi che le targhe per l'esercizio professionale fossero cosa diversa dalle insegne di cui parla la legge, e che quindi non rientrassero sotto tale ambito. In altri casi si è sostenuto che i medici non rientrassero nell'esenzione in quanto non "produttori di beni o servizi".
Tali interpretazioni appaiono però erronee, sotto diversi aspetti:

I medici sono "produttori di beni e servizi"?

Esaminando la posizione dei professionisti medici (esclusa qualche categoria dipendente) si osserva come, dal punto di vista fiscale, essi vengano inclusi proprio tra i produttori di beni e servizi, con obbligo di aprire una partita IVA.
L’imposta sul Valore Aggiunto ( IVA) viene disciplinata nel nostro ordinamento giuridico dal D.P.R. 633/72 che, all’art. 1 la definisce come un’imposta generale che si applica alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato durante l’esercizio di impresa o di arti e professioni.
Per la sua applicabilità devono essere soddisfatti 3 requisiti che sono:

  1. requisito soggettivo: le cessioni o le prestazioni devono essere effettuate da soggetti nell’esercizio dell’attività;
  2. requisito oggettivo: le operazioni devono consistere in cessioni di beni o prestazioni di servizi;
  3. requisito della territorialità: le cessioni dei beni o le prestazioni dei servizi devono essere effettuate all’interno dello Stato Italiano.

(http://www.buildlab.com/particle.php?ar=111).

Il medico che sia titolare di Partita IVA rientra quindi, per ammissione stessa dello Stato, nella categoria in discussione.
Vogliamo specificare come sia ininfluente il fatto che, nella pratica, il medico ( pur titolare, come abbiamo detto, di P.IVA) non includa il pagamento di tale imposta nelle sue parcelle. Infatti le legge prevede espressamente che alcune tipologie di prestazioni (tra cui quelle destinate alla tutela della salute) vengano esonerate dall'imposta, pur rimanendo, in linea di principio, ad essa soggette. Nel caso di "prestazioni esenti da IVA", l'esenzione opera verso la prestazione, e non verso il prestatore d'opera.
In altre parole si può affermare, perciò, che il medico rimane soggetto ad IVA benchè le sue prestazioni siano esentate dal pagamento dell'imposta.
Da tutto ciò ne deriva che l'obiezione in merito, avanzata da alcuni Comuni, non sia valida, e il medico rientri invece a buon diritto nelle categorie esentate dal pagamento dell'imposta sulle insegne.
Malgrado tutto ciò, la situazione rimaneva nell'ambito dell'incertezza. Sono state emesse ulteriori normative in proposito (Legge 24 aprile 2002, n. 75, di conversione del d. l. 22 febbraio 2002, n. 13).
Particolare importanza assume la Circolare Ministeriale n 3 DPF del 3-5-02, Prot. 14725 /2002/DPF/UFF, (che illustra e chiarisce i termini delle leggi indicate sopra), inviata ai Comuni, all'ANCI e p.c. all'Agenzia delle Entrate.
Essa chiarisce definitivamente e inequivocabilmente i termini della questione, e recita...".è altresì opportuno sottolineare a titolo meramente esemplificativo che devono essere ricomprese tra le fattispecie che godono del beneficio in questione ...(omissis)...i mezzi pubblicitari esposti dai professionisti (medici, avvocati, commercialisti, architetti, ingegneri, ecc.) che possono rientrare nella definizione di cui al citato art 47 DPR 495 del 1992 in quanto assolvono al compito di individuare la sede ove si svolge un'attività economica...".
Vengono pure specificati, nella stessa Circolare n. 3, i limiti del potere autonomo del Comune, in quanto viene precisato che le disposizioni in materia " trovano applicazione sin dall’anno di imposta 2002, indipendentemente, quindi, dalla circostanza che i comuni, nell’esercizio della loro potestà regolamentare, abbiano disciplinato diversamente il canone per l’installazione dei mezzi pubblicitari, ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446".
Inoltre, "...poiché è la legge che definisce le fattispecie da assoggettare al canone - vale a dire ad una prestazione patrimoniale imposta - e quindi i soggetti che sono esclusi dal pagamento dello stesso, dette disposizioni devono intendersi sostitutive di quelle deliberate dal comune con proprio regolamento entro il termine fissato al 31 marzo 2002".
Come viene poi sottolineato, non esistono veri motivi per cui i Comuni dovrebbero opporsi alla concessione di tali esenzioni di imposte, in quanto non ne deriverebbe loro alcun nocumento economico, in quanto la legge prevede anche che il minore introito da essi percepito venga ad essere interamente ripianato dallo Stato.
Un atteggiamento di diniego da parte dei Comuni viene ad assumere quindi un aspetto esclusivamente "punitivo" verso alcune categorie professionali, senza vere motivazioni pratiche.
In conclusione, quindi, a parte qualche caso particolare in cui possano rientrare normative differenti (vincoli paesaggistici, ambientali o simili) la pretesa da parte dei Comuni di continuare a percepire l'imposta sulle targhe professionali dei medici appare in contrasto con le norme in vigore, e quindi illegittima e passibile di fondata opposizione.

Daniele Zamperini 2003 (pubblicato su www.edott.it)

PRINCIPALI NOVITÀ IN GAZZETTA UFFICIALE: mese di febbraio 2003 (a cura di Marco Venuti)

La consultazione dei documenti citati, come pubblicati in Gazzetta Ufficiale, è fornita da "Medico & Leggi" di Marco Venuti: essa è libera fino al giorno 22.03.2003. Per consultarli, cliccare qui

DATA GU TIPO DI DOCUMENTO TITOLO DI CHE TRATTA?
03.02.03 27 Ordinanza del Ministero Salute Misure urgenti in materia di cellule staminali da cordone ombelicale. Proroga dell'ordinanza 11 gennaio 2002 ........
07.02.03 31 Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 308 Regolamento per la determinazione del modello e delle modalità di tenuta del registro dei casi di mesotelioma asbesto correlati ai sensi dell'articolo 36, comma 3, del decreto legislativo n. 277 del 1991 ........
19.02.03 41 Ordinanza del Ministero Salute Sospensione sul territorio nazionale delle sperimentazioni con prodotti per terapia genica che prevedono l'impiego di vettori retrovirali ........
20.02.03 42 Decreto Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali Rivalutazione delle prestazioni economiche erogate dall'INAIL a favore dei medici colpiti da malattie e da lesioni causate dall'azione dei raggi X e delle sostanze radioattive, con decorrenza 1° luglio 2002 ........

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