Gennaio
2002

"PILLOLE"
DI MEDICINA TELEMATICA

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-A.S.M.L.U.C.
-eDott.it  

  Periodico di aggiornamento medico e varie attualita' a cura di: 
Daniele Zamperini dzamperini@bigfoot.com, Raimondo Farinacci raimondo.farinacci@tin.it
Iscrizione gratuita su richiesta. Archivio consultabile su: https://zamperini.tripod.com/pillole.htm e su www.edott.it Il nostro materiale e' liberamente utilizzabile per uso privato. Riproduzione riservata.

AVVISI AI... NAVIGANTI!
- Da febbraio 2002 "Pillole" verra' trasferito sul server di eDott.it che ne curera' la composizione, l' inoltro e un' archiviazione in articoli singoli, piu' facilmente consultabili e archiviabili. Per gli  iscritti non cambiera' nulla, e continueranno a ricevere il file mensile completo.
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-La mitica PIAZZETTA viene messa a disposizione in formato stampabile (Word), compresso e disponibile per il download su "Italiamedica" ( http://zamperini.tripod.com ). Uso personale libero e gratuito,  escluso ogni uso commerciale. I fruitori sono invitati ad inviare una libera offerta a Emergency ( www.emergency.it   ).  Se poi avete una cartolina vecchia o comunque curiosa o pittoresca, inviatela a Daniele Zamperini (Piazza Irnerio 68, 00165, Roma) che ne sta iniziando una collezione (e ve ne sara' grato... :-) )


INDICE GENERALE

  PILLOLE

-Vitamina C e mortalita’ vascolare
-Possono rigenerare le cellule miocardiche
-Forse il caffe’fa male al cuore (se e’ troppo)
-Sfogarsi fa effettivamente bene alla salute
-Dolore da neoplasia poco trattato, ma per scelta del paziente
-Effetto del te’ sull’aggregazione piastrinica e sulla funzione endoteliale nei cardiopatici
-Ulteriore conferma della sicurezza degli anoressizzanti sul cuore
-Il profilattico previene (ma solo in parte) il contagio sessuale dell’ Herpes
-Iperemesi gravidica vinta dallo zenzero
-USA:malattia del motoneurone (SLA ) e sindrome della guerra del Golfo
-Follow up dopo PTCA in pazienti ipertesi : i risultati dello studio ROSETTA .
-La MRI offre nuove opzioni ai cardiopatici
-USA: eccezionale incremento del numero dei pazienti sottoposti a terapie antidislipidemiche.
-Controllo domiciliare a distanza della pressione arteriosa: una utile novita'
-Una proteina antiobesita’ : nuova frontiera terapeutica?

APPROFONDIMENTI

- I problemi della Farmacovigilanza (di D. Zamperini)

MEDICINA LEGALE E NORMATIVA SANITARIA  
Rubrica gestita dall' ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale Universita' Cattolica

- Il nesso di causalità materiale nelle condotte mediche omissive deve essere accertato con probabilità vicina alla certezza (Angelo Fiori, Giuseppe La Monaca, in corso di pubblicazione su "Rivista Italiana di Medicina Legale")

- Meno burocrazia per gli studi medici (D.Z.)

- Principali novita' in Gazzetta Ufficiale mese gennaio 2002 (Marco Venuti)


PILLOLE

Vitamina C e mortalita’ vascolare

La vitamina C (acido ascorbico) e’ considerato generalmente un fattore potenzialmente protettivo nei confronti di molte malattie croniche, in base al suo meccanismo chimico anti-ossidante. Tuttavia tali ipotesi non sono mai state concretamente e obiettivamente dimostrate. Allo scopo di verificare tale assunto, alcuni studiosi hanno studiato per quattro anni un gruppo di circa 20.000 soggetti di eta’ compresa tra i 45 e i 79 anni. Questi soggetti erano sottoposti a regimi variabili di alimentazione integrata con acido ascorbico a diversi dosaggi. I risultati dimostravano alla fine una correlazione inversa tra la concentrazione plasmatica di acido ascorbico e la mortalita’ generale per tutte le cause. Vale a dire che piu’ alta appariva la concentrazione di vitamina C, minore era la mortalita’ generale. Tale correlazione inversa era particolarmente accentuata per le morti di tipo cardiovascolare. Per valutare la variazione di rischio tra i vari soggetti con diversa integrazione e' stato calcolato che, l’assunzione giornaliera di 50gr di frutta e vegetali si associava a una riduzione del 20% del rischio cardiovascolare, indipendentemente dagli altri fattori di rischio noti.
Gli autori commentano quindi che come modeste variazioni nel regime alimentare, con una maggiore inclusione di alimenti contenenti acido ascorbico, potrebbero migliorare sensibilmente la prevenzione delle malattie cardiovascolari.

(Lancet 2001;357:657-63)

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Possono rigenerare le cellule miocardiche

Un recente studio effettuato negli USA ha messo in discussione uno dei dogmi della medicina, vale a dire impossibilita’ di rigenerazione del miocardio sano in seguito a necrosi ischemica.
E’ di comune osservazione infatti come, l’infarto del miocardio esiti in tessuto cicatriziale fibroso con perdita della capacita contrattile e della funzione di pompa del cuore stesso.
I ricercatori hanno pero’ esaminato campioni autoptici di muscolo cardiaco, in pazienti deceduti a distanza di diversi giorni (4-12) per infarto miocardico acuto, in corrispondenza della zona perinfartuale. Sono stati esaminati anche campioni di tessuto miocardico situati lontano dalla lesione ischemica. E’ stato evidenziato, con tecniche immunoistochimiche, l’aumento di incremento statisticamente significativo dei markers di mitosi cellulare (in particolare l’antigene nucleare Ki-67). Tale marker evidenziava un significativo aumento di mitosi cellulare in corrispondenza della lesione miocardica rispetto al tessuto normale lontano dalla lesione, in accordo con l’indice mitotico che appariva aumentato di circa il 250%.
Gli autori concludono quindi che il cuore adulto mantiene capacita’ di replicazione cellulare e quindi, potenzialmente, capacita’ di riparazione di insulti necrotici.
Tale lavoro e’ stato pubblicato su "N.E.J.M." (2001;344:1750-7) e commentato in un editoriale successivo ("N.E.J.M." 2001;344:1785-7) il quale ha confermato le speranze di nuove possibilita’ per la terapia dell’infarto miocardico ma ha anche messo in guardia contro possibili errori metodologici della ricerca, evidenziando soprattutto come la capacita’ rigenerativa rilevata dai ricercatori, sia in valore assoluto modesta e insufficiente a fornire valido supporto terapeutico.
Non e’ inoltre provato che la rigenerazione miocellulare, qualora anche ottenuta, sia in grado di ripristinare l’efficienza del sistema contrattile miocardico.
("Scienza e Management" n. 4/5 Luglio- Ottobre 2001)

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Forse il caffe’fa male al cuore (se e’ troppo)

Era sospettato da tempo che l’ innocuita’ del caffe’ si limiti a consumi moderati, mentre un eccesso di tale bevanda possa provocare disturbi cardiovascolari.
Alcuni ricercatori norvegesi hanno voluto approfondire questo tema esaminando un gruppo di forti bevitori di caffe’ che sono stati obbligati all’astensione della bevanda per sei settimane.
Alla fine di questo periodo e’ stata osservata, in questi soggetti, una riduzione del 10% dei livelli di omocisteina (attualmente considerato fattorei di rischio cardiovascolare) nonche’ un abbassamento significativo dei valori del colesterolo.
Il meccanismo d’azione sembrerebbe legato a una interferenza con i folati, ma le ipotesi come questo si verifichi, sono diverse: si ipotizza che si verifichi un ridotto apporto di folati, conseguente a interferenze sull' assorbimento da parte del caffe’; un' altra ipotesi ventila un' azione farmacologica di qualcuna delle numerose sostanze contenute nel caffe’; nell' infuso, ricco di sostanze non del tutto identificate, potrebbe esserne presente qualcuna in grado di interferire con il metabolismo dei folati e dell’omocisteina.
(Am. J. Clin. Nutr., 2001;14:302)

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Sfogarsi fa effettivamente bene alla salute

L’intuito popolare, una volta tanto concorde con la scienza, sa bene come sia deleterio mantenere un segreto a lungo senza parlarne con nessuno. A tale scopo e’ anche osservata l’utilita’ psicologica, oltre che morale, del sacramento della confessione nel cattolicesimo.
E’ universalmente noto come esperienze dolorose, soprattutto quelle che "si tengono dentro" e non vengono discusse con gli altri, espongono le persone a un alto rischio di malattia, a un maggior ricorso ai servizi dei medici, alla comparsa di vari disturbi psichici e somatici.
Per valutare l’utilita’ della esternazione dei propri sentimenti intimi nella protezione della salute, un ricercatore americano, ha esaminato due gruppi di studenti universitari. Al primo gruppo chiese di dedicare 15 minuti al giorno, per quattro giorni, a scrivere pensieri e sentimenti relativi alle esperienze dolorosamente piu’ importanti della loro vita. Al secondo gruppo, con le stesse modalita’, chiese di descrivere oggetti ed eventi della propria vita quotidiana. Gli scritti venivano poi analizzati mediante un programma computerizzato di analisi linguistica computerizzata (Linguistic Inquiric and World Count) che esaminava in particolare le categorie emozionali e cognitive del linguaggio. Nel corso dell’anno accademico vennero monitorate le visite fatte dagli studenti al "Centro Medico Universitario" e poste a confronto con quelle effettuate nei sei mesi precedenti. Venne evidenziato che chi aveva raccontato le proprie esperienze dolorose aveva diradato le visite allo studio del medico in misura maggiore rispetto ai soggetti di controllo. Alla successiva analisi degli scritti emerse che, i soggetti che avevano fatto uso di un piu’ articolato linguaggio emotivo, esprimendo soprattutto emozioni positive, erano quelli che avevano un miglioramento maggiore nelle loro condizioni di salute generale.
Apparve soprattutto evidente come queste persone presentassero un’evoluzione nel racconto delle loro esperienze dolorose, iniziando generalmente con un libero sfogo delle emozioni e poi proseguendo lasciando sempre piu’ spazio a riflessioni razionali che tendevano a spiegare e a commentare l’evento stesso.
Questo processo, secondo i ricercatori, consente di organizzare e ricordare gli eventi in modo coerente e permette anche di integrare insieme pensieri e sentimenti. Non sarebbe sufficiente quindi la sola espressione delle emozioni ma deve accompagnarsi a un’elaborazione cognitiva dell’evento traumatico. E tutto cio’ comporterebbe una serie di positive ricadute sulla salute, anche fisica degli interessati.
Fonte: "Psicologia contemporanea"- Marzo/Aprile 2001- n.164

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Dolore da neoplasia poco trattato, ma per scelta del paziente

E’ noto come una gran parte dei soggetti affetti da neoplasia terminale presentino una sintomatologia dolorosa di grado variabile, da moderato o severo; tuttavia sembra che solo una parte di essi, poco meno di 1/3, richieda ai propri medici curanti una terapia antidolore.
Dei ricercatori statunitensi hanno esaminato, mediante la tecnica del questionario, quasi mille pazienti terminali, intervistandoli sulla loro qualita’ del dolore e sui rimedi che avevano intrapreso. Risulta dalle interviste come circa la meta’ riferisse un dolore da moderato a severo; di questi circa il 50% si era sottoposto a controllo per la terapia del dolore presso il proprio medico di famiglia e solo il 20% aveva richiesto una visita specialistica per la terapia del dolore.
Si osservava poi come venisse diversamente graduata anche la richiesta della eventuale terapia: in particolare veniva rilevato che del gruppo dei malati terminali che si limitava al controllo presso il proprio medico, solo il 30% richiedeva un aumento della terapia, mentre la maggior parte ha mantenuto la terapia in corso, o addirittura l’aveva diminuita.
Gli autori ipotizzano che i pazienti operino una scelta contraria alla terapia del dolore per il timore di effetti collaterali o di uno scadimento della qualita’ della vita. E’ possibile che questo atteggiamento sia dettato da una particolare diffidenza del malato verso prodotti di cui teme gli effetti collaterali, soprattutto psichici.
Gli autori concludono che sono troppo numerosi i pazienti che non sono adeguatamente trattati per le forme di dolore da cui sono affetti in seguito a una malattia terminale.
Lancet 2001;357:1311-15

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Effetto del te’ sull’aggregazione piastrinica e sulla funzione endoteliale nei cardiopatici

Lo stesso autore ha recentemente pubblicato due interessanti lavori sull’utilizzo del te’ nero (il te’ usato comunemente in occidente, assai diverso nella composizione dal te’ verde, consumato generalmente in oriente).
E’ noto come il te’ sia ricco di flavonoidi antiossidanti, costituiti soprattutto dall’epigallocatechina-gallato, nonche’ altri polifenoli con proprieta’ antiaggregante. Nel primo lavoro (pubblicato su "Arterioscler. Thromb. Vasc. Biol." 2001;21:1084-9) venivano somministrati 450 ml. di te’ o di acqua, a un gruppo di circa 50 cardiopatici randomizzati; si proseguiva poi con un trattamento costituito da 900 ml. al giorno di te’ nero o acqua per 4 settimane, secondo un disegno cross-over. Veniva valutata l’aggregazione piastrinica come risposta all’ADP o al peptide attivatore del recettore trombinico. Non si e’ rilevato nessun effetto statisticamente significativo da parte dei trattamenti somministrati, benche’ il livello plasmatico dei flavonoidi fosse aumentato dopo il trattamento con il te’, indicando l’assorbimento di questi componenti.
L’autore concludeva quindi che il te’ nero non influenza l’aggregabilita’ piastrinica nei soggetti cardiopatici.
Nel secondo lavoro ("Circulation" 2001;104:151-6) lo stesso autore ipotizzava che il te’ potesse ripristinare la funzione endoteliale nei cardiopatici, somministrando te’ nero o acqua, sempre con disegno di tipo cross-over simile al precedente, a 66 coronaropatici.
Venivano valutati gli effetti a breve termine (due ore dopo) e a lungo termine (dopo 4 settimane di trattamento) della somministrazione di te’; a questo fine veniva valutata la funzione vasomotoria dell’arteria brachiale mediante ultrasuonografia. Tale funzione migliorava dopo consumo di te’, sia a breve che a lungo termine, con differenza statisticamente significativa verso il gruppo trattato con acqua. Il consumo di te’ non aveva invece alcun effetto sulla dilatazione indotta dalla nitroglicerina essendo una vasodilatazione endotelio-indipendente.
L’autore concludeva percio’ che l’effetto benefico del te’ rilevato nei soggetti cardiopatici, potesse derivare non tanto dalla sua capacita’ antiaggregante piastrinica, dimostrata in vitro ma non confermata in vivo, quanto dalla sua capacita’ di ripristinare la funzione endoteliale, compromessa nei cardiopatici.

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Ulteriore conferma della sicurezza degli anoressizzanti sul cuore

Diversi farmaci anoressizzanti sono stati ritirati dal mercato negli anni scorsi per la segnalazione di un possibile aumento di rischio di malattie cardiovascolari. Gia’ uno studio pubblicato su "Am. Intern. Med." (2001;134:261-6) aveva evidenziato la mancanza di evolutivita’ e la scarsa importanza clinica delle valvulopatie da anoressizzanti. Un ulteriore studio, pubblicato recentemente, ha tenuto sotto controllo 530 donne, randomizzate, per ricevere fenfluramina o placebo per tre mesi, nel contesto di un programma di intervento per l’abbandono di abitudine al fumo. Dopo un periodo di circa quattro anni e mezzo, venivano controllate le condizioni cardiache dei soggetti, senza riscontrare alcuna variabile ecograficamente rilevante, sia nel gruppo trattato con fenfluramina che in quello trattato con placebo. Nessun paziente trattato con fenfluramina ha presentato alcun evento cardiaco clinicamente rilevante.
Questo studio conferma quanto gia’ sospettato, circa la scarsa importanza clinica dell’interessamento cardiaco conseguente all’uso di fenfluramina.
(Arc. Intern. Med. 2001;161:1429-1436)

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Il profilattico previene (ma solo in parte) il contagio sessuale dell’ Herpes

Uno degli agenti infettivi a trasmissione sessuale piu’ diffusi nel mondo e’ l’ Herpes simplex di tipo 2 (HSW2) diffuso particolarmente negli Usa, ove ha acquistato un andamento quasi epidemico.
Viene comunemente usato, a scopo preventivo, il profilattico ma, non esistono dati chiari che confermino l’utilita’ di questo presidio nella trasmissione della malattia.
Un gruppo di ricercatori americani ha voluto esaminare questo aspetto basandosi sui dati raccolti in uno studio precedente. Si trattava di un trial con un vaccino anti HSW2, che pero’ non si era rivelato efficace come era nelle speranze. Si trattava di oltre 500 coppie monogame, nelle quali uno dei due partner era positivo per l’infezione da HSW2. L’analisi dei dati raccolti in questa occasione, ha evidenziato come il preservativo venisse usato in percentuali variabili e non in tutti i rapporti sessuali. Tuttavia l’uso almeno nel 25% dei rapporti, si dimostrava in grado di ridurre il rischio di contagio dall’uomo alla donna. Questo dato non veniva pero’ confermato quando l’infezione era trasmessa dalla donna all’uomo. In questi casi l’uso saltuario del profilattico non si rilevava utile. Veniva evidenziata anche un’altra serie di fattori di rischio: l’eta’ giovanile, la sieropositivita’ per HSW2 o HSW1 e la frequenza della attivita’ sessuale.
In complesso i ricercatori confermavano pero’ il valore del profilattico nella prevenzione del contagio delle malattie trasmesse sessualmente, anche se con i limiti esposti sopra.
(Jama 2001;285:30100-6)

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Iperemesi gravidica vinta dallo zenzero

Un gruppo di ricercatori tailandesi ha voluto valutare mediante uno studio in doppio cieco randomizzato l’utilita’ dello zenzero nella nausea e vomito gravidici.
Gli autori hanno trattato 70 donne in gravidanza con somministrazione di un grammo al giorno (diviso in singole dosi di 250 mg.) di radici di zenzero fresco tritato. Veniva osservata una riduzione degli episodi di vomito, nonche’ una netta diminuzione della sintomatologia soggettiva (nausea). Non veniva osservato effetto collaterale di nessun genere.
Ovviamente lo studio richiedera’ una conferma mediante studi piu’ ampi; sara’ inoltre necessaria l’individuazione precisa dei principi attivi contenuti nella radice dello zenzero, ma non e’ possibile nascondere la potenziale utilita’ di questo rimedio in questo disturbo non grave ma estremamente frequente e fastidioso nella donna gravida.

J Obstet. Gynecol. 2001;97:577-582

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USA:malattia del motoneurone (SLA ) e sindrome della guerra del Golfo

Anthony Principi (US secretary of Veterans affair) ha dichiarato che la malattia del motoneurone è connessa con il servizio prestato durante la Guerra Del Golfo.
Il Department of Veterans Affair ha reso noti i risultati preliminari di uno studio governativo che ha coinvolto 2 milioni e mezzo di militari statunitensi.
Lo studio, condotto in North Carolina presso l’ospedale di Durnham e presso la Duke University e diretto dal Dr R.Horner , ha rilevato 40 casi di malattia del motoneurone trai 700.000 veterani impiegati nella Guerra del Golfo dall’Agosto1990 al Luglio 1991 ( 6,7 casi /milione).
Trai soldati non impiegati nel Golfo ( 1,8 milioni) 67 ammalarono di malattia del motoneurone cioè 3,5 casi per milione.
Circa 100.000 soldati impiegati nel Golfo hanno lamentato un ampio ventaglio di sintomi complessivamente etichettato come " Sindrome della Guerra del Golfo". Gli studi prodotti dai 193 progetti di ricerca governativi, pur avendo suggerito quali fattori eziologici lo stress, l’esposizione ad agenti chimici, l’uso di medicinali per profilassi, non hanno trovato un definito nesso causale.
La malattia del Motoneurone colpisce usualmente persone di mezza età , ma tra i veterani del Golfo ha colpito una popolazione molto più giovane ,la causa è sconosciuta e al momento non esistono terapie efficaci.
BMJ 2002;324:65 ( 12 January )

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Follow up dopo PTCA in pazienti ipertesi : i risultati dello studio ROSETTA .

L’ipertensione è un fattore di rischio importante per malattia coronarica ma l’impatto della ipertensione sui pazienti che subiscono un ‘angioplastica coronarica percutanea (PTCA) è ignoto. Scopo dello studio è quello di valutare l’associazione tra ipertensione, eventi avversi e ripetizione di procedure cardiache durante il periodo di 6 mesi dopo la PTCA.
791 pazienti sono stati i pazienti iscritti nello studio ROSETTA ; sono stati comparati 411 pazienti ipertesi ( età 60.1 ± 10 anni, 31.1% femmina) con 380 pazienti normotesi (età 59.1 ± 12 anni, 16.2% femmina). I pazienti ipertesi hanno avuto un più alta incidenza di eventi clinici avversi (angina instabile, infarto, morte) rispetto ai pazienti normotesi (16.5% vs 10.5%, P = .017). C’è stato ,inoltre , un aumento del numero di procedure cardiache (angiografia, PTCA ripetuta, bypass coronarici) per i pazienti ipertesi (19.8% vs 14.9%, P = .074). I Test funzionali (Treadmill test) dopo PTCA sono stati peggiori nei soggetti ipertesi (44.4% vs 54.0%, P = .008). L’analisi di regressione ha mostrato che fra i 411 pazienti ipertesi molte variabili indipendenti erano associate con l’aumento del tasso a 6 mesi di eventi avversi: classe III-IV di Killip pre-PTCA (OR 5.7, 95% CI 1.7-19.0), classe di angina III-IV della Società Cardiovascolare Canadese (OR 2.1, 95% CI 1.1-4.2),angina instabile come indicazione per PTCA (OR 2.3, 95% CI 1.2-4.3), malattia vascolare periferica (OR 3.2, 95% CI 1.5-6.4), PTCA di un bypass(OR 3.1, 95% CI 1.2-7.6), e uso di calcio antagonisti (OR 1.9, 95% CI 1.1-3.4).
Conclusioni Durante i 6 mesi post PTCA i pazienti con ipertensione hanno un tasso di eventi avversi significativamente più alto dei pazienti normotesi. Molte variabili cliniche possono aiutarci ad identificare i pazienti ipertesi che sono a rischio più alto per eventi clinici.

Am Heart J 2002;143:124-9. January 2002

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La MRI offre nuove opzioni ai cardiopatici

Una nuova metodica non invasiva è stata messa a punto per la diagnosi di malattia coronarica.
L’angiografia coronarica mediante risonanza magnetica tridimensionale sembra essere una metodica accurata e affidabile per la diagnosi delle lesioni dei segmenti prossimali e mediali delle coranarie.
Il Dr. Warren Mannig e colleghi del Beth Israel Deaconess Medical Center, Boston hanno effettuato angiografia coronarica con risonanza magnetica in 109 pazienti prima di sottoporli a coronarografia tradizionale e quindi hanno paragonato i risultati.
La risonanza magnetica è riuscita ha valutare l’84 % dei segmenti prossimali e medi delle coronarie. In questi segmenti l’83% dei casi di lesioni clinicamente significative sono stati rilevati anche dalla RM .L’angiografia con RM ha raggiunto un indice di accuratezza pari al 72% nella diagnosi di malattia coronarica.
Per i pazienti con malattia del ramo principale della coronaria sx o con malattia dei tre vasi la sensibilità della angiografia con RM fu del 100% con una specificità dell’85% e una accuratezza dell’87%.Il valore predittivo per malattia coronarica in genere fu dell81%, per malattia coronarica sx o per malattia dei tre vasi del 100%.
La coronarografia convenzionale rimane la metodica standard per l’alta qualità dell’immagine, tuttavia è una tecnica invasiva con potenziali rischi mortali e comporta ospedalizzazione , costi e tempi elevati. Il maggior vantaggio della MRI consiste nel non dover usare mezzo di contrasto e radiazioni ionizzanti, tuttavia presenta lo svantaggio della possibilità di artefatti causati dal movimento cardiaco e dagli atti respiratori e il suo uso è limitato nei pazienti claustrofobici e con impianti metallici. .

BMJ 2002;324:89-90 ( 12 January )

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USA: eccezionale incremento del numero dei pazienti sottoposti a terapie antidislipidemiche.

Le nuove linee guida per l’uso dei farmaci ipocolesterolemizzanti raddoppieranno il numero di pazienti candidati all’uso di statine.
Le raccomandazioni contenute nel NCEP III ( III report of National Cholesterol Education Program) prevedono l’uso di terapia farmacologica per pazienti con fattori di rischio cardiovascolari e LDL Colesterolo pari a 130 mg /dl invece dei 160 / mg /dl previsti nel precedente NCEP II .
Le nuove raccomandazioni traggono spunto da uno studio condotto su 13589 soggetti di età compresa tra 20 e 79 anni che pur presentando fattori di rischio per malattia coronarica non avevano ancora avuto un infarto o altro evento riconducibile a malattia coronarica.
In accordo con quanto consigliato dal NCEP III il numero di Americani a cui verrà consigliata terapia farmacologica salirà a 36 milioni rispetto ai 15 milioni attuali e gran parte di questi avrà meno di 45 anni e molti verranno sottoposti a trattamento farmacologico aggressivo per ottenere una riduzione del LDL colesterolo sotto i 100 mg /dl.
Sidney Smith capo del comitato scientifico del American Heart Association afferma che il messaggio importante è che grazie alle nuove linee guida molti pazienti potranno beneficiare della terapia ipocolesterolemizzante sulla base del personale profilo di rischio cardiovascolare, ciononostante, aggiunge è bene rammentare che la dieta e l’esercizio fisico sono altrettanto importanti nella strategia terapeutica .
Nonostante il buon profilo di tollerabilità e sicurezza dei farmaci ipocolesterolemizzanti ( con le eccezioni ormai note) nessuno conosce bene gli effetti di una terapia a lungo termine e pertanto con il grande aumento di soggetti giovani sottoposti a terapia con statine è indispensabile una rigorosa farmacovigilanza per rilevare effetti avversi e indesiderati di questi farmaci.

The Lancet 2002;359:234.(january 19)

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Controllo domiciliare a distanza della pressione arteriosa: una utile novita'

Alcuni ricercatori americani hanno voluto studiare l’utilita’ del controllo a distanza della pressione arteriosa nei soggetti ipertesi onde valutare le eventuali differenze nei risultati terapeutici e nel controllo dell’ipertensione stessa. Hanno percio’ esaminato circa 120 pazienti adulti ipertesi e randomizzati in due gruppi: il primo gruppo veniva controllato in ambulatorio con i metodi tradizionali dal medico di famiglia; il secondo gruppo invece si serviva di un mezzo informatizzato con trasmissione elettronica dei valori pressori, a cadenza settimanale, a un centro medico di riferimento. E’ stata evidenziata una significativa differenza circa l’equilibrio pressorio dei due gruppi: il gruppo trattato con la metodica della trasmissione informatica dei dati, ha presentato una riduzione media della pressione di 2,8 mmHg; il gruppo invece seguito tradizionalmente, presentava addirittura un incremento della pressione arteriosa di 1,3 mmHg. 
Non si rilevava una differenza sostanziale di andamento per quanto riguardava la pressione sistolica o diastolica, che si muovevano consensualmente.
La differenza dei risultati veniva attribuita essenzialmente al fatto che, i pazienti seguiti per via telematica, avevano controlli piu’ frequenti regolari e un aggiustamento piu’ frequente dei dosaggi dei farmaci ipotensivi, mentre tale adeguamento risultava inferiore nei pazienti seguiti col metodo tradizionale.
Gli autori concludono percio’ che l’uso di queste nuove tecnologie puo’ essere di valido aiuto nel controllo della terapia dell’ipertensione arteriosa essenziale.
(A. Intern. Med. 2001;134:1024-32)

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Una proteina antiobesita’ : nuova frontiera terapeutica?

E’ stata identificata una proteina che sembra favorire la perdita di peso nei soggetti che si alimentino anche con una dieta ipercalorica ricca di grassi e zuccheri.
Tale proteina chiamata "Acrp30" viene prodotta dalle cellule grasse, e diminuisce la sua espressione sia nei soggetti umani affetti da obesita’, sia nei topi sperimentalmente obesi.
Non e’ ancora definita chiaramente pero’ la sua precisa funzione. E’ stato documentato che i topi iniettati con "Acrp30" e nutriti con una dieta ricca di grassi e di zuccheri, hanno perso il 35% del loro peso corporeo totale in dieci giorni, e oltre il 7% in 16 giorni. Questo dato confermerebbe il ruolo di questa proteina nel mantenimento del peso corporeo; e’ stato ipotizzato che, la sua attivita’ sia legata all’aumentata capacita’ delle cellule muscolari di bruciare i grassi.
E’ possibile percio’ che ulteriori studi portino all’uso di questa proteina o di un suo derivato, nella regolazione del peso corporeo e potrebbero favorire per cui il controllo del peso senza bisogno di diete ipocaloriche.
Proceedings off the National Accademy off Sciences" 2001;98:2005-2010

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     APPROFONDIMENTI

I PROBLEMI DELLA FARMACOVIGILANZA

Dall’ esplosione del "caso Cerivastatina" e’ tornato in primo piano l’ annoso e dibattuto problema della Farmacovigilanza. In particolare si discute dell’ efficienza della struttura, della necessita’ di eventuali cambiamenti, dell’ adeguatezza delle normative. Nessuna categoria medica e’ stata risparmiata dalle critiche sulla cattiva gestione dei meccanismi della farmacovigilanza.

Cos’e’ la farmacovigilanza?
La farmacovigilanza puo’ essere definita, in poche parole, come la tecnica con la quale il medico, l’autorita’ sanitaria e l’azienda farmaceutica produttrice si adoperano al fine di conoscere e monitorare gli effetti indesiderati dei farmaci e quindi al fine di prevenirne le conseguenze negative per il paziente. Il termine stesso utilizzato per indicare tale attivita’ sta a indicare come debba esistere uno stato di attenzione e una capacita’ di intervento che devono essere mantenute per tutte le prescrizioni e per tutta la durata di commercializzazione del farmaco.

Utilita’ della farmacovigilanza: (Strom e al., 1979):

  1. Nuove informazioni sul profilo d’ impiego del farmaco.
  2. Complemento agli studi di Fase 1-3 :
  1. Aumento di sensibilita’
  2. Maggior durata dell’ osservazione del farmaco
  3. Estensione del campione a tutti i soggetti che assumono il farmaco
  1. parziale sostituzione (in futuro) della Fase 3
  2. sistematica e rapida informazione ai medici con arricchimento delle conoscenze scientifiche
  3. impiego piu’ consapevole dei farmaci.

Basi normative

Gli impegni della farmacovigilanza coinvolgono tutte le categorie mediche, dipendenti, convenzionati o libero-professionisti. E’ previsto che anche il semplice cittadino possa segnalare autonomamente alla ASL eventuali effetti collaterali dei farmaci. La normativa in oggetto risale inizialmente alla legge n. 531 del 29/12/87; sono poi intervenute successivamente la legge 52/1996, il Decreto Legislativo 18/2/1997 n. 44 e il successivo DMS 07.08.97, noche’ varie integrazioni (Circolare Min. San. 29/9/1999 n. 15 G. U. n. 246 del 19/10/1999, la Direttiva CEE 2000/38/CE del 5/6/2000 ecc.).
Benche’ la normativa italiana sia molto avanzata, in realta’, le segnalazione di effetti avversi da farmaci sono numericamente scarse se raffrontate con quelle di altre nazioni europee. La maggior parte di esse, inoltre, provengono da ospedali o altre strutture pubbliche. Numericamente scarse sono invece le segnalazioni effettuate dai medici di famiglia e dai medici libero-professionisti. Cio’ e’ indice di scarsa attenzione al problema ma anche di una carenza culturale di base e ad una serie di problemi burocratici.

Definizioni:

La legge fornisce una serie di definizioni sull’ oggetto delle segnalazioni di farmacovigilanza:

-Effetto collaterale negativo o reazione avversa: reazione "nociva e non voluta" che si verifica alle dosi terapeutiche normali del farmaco.

-Grave effetto collaterale negativo o reazione avversa grave: una reazione avversa ad esito letale o tale da minacciare la sopravvivenza o che crea invalidita’, incapacita’ o che provoca o prolunga un ricovero in ospedale.

-Effetto collaterale inatteso o reazione inattesa: e’ una reazione la cui natura non e’ indicata o non corrisponde a quanto riportato nella scheda tecnica del prodotto.

-Grave e inatteso effetto collaterale o reazione grave e inattesa: effetto che, oltre ad essere inatteso, e’ connotato da caratteristiche di gravita’.

Le definizioni di reazione avversa non sono univoche e si differenziano a seconda dell’ Ente e dell’ Autore che le emette. In comune hanno tutte, pero’, il fatto che debbano essere nocive e non volute.

Modalita’ di inoltro

Secondo la normativa attuale l’effetto negativo di un farmaco va segnalato mediante apposito modello all’Azienda Unita’ Sanitaria Locale in cui tale evento e’ stato riscontrato. L’Azienda a sua volta trasmette periodicamente (ogni sei mesi) il riepilogo delle segnalazioni ricevute al Centro di Farmacovigilanza avente sede presso la Direzione Generale del Servizio Farmaceutico del Ministero della Sanita’. Il modello predisposto dalMinistero riporta una serie di campi da riempire con le necessarie informazioni. In base alla L. 29/12/1987 n. 531 e successive integrazioni (circolare Min. San. 29/9/1999 n. 15 G. U. n. 246 del 19/10/1999 " Integrazioni alla circolare 24 settembre 1997 n.12 - Trasmissione delle segnalazioni di reazioni avverse") e’ obbligatorio riempire solo alcuni campi, mentre altri restano facoltativi, come verra’ dettagliato in seguito.
Il medico dipendente dell’Ospedale o di un’Azienda Pubblica deve inoltrare la segnalazione alla Direzione Sanitaria dell’Ente di appartenenza che provvedera’ al successivo iter.
Il medico di famiglia (o altro medico, anche libero-professionista, operante sul territorio), deve compilare l’apposito modello (all. A, D.M. San. 28/7/ 1984 G.U. n. 232 del 23/8/84) nei suoi campi obbligatori e inoltrarlo alla ASL; e’ consentito, in alternativa, l’ inoltro diretto al Ministero oppure alla Ditta Farmaceutica produttrice del farmaco. Questa e’ tenuta, a sua volta, a trasmettere tali rapporti al Ministero con diversa cadenza, dipendente dalla gravita’ della reazione secondaria riscontrata. Il modulo per la segnalazione degli effetti collaterali viene trasmesso a tutti i medici tramite il Bollettino di Informazione sui Farmaci (gestito dal Ministero della Salute/Sanita’) e puo’ essere richiesto agli informatori farmaceutici.
L’ omissione di segnalazione di effetti avversi comporta l’ apertura di provvedimento disciplinare. Inoltre, in base al D. Legisl. N. 44 " i medici, i farmacisti, i sanitari ed i legali rappresentanti delle aziende sanitarie locali e delle direzioni sanitarie che violano l'obbligo di segnalazione delle reazioni avverse di cui all'articolo 4, sono puniti con l'ammenda da lire un milione a lire dieci milioni e con l'arresto fino a sei mesi".

Cosa segnalare?

La normativa attuale prevede che il medico debba segnalare "tutti" gli effetti avversi di farmaci di cui sia venuto a conoscenza.
La legge 29/12/1987 n. 531 specificava all’ art. 9 che " Le ASL sono tenute a trasmettere al Ministero della Sanita’ … una relazione sulle prescrizioni e sulla natura e frequenza degli effetti tossici e secondari, sia locali che generali, conseguenti o comunque correlabili all’ impiego di farmaci…". Tale dizione non e’ stata riportata espressamente nelle successive modifiche normative, che tuttavia non ne hanno modificato il senso.
Sebbene l’ interpretazione prevalente sostenga, in base alle norme esposte sopra, che vadano segnalati "tutti" gli effetti collaterali, di qualsiasi gravita’ e frequenza e notorieta’ (per i fini statistico-epidemiologici previsti dalla legge), una interpretazione piu’ restrittiva (minoritaria, a dire il vero) sostiene invece che vadano segnalati solo i casi di effetti collaterali gravi o sconosciuti.
Questa interpretazione non sembra pero’ sostenibile alla luce dei reiterati chiarimenti ministeriali, portati a conoscenza dei medici in varie occasioni: Il decreto legislativo 44/97 all’ art. 4, comma 1 dice: "I medici sono tenuti a segnalare ogni presunta reazione avversa, della quale vangano a conoscenza nell'esercizio dell'attivita' professionale."
Il Boll. Inform. Farmaci (Come cambia la farmacovigilanza, n. 2 novembre 1997) ribadisce:: "Devono essere segnalate tutte le reazioni avverse sospette". La reazione avversa, lo ricordiamo, e’ una reazione "nociva e non voluta" che si verifica alle dosi terapeutiche normali del farmaco. Il fatto poi che venga richiesta obbligatoriamente la compilazione del campo 11 (reazione gia’ segnalata o no in scheda tecnica) indica chiaramente che anche le reazioni avverse gia’ note devono essere segnalate. Tale necessita’ si giustifica col bisogno di ottemperare alle disposizioni CEE riguardanti le valutazioni statistiche degli effetti secondari dei farmaci.
Viene inoltre specificato, a proposito del campo 8 (gravita’ della reazione) che in caso di reazione "non grave" "… il segnalatore puo’ scegliere se scrivere "non grave" ,… barrare l’ intero campo, o semplicemente lasciarlo in bianco". Cio’ indica chiaramente come anche le reazioni avverse non gravi, purche’ "nocive e non volute" devono essere segnalate.
I tempi di inoltro sono diversi, in base al D. Lgs. n. 44 del 18/02/97 i medici devono inoltrare le schede di seganlazione di reazione avversa da farmaci entro tre giorni nel caso di reazioni avverse gravi, ed entro sei giorni negli altri casi.
La raccolta e il confronto delle segnalazioni di eventi indesiderati o inaspettati, anche lievi, ha per obiettivo l’ identificazione precoce di nuovi effetti collaterali, non ancora identificati nel corso degli studi di registrazione e al fine di controllo su prodotti potenzialmente nocivi. Il Regolamento Europeo 2309/93 del 22 Luglio ’93 prevede che gli Stati dell’Unione Europea informino l’Agenzia Europea per la valutazione dei medicinali operante a Londra dal Gennaio’95.

Struttura della scheda di segnalazione di reazione avversa:

Dal punto di vista pratico: il medico puo’ richiedere la scheda di segnalzione all’ informatore scientifico del farmaco, e possono consegnarla, compilata, allo stesso. Questi provvedera’ agli inoltri successivi.

I problemi della farmacovigilanza

L’ eccessiva genericita’ delle disposizioni di legge, accompagnata oltretutto da gravi sanzioni, ha finito per creare un atteggiamento difensivo da parte dei Sanitari, che temono, un po’ irrazionalmente, di esporsi a conseguenze penali, e vedono inoltre aumentare intollerabilmente il loro carico burocratico.
Infatti e’ ben noto come la somministrazione di qualunque farmaco, in quanto sostanza estranea all’ organismo. si accompagni in altissima percentuale di casi, ad effetti negativi, quasi sempre, pero’, di entita’ e importanza clinica trascurabili. Si pensi ad esempio ai banali disturbi digestivi, alla "pesantezza di stomaco", a banalissimi disturbi locali da farmaci topici.
Per altri farmaci, invece, l’ effetto collaterale e’ indissolubilmente legato all’ azione terapeutica, e inevitabilmente atteso: si pensi ai disturbi derivanti dalle terapie oncologiche, che obbligherebbero i medici a riempire innumerevoli schede di segnalazione sempre uguali da reiterare ad ogni applicazione terapeutica.
L’applicazione troppo rigida delle norme potrebbe percio’ portare a risultati inaspettatamente negativi anche a livello Ministeriale, in quanto gli uffici si troverebbero sommersi da migliaia di segnalazioni banali, insignificanti, arcinote e, in definitiva, inutili.
Ne soffrirebbe anche l’ immagine internazionale dell’ Italia: i dati della farmacosorveglianza vengono confrontati e distribuiti a livello internazionale, per cui potremmo finire per diventare il paese della "pesantezza epigastrica" da farmaci i piu’ disparati, o peggio.
Diventa indispensabile, percio’, delimitare in modo piu’ preciso i limiti di intervento delle procedure di farmacosorveglianza, rendendo facoltative ( o limitate ad alcune fasi della sperimentazione di un farmaco) le segnalazioni di effetti collaterali lievissimi, puramente soggettivi, clinicamente irrilevanti, nonche’ quelle di effetti avversi ormai noti e consolidati in letteratura.
Andrebbe meglio specificato, a questo fine, il concetto di "nocivita’", in quanto e’ molto opinabile (malgrado i criteri della prassi vigente) che alcuni disturbi soggettivi, privi di danni anatomici o funzionali permanenti, possano veramente essere considerati "nocivi".
Una migliore ristrutturazione delle norme, nel senso di una maggiore ragionevolezza e di una depenalizzazione delle sanzioni (con ritorno alle norme precedenti, che prevedevano soltanto provvedimenti disciplinari) potrebbero rasserenare gli animi e migliorare i rapporti delle categorie sanitarie con questo importantissimo meccanismo di verifica e salvaguardia che e’ la farmacovigilanza.

Daniele Zamperini, ("Doctor" ottobre 2001)

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MEDICINA LEGALE E NORMATIVA SANITARIA 
  Rubrica gestita dall' ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale Universita' Cattolica (a cura di D.Z.)

Il nesso di causalità materiale nelle condotte mediche omissive deve essere accertato con probabilità vicina alla certezza.

Medico – Colpa professionale omissiva – Nesso causale con l’evento di danno – Criterio di probabilità vicino alla certezza – Necessità.

CASSAZIONE PENALE, Sez. IV, 28 settembre 2000 n. 1688, Pres. Pioletti. Rel. Battisti – Baltrocchi

La ricerca scientifica impone, con il suo rigore, di interpretare le norme del Codice vigente, sul rapporto di causalità, nel senso che la condotta deve essere condizione necessaria dell’evento.
Se la condotta - azione od omissione - deve essere, per definizione, la condizione necessaria dell’evento, non potrà mai dirsi che una condizione, che avrebbe potuto essere causa soltanto al 50% o al 28%, è stata la condizione necessaria dell’evento.
Le percentuali pari a 50% o 28% di probabilità di evitare un evento di danno attuando una condotta che si è invece colposamente omessa - sono ben lontane dalla "quasi certezza", dall'essere "vicine a cento", come vogliono la scienza, la logica e come, conseguentemente, deve volere il diritto, sono ben lontane, dunque, dal poter essere per il giudice quella legge di copertura necessaria perchè il rapporto di causalità venga costruito in termini scientificamente e, quindi, penalmente soddisfacenti.
La filosofia della scienza, la logica e il diritto esigono che, in tanto il giudice può affermare il rapporto di causalità, anche nei reati omissivi, in quanto - pena anche il rinnegamento del principio di personalità della responsabilità - abbia accertato che, con probabilità vicina alla certezza, con probabilità vicina a cento, quella condotta, azione od omissione, è stata causa necessaria dell'evento come verificatosi hic et nunc.
Il forse è il regno del possibile, il forse non è probabilità vicina alla certezza, non è percentuale di casi vicina a cento, è ben troppo poco per l’affermazione della responsabilità a parità delle altre condizioni necessarie per questa affermazione.
Se la stessa spiegazione del nesso causale nei reati commissivi ha struttura probabilistica, stante la rilevanza ai fini della decisione anche di leggi statistiche, le differenze nel livello di certezza del rispettivo accertamento della causalità reale e della causalità omissiva finiscono, forse, con il ridimensionarsi.
Il giudice non può non tenere conto, nell'esaminare le fattispecie concrete, dei migliori esiti della ricerca scientifico/giuridica, di quegli esiti la cui applicazione alla fattispecie in esame assicuri, al maggior livello possibile, il rispetto dei principi di tassatività e di stretta legalità.

1 - Il pretore di Milano, con sentenza del 2 giugno 1998, assolveva M. B. - medico di turno, il 4 marzo 1995, al Servizio Accettazione Pronto Soccorso dell'ospedale di R. - dalla imputazione di omicidio colposo, in danno di C. V., per non aver commesso il fatto.

2 - Il pretore accertava che, nella serata del 3 marzo 1995, il V., mentre era in casa, aveva accusato un malore e il medico curante, dopo averlo visitato e dopo avere diagnosticato "bronchite cronica e crisi ipertensiva", aveva redatto certificato di ricovero con la diagnosi di: "BPCO - bronco polmonite cronica ostruttiva - riacutizzata, crisi ipertensiva, paziente noto per precedenti ricoveri, pregresso IMA - infarto miocardio acuto -, in terapia con Lanoxin, Capoten 50".
Il V., la mattina del 4 marzo, veniva accompagnato dai familiari al Pronto Soccorso dell'Ospedale di R., dove, dopo alcuni esami, il medico di turno, il dott. B., ritenendo non necessario il ricovero, lo dimetteva prescrivendo una terapia aerosolica ed una visita specialistica da effettuarsi il giorno dopo.
Tornato a casa, il V. vi decedeva in serata.

3 - Il B. veniva citato a giudizio perché rispondesse del reato di omicidio colposo: aveva cagionato la morte del V. per non averne effettuato il ricovero e, comunque, per non averlo tenuto in osservazione e ciò sebbene l'emogasanalisi avesse evidenziato "ipossia, ipercapnia ed alcalosi metabolica", sicché il V., rinviato al proprio domicilio, "era stato privato di tutte le terapie idonee a prevenire e a fronteggiare la crisi cardio-respiratoria a seguito della quale era deceduto".

4 - Il pretore, pur rilevando che la condotta dell'imputato era, certamente, gravemente censurabile, in quanto non si era reso conto, pur dovendolo, delle reali condizioni del paziente, fortemente indicative di una elevata probabilità di morte imminente, riteneva che il B. dovesse essere assolto "non essendo emersi elementi che consentissero di affermare, con sufficiente grado di certezza, la derivazione causale della morte del V. dalle prospettate condotte - omissioni - del sanitario, essendo rimasta dubbia l'idoneità degli ipotetici trattamenti terapeutici alternativi, conformi alle regole di diligenza, a scongiurare il decesso del paziente o, comunque, a diminuirne il pericolo in misura percentualmente rilevante".
"Mancavano - proseguiva il pretore - adeguati fondamenti per affermare che cure ispirate ad aggiornate e sperimentate acquisizioni scientifiche avrebbero quanto meno, spostato nel tempo il decesso ritardandone l'accadimento".
Aggiungeva che, per ritenere il rapporto causale, non poteva utilizzare "criteri di addebito vaghi quali ‘qualche speranza o limitata probabilità o possibilità, non quantificabile esattamente, di salvezza’".

5 - Proponevano appello sia il procuratore generale, sia il procuratore della Repubblica.

I - Il procuratore generale sottolineava che il pretore non aveva tenuto nel debito conto, pur richiamandolo, "il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale là dove è in gioco la vita umana anche solo poche possibilità di esiti favorevoli sono sufficienti a far ritenere la sussistenza del rapporto di causalità". Nel caso in esame, poi, "il perito e i consulenti non avevano affatto escluso che trattamenti adeguati avrebbero potuto dare qualche possibilità di esito favorevole, ma avevano espresso solo il dubbio che detti trattamenti potessero effettivamente impedire il decesso del V.".

II - Il procuratore della Repubblica, dopo aver svolto tutta una serie di considerazioni per dimostrare che era stata raggiunta la prova della necessità del ricovero del V. e della necessità di più approfonditi accertamenti diagnostici anche a fronte di una minima probabilità di successo, osservava che "la stessa giurisprudenza di legittimità è nel senso che sussiste il nesso di causalità tra la condotta e l'evento anche se l’intervento del sanitario offre non già la certezza bensì serie ed apprezzabili possibilità di successo, tal che la vita del paziente possa essere salvata con certa probabilità".

6 - La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 19 novembre 1999, in riforma della sentenza del pretore, dichiarava l'imputato colpevole del reato ascrittogli condannandolo alle pene di legge.
La corte, posto in rilievo che "l'avere il B. dimesso il V. con un quadro di emogasanalisi patologico configurava comportamento gravemente colposo" e che, pertanto, "era pienamente giustificata e condivisibile la conclusione cui erano pervenuti i consulenti del p.m., secondo i quali ‘l'emogasanalisi, francamente patologica, doveva necessariamente sollecitare provvedimenti terapeutici e condurre alla decisione di, quanto meno, tenere in osservazione il paziente’", si soffermava sul nesso di causalità con le seguenti proposizioni.

a - "Due osservazioni dovevano essere fatte in ordine alle conclusioni del perito:

I - questi non aveva affermato che una terapia adeguata non avrebbe evitato nell’immediato l'evento morte;

II - le probabilità, ritenute dal perito, di sopravvivenza di mesi o anche di settimane erano inferiori al 50%, ma non erano irrilevanti, come da statistiche in nota, anche se molto limitate: in dibattimento il Perito ha affermato che era da ritenere che ad 80 anni, con una grave cardiopatia, con un fibrotorace, queste probabilità fossero estremamente basse";

III - "non dissimili erano state le conclusioni dei consulenti del p.m., della parte civile e della difesa".

IV – "Tali essendo le conclusioni del perito e dei consulenti tecnici, l'affermazione del primo giudice che ‘mancavano adeguati fondamenti per affermare che cure ispirate ed aggiornate acquisizioni scientifiche avrebbero quanto meno spostato nel tempo il decorso ritardandone l’accadimento non appariva fondata in fatto, dal momento che lo stesso pretore aveva ritenuto che nelle fattispecie omissive improprie non occorre la certezza che il comportamento positivo avrebbe impedito l'evento ma è sufficiente ‘una spiegazione probabilistica del non accadimento di esso e, nel caso in esame, vi erano elevate probabilità che 1'evento morte - così come verificatosi a distanza di poche ore dal controllo medico al Pronto Soccorso - potesse essere evitato".

V - "Ma, nemmeno appariva fondata in diritto la tesi sostenuta dal primo giudice secondo cui il nesso di causalità sarebbe escluso quando vi siano non elevate probabilità, ma solo alcune concrete possibilità che il comportamento positivo richiesto - ed omesso - avrebbe impedito l'evento", ché, "secondo il consolidato insegnamento del giudice di legittimità, in tema di responsabilità per colpa professionale sanitaria, il rapporto di causalità tra la condotta omissiva colposa del sanitario e l'evento mortale che ad essa abbia fatto seguito è ravvisabile se il comportamento, non tenuto, ma astrattamente ipotizzabile, conforme a prudenza e perizia, aveva serie ed apprezzabili possibilità di successo, fermo che, là dove è in gioco la vita umana, anche solo poche possibilità di esito favorevole sono sufficienti per far ritenere la sussistenza del rapporto predetto".

7 - Il difensore ricorre per cassazione con due motivi denunciando, con il primo, "manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo, laddove si ritiene che ‘la decisione di dimettere il paziente fu un grave errore diagnostico e terapeutico che configura colpa professionale grave del sanitario’" e, con il secondo, "manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo laddove la corte di appello discredita la tesi del giudice di primo grado sulla esclusione del nesso di causalità tra l'operato del sanitario e l'evento mortale, tesi formulata dal pretore perché nessuno degli esperti esaminati - consulenti tecnici e perito - era stato in grado di pervenire con convinzione ad un favorevole giudizio prognostico riguardo alla effettiva possibilità di sopravvivenza per il deceduto oltre la sera del 4 marzo 1995".
Deduce che la corte di merito erra nell'affermare che "vi erano elevate probabilità che l'evento morte, così come verificatosi, a distanza di poche ore dal controllo del medico del Pronto Soccorso, potesse essere evitato se il B. avesse fatto ciò che doveva"; ed erra sia perché, secondo la stessa corte, il perito e i consulenti avevano detto che "le probabilità di sopravvivenza di ore, giorni, settimane, mesi, erano inferiori al 50%", sia perché, sempre secondo la corte, - pag. 18 - ciò significava che "non erano irrilevanti, anche se molto limitate", le probabilità di sopravvivenza, sia perché, infine, è la corte che, a questo punto, cita quanto affermato dal perito in dibattimento: "ad 80 anni, con una grave cardiopatia, con un fibrotorace sinistro, queste probabilità erano estremamente basse".
Motivi della decisione.

1. Il secondo motivo - la censura sul nesso di causalità ritenuto dalla corte di appello - è fondato, fondatezza che, per quel che si dirà, importa l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non sussiste, il che esime dal soffermarsi sul primo motivo, con il quale è stata denunciata, quanto alla colpa, la mancanza di motivazione e la illogicità della sentenza: se, nella specie, il rapporto di causalità non sussiste, costituirebbe vano esercizio porsi a risolvere il problema della rimproverabilità o esigibilità della condotta.

2 - Questa suprema corte da ormai un decennio - Cass., sez IV, 6 dicembre 1990, Bonetti e, in seguito, tra le altre, Cass., 27 maggio 1993, Cass. pen., 1995, 2900 - ha fatto proprie, in tema di rapporto di causalità, le riflessioni della migliore dottrina e le conclusioni cui la stessa è pervenuta.

I - In quella sede la corte di cassazione dava ormai per acquisito che, come si esprime, sull'argomento, una delle voci più autorevoli della dottrina, "il problema causale nel processo penale consiste nello stabilire, attraverso la formulazione di un giudizio controfattuale - di un giudizio, cioè, compiuto pensando assente (contro i fatti) una determina condizione e chiedendosi se, nella situazione così mutata, sarebbe stata da aspettarsi, oppure no, la medesima conseguenza - se la condotta dell'uomo sia oppure no raffigurabile come condizione necessaria dell’evento o, meno tecnicamente, come circostanza responsabile dell'accaduto".
Si è anche chiarito, in quella sede, che il giudice, con il giudizio controfattuale, può ritenere di aver conoscenza di ciò che sarebbe o non sarebbe accaduto "non facendo, però, ricorso ad individualizzazioni, alla ricerca della causa caso per caso, alla ricerca della causa con l'intuizione, con la immaginazione creatrice", ma, in ossequio al principio di stretta legalità o di tassatività, facendo ricorso al modello, generalizzante, della sussunzione sotto leggi scientifiche, le uniche in grado di rendere solido l'accertamento del nesso, leggi che, proprio per questa garanzia di solidità, sono denominate leggi di copertura.
Si è aggiunto, poi, che "le leggi generali di copertura accessibili al giudice sono sia leggi universali, che sono in grado di affermare che la verificazione di un evento è invariabilmente accompagnata dalla verificazione di un altro evento, sia le leggi statistiche che si limitano, invece, ad affermare che il verificarsi di un evento – causa – è accompagnato dal verificarsi di un altro evento - l'evento - soltanto in una percentuale di casi, con la conseguenza che questi ultimi sono tanto più dotati di validità scientifica quanto più possono trovare applicazione in un numero sufficientemente alto di casi e di ricevere conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali e controllabili".
Si è detto, inoltre, che "il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, sicché, per un verso, deve ricorrere ad una serie di assunzioni nomologiche tacite e dare per presenti condizioni iniziali non conosciute o soltanto azzardate e, per altro verso, il nesso di condizionamento potrà essere riconosciuto presente soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente - e non con certezza - da escludere l’intervento di un diverso processo causale".
Si è concluso asserendo - ed è questo il punto che è in questione nel caso in esame - che "il giudice, avvalendosi del modello della sussunzione sotto leggi statistiche - ove non disponga di leggi universali - dice che è probabile che la condotta dell'agente costituisca, caeteris paribus, una condizione necessaria dell'evento, probabilità che altro non significa se non probabilità logica o credibilità razionale, probabilità che deve essere di alto grado, nel senso che il giudice dovrà accertare che, senza il comportamento dell'agente, l'evento, con alto grado di probabilità, non si sarebbe, appunto, verificato".

II - Prima di riflettere sul significato che deve attribuirsi all'espressione con alto grado di probabilità e nel prendere atto che, nel caso in esame, si verte in una fattispecie di causalità omissiva è da porre in evidenza che sulla natura della omissione e sulla conseguente costruzione della causalità omissiva la dottrina ormai da tempo, non è più pacifica.
Se, invero, la dottrina dominante nega che nei reati omissivi il rapporto di causalità sia identico a quello che si riscontra nei reati di evento commessi mediante azione, perché in questi ultimi si deve accertare l'eventuale nesso tra dati reali del mondo esterno, mentre nelle fattispecie omissive improprie quel nesso si accerta con un giudizio ipotetico o prognostico supponendosi realizzata l'azione doverosa e chiedendosi se, ove fosse stata presente, l'evento lesivo sarebbe venuto meno, altra parte della dottrina è, invece, dell'avviso che la causalità omissiva, lungi dall'essere causalità "ipotetica", è, anch'essa, vera e propria "causalità reale", dovendosi tenere conto che, "in una visione moderna della causalità, le entità che entrano in relazione di causa ed effetto non sono forze o energie materiali, ma processi o eventi, sicché, se ciò è vero, bisogna includere tra quelle entità anche i processi statici - il tavolo che rimane immutato, si dice, è un processo, un processo statico, nel quale le grandezze considerate si mantengono costanti nel tempo - con la conseguenza che, nella relazione di causa ed effetto, entra anche l'omissione, il non-fare, chè una condizione statica è pur sempre una condizione".
Anche il non-fare, dunque, deve considerarsi causale quando risulti che, senza lo stato della persona costituito dal non compiere l'azione dovuta l’evento lesivo non si sarebbe verificato. Da tutto ciò - aggiunge questa dottrina - consegue che, "sotto il profilo dell'accertamento, il procedimento utilizzato per stabilire se l'omissione è condizione statica necessaria non è diverso, ma identico, nella sua struttura, a quello cui si ricorre per giustificare la causalità dell'azione".
"Identico è, infatti, l'oggetto della spiegazione: un avvenimento del passato; identico il giudizio che si deve compiere per individuare la condizione necessaria: il giudizio controfattuale o ipotetico teso ad appurare se, senza la condotta attiva od omissiva, l'evento si sarebbe o non si sarebbe verificato; identico il procedimento da impiegare, in via strumentale, per compiere il giudizio controfattuale: una spiegazione legata all'oggettivo sapere scientifico, che consenta di ricollegare l'evento lesivo ad un insieme di condizioni empiriche antecedenti, variabili o statiche; identica la struttura probabilistica della spiegazione offerta e identico perciò il carattere probabilistico dell'enunciato esplicativo".

III - La dottrina dominante, ponendo l'accento non sull'omissione come stato condizionante della persona, ma sull’azione doverosa omessa afferma, anch'essa, che, per effettuare il giudizio ipotetico o prognostico necessari per determinare il nesso omissione-evento, "il giudice suppone mentalmente come realizzata l'azione doverosa omessa e si chiede se, in presenza di essa, l'evento lesivo sarebbe venuto meno", che il giudice, cioè, si avvale pur sempre del giudizio controfattuale.
E anch'essa ritiene che "il giudice, per effettuare una simile prognosi, non potrà basarsi soltanto sulle sue personali conoscenze, ma, anche dinanzi alla omissione, i criteri di giudizio da adottare non possono che essere quelli del modello della sussunzione sotto leggi".
Questa dottrina è, però, dell'avviso, "quanto al problema del grado di certezza raggiungibile nell'accertamento della causalità omissiva", che questo accertamento, risolvendosi in un giudizio effettuato in termini ipotetici, non può dare lo stesso rigore esigibile nell'accertamento del nesso causale vero e proprio, sicché "ciò dovrebbe indurre ad accontentarsi di richiedere, in sede di applicazione della formula della condicio, che l'azione doverosa, ove compiuta, valga ad impedire l'evento con una probabilità vicina alla certezza".
"Ma - si osserva autorevolmente - se si accoglie la tesi che la stessa spiegazione del nesso causale nei reati commissivi ha struttura probabilistica, stante la rilevanza ai fini della decisione anche di leggi statistiche, ci si accorge che le differenze nel livello di certezza del rispettivo accertamento della causalità reale e della causalità omissiva finiscono, forse, con il ridimensionarsi".

IV - Preso doverosamente atto di tutto ciò - il giudice non può non tenere conto, nell'esaminare le fattispecie concrete, dei migliori esiti della ricerca scientifico/giuridica, di quegli esiti la cui applicazione alla fattispecie in esame assicuri, al maggior livello possibile, il rispetto dei principi di tassatività e di stretta legalità - e constatato che, pur prescindendo dalla disputa, tutt'altro che infeconda, sulla natura della omissione, le conclusioni cui i due indirizzi pervengono, quanto al grado di certezza raggiungibile nell'accertamento della causalità omissiva, finiscono pressoché per coincidere, il problema del significato da attribuire alla espressione con alto grado di probabilità - il giudice deve accertare che quella azione o quella omissione è stata causa dell'evento con alto grado di probabilità - non può essere risolto se non attribuendo alla espressione il valore, il significato, appunto, che le attribuisce la scienza e, prima ancora, la logica, cui la scienza si ispira, e che non può non attribuirle il diritto.
Per la scienza non v'è alcun dubbio che dire "alto grado di probabilità", "altissima percentuale", "numero sufficientemente alto di casi", voglia dire che, in tanto il giudice può affermare che una azione od omissione sono state causa di un evento, in quanto possa effettuare il giudizio controfattuale avvalendosi di una legge o proposizione scientifica che "enunci una connessione tra eventi in una percentuale vicina a cento", espressione che, come può notarsi, equivale a quella che usa la dottrina che, in tema di causalità omissiva, ritiene che il giudice può ravvisare il nesso causale se l'azione doverosa avrebbe impedito l'evento con una probabilità vicina alla certezza: è, infatti, difficile negare che, sul piano logico, l'espressione vicina alla certezza voglia dire qualcosa di diverso dalla espressione vicina a cento".
"In via conclusiva - osserva sul punto la autorevole dottrina alla quale si deve anche la costruzione della causalità omissiva come causalità non ipotetica, ma reale - si può dire che una spiegazione statistica adeguata del singolo evento lesivo presuppone una legge statistica con un coefficiente percentualistico vicino a 100 e deve sfociare in un giudizio sul nesso di condizionamento di alta probabilità logica o di elevata credibilità razionale dove alta ed elevata stanno ad indicare un giudizio che si avvicina al massimo, alla certezza".

V - Questa stessa dottrina si sofferma anche sulle affermazioni che, sul rapporto di casualità, si incontrano nella giurisprudenza sia di legittimità, sia di merito e le sottopone a critica alla luce del principio che alta probabilità logica o elevata credibilità razionale vogliono indicare un giudizio che si avvicina alla certezza, che si avvicina a cento.
"I giudici - questa la critica - debbono dar addio a due pretese antitetiche, la pretesa di approdare alla formulazione di giudizi di certezza e la pretesa di poter basare l'accertamento del nesso di condizionamento tra omissione ed evento su dei giudizi di mera possibilità, su serie ed apprezzabili possibilità dì successo".
"La prima pretesa, quella della certezza, prosegue la critica - è chiaramente utopistica, ché ciò che si può richiedere al giudice, anche sul terreno della causalità omissiva, è unicamente un giudizio provvisto di ‘elevata credibilità razionale’ o ‘alta probabilità logica’ o ‘quasi certezza’; la seconda pretesa risulta, invece, decisamente insostenibile".
"I giudizi di mera ‘possibilità’ sono, infatti, del tutto incompatibili con l'idea stessa di spiegazione dell'evento, ché un accadimento storico può ritenersi spiegato, può essere reso intelligibile attraverso una risposta alla domanda ‘perché?’, solo se si ha a disposizione una legge scientifica di forma universale o una legge statistica che enunci una regolarità nella successione di eventi in un'alta percentuale di casi, in una percentuale, cioè, vicina a cento, perché solo così si può pervenire ad un giudizio di elevata credibilità razionale sulla esistenza del nesso di condizionamento: dire che è possibile che senza l'omissione l'evento non si sarebbe verificato si dice che forse gli eventi avrebbero potuto seguire un corso diverso, ma non si dà una risposta razionalmente accettabile in misura elevata al perché l'evento si è verificato".
"Troppo poco, dunque - è la conclusione - dal punto di vista della filosofia della scienza; troppo poco dal punto di vista logico e troppo poco dal punto di vista del diritto penale, che non può certo accontentarsi di un giudizio forse di responsabilità penale".

VI - Quanto si è detto - avendo avuto cura di sintetizzare, sul tema del nesso di causalità, il complesso iter della dottrina giuridica, le premesse culturali dalle quali quest'ultima muove, cultura dove filosofia della scienza, pura logica e diritto si intrecciano - consente di affermare che la corte di merito, che si ispira al criterio delle serie ed apprezzabili possibilità di successo, erra quando, riportando il giudizio del perito, dice che, secondo quest'ultimo, "le probabilità di sopravvivenza in mesi o anche in settimane erano inferiori al 50%, ma non erano irrilevanti, anche se molto limitate", aggiungendo, peraltro, che, in dibattimento, il perito aveva affermato che "era da ritenere che ad 80 anni, con una grave cardiopatia, con un fibrotorace, queste probabilità fossero estremamente basse".
La corte di merito, allorquando sottolinea che le probabilità di sopravvivenza erano limitate, ma non irrilevanti, cita, a conforto, alcuni dati statistici, offerti dal perito e citati nella nota 18 a pag. 18. La nota è del seguente tenore: "il perito ha ricordato che ‘in un lavoro su 157 ricoveri per insufficienza respiratoria... è riportata una sopravvivenza, nel gruppo di età tra i 75 e gli 80 anni, del 50%, mentre in uno studio precedente la mortalità era superiore; nello stesso studio si riportano come fattori di rischio l'età ed un pH basso, ma non i livelli di ipossiemia; da questa statistica è stata ricavata una formula di probabilità di morte... del 50%... che non appare, peraltro, corretta nel caso specifico in quanto si riferisce a pazienti con pH basso e PCO2 alta e non è noto se la popolazione studiata avesse tutti gli altri fattori di rischio... del paziente in esame.... in ogni caso, di tutta la casistica, quindi anche di pazienti con età inferiore a 75 anni, la sopravvivenza a 65 anni era del 28%".
Per rendersi conto che, sul piano scientifico, questi dati statistici non sono tali da suffragare le conclusioni cui è pervenuta la corte, è sufficiente riflettere che una percentuale del 50%, se può anche essere non irrilevante, è certamente, e lo è per la stessa corte, molto limitata e, a maggior ragione, molto limitata è una percentuale di sopravvivenza del 28%, sicché con queste percentuali, con questi dati statistici, non è davvero possibile costruire un rapporto di causalità scientificamente e/o penalmente rilevante.
Quelle percentuali - 50%, 28% - sono, infatti, ben lontane dalla "quasi certezza", dall’essere "vicine a cento", come vogliono la scienza, la logica e come, conseguentemente, deve volere il diritto, sono ben lontane, dunque, dal poter essere per il giudice quella legge di copertura necessaria perché il rapporto di causalità venga costruito in termini scientificamente e, quindi, penalmente soddisfacenti.
E la impossibilità di ravvisare un rapporto di causalità ove si abbia a disposizione una legge statistica che non vada aldilà del 50% o, addirittura, del 28%, l'impossibilità di poter effettuare un utile giudizio controfattuale con quei dati risulta chiarissima se si considera che il problema, in tutti i casi in cui ci si avvalga di leggi statistiche con grandezze lontane da cento o non prossime a cento, non è tanto sapere che le cure avrebbero salvato il paziente - nel caso di specie, il V. - al 50%, ma il non sapere e l'impossibilità di sapere se il paziente, il V., è morto per quella mancanza di cure - e, quindi, per l'omissione - o, invece, per il residuo 50% di cause-ragioni che, nonostante le cure, lo avrebbero potuto condurre ugualmente alla morte.
Se la condotta - azione od omissione - deve essere, per definizione, la condizione necessaria dell'evento, non potrà mai dirsi che una condizione, che avrebbe potuto essere causa soltanto al 50% o al 28%, è stata la condizione necessaria dell’evento.
E' proprio la legge statistica, che si invoca, che dice che quell'evento non è necessariamente riconducibile a quella causa, potendo essere ricondotto alla stessa o, con altrettante o, addirittura, maggiori probabilità - 72% - ad altre cause e il giudice non può ritenere che un fatto possa essere attribuito a qualcuno ove sia consapevole - ed è la stessa legge di copertura che invoca che gli impone di esserlo - che l'evento, se può esser stato cagionato da una certa condotta, può anche non esserlo stato, se, dunque, è da escludere, sul fondamento di quella legge statistica, che quella condotta possa essere definita condizione necessaria all’evento.

VII - E' il caso di porre in evidenza, a questo punto, che il "Progetto Preliminare di riforma del codice penale", elaborato dalla "Commissione ministeriale per la riforma del codice penale istituita con D. M. 1 ottobre 1998", dispone, nell'art. 13, dedicato al "rapporto di causalità", che "nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se la sua azione od omissione non è condizione necessaria dell'evento da cui dipende l'esistenza del reato" e, nell'art. 14, dove si interessa della causalità nei reati omissivi, che "non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, se il compimento dell'attività omessa avrebbe impedito con certezza l'evento".
L'uso delle locuzioni "condizione necessaria, con certezza" dice con chiarezza che le premesse dalle quali muove il progetto, in tema di rapporto di causalità, sono esplicitamente quelle che si sono dianzi riassunte, premesse che la dottrina ha formulato in relazione alle norme, sul rapporto di causalità, del vigente codice, premesse che la "Relazione", che accompagna il Progetto, ribadisce con una serie di osservazioni che meritano di essere riportate per la loro valenza anche a prescindere dal Progetto il quale, peraltro, "non si discosta troppo dal testo del codice penale Rocco, al fine di sottolineare la continuità con una tradizione normativa consolidata ed idonea a fondare applicazioni corrette", come la Relazione scrive sub 2/2.
La Relazione, dopo aver premesso che "il tema del rapporto di causalità, che per ragioni di tempo non era stato affrontato nella prima fase dei lavori, ha costituito oggetto di una discussione particolarmente ampia della Commissione", così prosegue.
"La Commissione ha, innanzitutto, preso atto che la causalità, ed in particolare il modello nomologico-deduttivo, integrato dalle leggi di copertura, sta attraversando una fase critica. Vi sono, infatti, materie in cui l’erosione da parte della giurisprudenza di tale paradigma causale appare evidente e con riferimento alle quale tende ad affermarsi una ricostruzione della causalità ancorata a fattori di tipo prognostico-probabilistico, se non addirittura consistente nella rilevazione del rischio connesso all'esercizio di una determinata attività".
"Ciò si verifica, ad esempio, in settori quali: a) l'attività medica, dove, a fronte della pluralità dei fattori causali che sembrerebbero entrare in gioco, lo strumento statistico e la epidemiologia sono spesso diventati indicatori decisivi agli effetti della rilevazione del rapporto causale; b) le alterazioni ambientali, in cui gli eventi (in genere macro-eventi) dipendono da una serie di condotte e situazioni, spesso differite nel tempo e concorrenti con fenomeni naturali, con riferimento alle quali risulta difficile risolvere il problema causale limitandosi a richiedere se non aver tenuto una di quelle condotte avrebbe evitato l'evento nelle dimensioni verificatesi; c) la fenomenologia del danno da prodotto, nei cui confronti è ricorrente la impossibilità di identificare con certezza, o anche soltanto con elevata probabilità, quale sia stato il fattore produttivo di nocumento".
"La giurisprudenza, che si sta orientando verso ricostruzioni della causalità centrate su mere rilevazioni di tipo probabilistico, o su mere correlazioni condotta-rischio (o aumento del rischio), coglie un aspetto sicuramente importante della società moderna, sempre più caratterizzata da attività complesse, professionalizzate, che presuppongono un alto livello di organizzazione, all'interno delle quali non è molte volte agevole provare rigorosamente l'esistenza di un rapporto di condizionalità necessaria. In questo senso essa risponde alla esigenza di rafforzare la tutela penale in materie che coinvolgono beni giuridici di rilevante spessore (vita, salute, ambiente), introducendo una flessibilità applicativa delle norme sulla causalità che consentono di raggiungere livelli di intervento penale altrimenti impensabili in ragione della difficoltà della prova".
"Il costo di scelte di questo tipo è, tuttavia, elevato sul terreno della salvaguardia del principio di legalità e di tipicità delle fonti di responsabilità penale, rischiando, nei casi più macroscopici, di attentare al principio di personalità della responsabilità penale".
"Come è stato giustamente rilevato, mentre la causalità, ricostruita con il ricorso a leggi di copertura e ancorata al metodo dell'accertamento nomologico-deduttivo, svolge una importante funzione delimitativa della punibilità, consentendo di selezionare, nell'ambito delle fattispecie casualmente orientate, le condotte tipiche, il superamento di questo modello allarga la sfera di applicabilità del precetto, attraendo nella sua orbita anche eventi che non possono essere ritenuti, dal punto di vista logico-scientifico, conseguenza della condotta".
"Il principio di tassatività-determinatezza e il principio di personalità della responsabilità, che conformano il sistema penale anche a livello di enunciato costituzionale, impongono pertanto di salvaguardare la funzione selettiva del nesso di causalità e di formulare una disciplina per quanto possibile tassativa".

"La soluzione proposta risulta ispirata ai seguenti criteri:

- prevedere come principio cardine che ‘nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se la sua azione od omissione non è condizione necessaria dell'evento da cui dipende l'esistenza del reato: si tratta sostanzialmente della enunciazione del principio della condicio sine qua non, già enunciato nel comma 1 dell'art. 40 c.p. Rocco, qualificato dal riferimento al concetto di condizione necessaria (sostanzialmente conforme il progetto Riz, che con espressione un po’ ridondante parla di ‘condizione indispensabile e necessaria’)

- separare, in ragione della evidente diversità di struttura e della opportunità di formulare una disciplina specifica che tenga conto delle sue peculiarità, la c.d. causalità nei reati omissivi rispetto alla causalità materiale dei reati di azione, pur sottolineando, nel comma 1 dell'art. 13, che in entrambi i casi il profilo di condizionalità necessaria costituisce requisito indispensabile". Ecc.

"Enunciata la disciplina del rapporto causale nei termini sopra menzionati, la Commissione sottolinea che essa, ponendosi in continuità con la tradizione, intende contrastare le tendenze a forzare il criterio della condizione necessaria e ad eludere le esigenze di rigoroso accertamento del nesso causale relativamente all'evento in concreto verificatosi. La Commissione è ben consapevole che tali tendenze si sono manifestate con riguardo a materie in cui sono in gioco esigenze di tutela di beni fondamentali (per es., la salute); ma, ritiene che, di fronte a fenomeni che non si prestino ad essere ricondotti ad un modello verificabile di causalità, strumenti di tutela adeguati vadano ricercati sul terreno della parte speciale: si pensi, in proposito, alla possibile introduzione di specifici e sufficientemente tipizzati ‘delitti di rischio’ ".
"Sul problema della causalità nei reati omissivi, la Commissione ha ritenuto di dovere proporre una formulazione che, pur muovendosi nel solco del vigente art. 40 cpv., comporta una meditata presa di distanza dall'interpretazione che ne é data dalla giurisprudenza prevalente".
"Secondo l'art. 14 'non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, se il compimento dell'attività omessa avrebbe impedito con certezza l'evento’".......
"L'aggiunta apportata al vigente dettato normativo ha funzione restrittiva rispetto all'indirizzo giurisprudenziale secondo cui l'omissione antidoverosa sarebbe causale quando l'impedimento dell'evento si sarebbe ottenuto con un grado di probabilità apprezzabile, anche lontana dalla certezza. La Commissione è ben consapevole che tale ultimo indirizzo risponde ad esigenze condivisibili di reazione contro inadempimenti colpevoli anche gravi, ma ritiene che una soluzione che rinunciasse al requisito dell'impedimento certo si porrebbe in contrasto non semplicemente con il criterio della condizione necessaria, ma, soprattutto, con il principio di personalità della responsabilità (per l'atteggiamento critico nei confronti della sopra menzionata giurisprudenza è significativo il parere formulato dalla Commissione della Procura Generale)".
"Senza la certezza dell'effetto impeditivo (s'intende quella probabilità confinante con la certezza che può ragionevolmente raggiungersi) è, infatti, logicamente contraddittorio attribuire all'omissione, ancorché antidoverosa, il valore di condizione sine qua non dell’evento, non potendosi escludere che l'evento si sarebbe verificato anche se l'azione doverosa omessa fosse stata compiuta. In tal caso sarebbe, per l'omittente, un fatto altrui, che non può essere ascritto a suo carico pena la violazione dell'art. 27 Cost".

VIII - Come si è già accennato, non sembra possa dubitarsi che le proposizioni della Relazione valgano, oltre che de jure condendo, de jure condito, consentendo - anzi, potrebbe dirsi, imponendo, con il suo rigore - la ricerca scientifica di interpretare le norme del Codice vigente, sul rapporto di causalità, nel senso che la condotta deve essere condizione necessaria dell'evento ed essendo innegabile che la filosofia della scienza, la logica e il diritto esigano che, in tanto il giudice può affermare il rapporto di causalità, anche nei reati omissivi, in quanto - pena anche il rinnegamento del principio di personalità della responsabilità - abbia accertato che, con probabilità vicina alla certezza, con probabilità vicina a cento, quella condotta, azione od omissione, è stata causa necessaria dell'evento come verificatosi hic et nunc.

IX - La corte di appello ha anche detto più volte nella sentenza che "il perito non ha affermato che una terapia adeguata non avrebbe evitato nell’immediato, l'evento morte" tanto da farle concludere che "nel caso in esame vi erano elevate probabilità che l'evento morte - così come verificatosi a distanza di poche ore dal controllo medico al Pronto Soccorso - potesse essere evitato".
Ebbene, non v'è il minimo dubbio che "la spiegazione causale rilevante è quella dell'evento, descritto dalla norma, quale si verifica hic et nunc", con la conseguenza che deve ritenersi "causa dell'evento quell'antecedente che abbia anticipato il suo verificarsi anche di una frazione di tempo" (anche Cass., 8 marzo 1974, Riv. pen. 1975, II, 782).
Non v'è ugualmente alcun dubbio che è proprio del giudice di merito la valutazione critica delle prove e, quindi, la valutazione/interpretazione critica degli atti, valutazioni che sfuggono al controllo in sede di legittimità purché correttamente motivate, sicché è anche certo, tra l'altro, che la corte di cassazione può disattendere la valutazione delle prove e la interpretazione degli atti date dal giudice di merito, e trarne le dovute conseguenze, ove dal testo del provvedimento impugnato risulti che quel giudice, date le premesse, non sarebbe mai potuto pervenire a determinate conclusioni.
Ebbene, la corte di Appello per dimostrare che le dichiarazioni del perito, se autorizzavano a ritenere che il V. al 50% non sarebbe sopravvissuto per settimane o per mesi, consentivano, però, di affermare che il V. non sarebbe morto se il B. avesse fatto quanto doveva - donde il ricordato giudizio di "elevate probabilità che l'evento morte, cosi come verificatosi a distanza di poche ore dal controllo medico al Pronto Soccorso, potesse essere evitato" - richiama, oltre che le dichiarazioni del perito, quelle dei consulenti del p.m., della difesa e della parte civile e attribuendo ad esse il significato, il valore, attribuito alle dichiarazioni del perito.
Ma, sono proprio le dichiarazioni di uno dei protagonisti del processo, della parte civile - di colei che, sul piano processuale, avrebbe avuto interesse ad affermare il contrario, ad interpretare le affermazioni del perito così come le ha interpretate la corte nella sentenza - dichiarazioni che, giova ripeterlo, la corte pone sullo stesso piano di quelle del perito, che, per la loro inequivoca formulazione, impongono si dica che è lo stesso testo del provvedimento impugnato che nega radicalmente le conclusioni cui la corte è pervenuta.
"Il C.T. di parte civile - così la sentenza - ha dichiarato: "certamente un intervento terapeutico appropriato poteva, se non salvare completamente la vita di questo soggetto, forse prolungargliela un attimino … ore, giorni, settimane, mesi, forse non andrei in là".
E’ allora da ricordare che, come si è visto essere stato autorevolmente osservato, il forse è il regno del possibile, che il forse non è probabilità vicina alla certezza, non è percentuale di casi vicina a cento, che dal forse, dunque, del tutto illogicamente si argomenta, come fa la corte, "l'elevata probabilità che l'evento, così come verificatosi, a distanza di poche ore dal controllo medico al Pronto Soccorso, potesse essere evitato", che dal forse non si deduce che la condotta del B. è stata condizione necessaria dell'evento, ma soltanto che forse lo è stata, forse che è, in conclusione, ben troppo poco per l'affermazione della responsabilità a parità delle altre condizioni necessarie per questa affermazione.

3 - Tutto ciò premesso, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.

Così deciso in Roma il 28 settembre 2000.

Una svolta della Cassazione penale: il nesso di causalità materiale nelle condotte mediche omissive deve essere accertato con probabilità vicina alla certezza.

1. La sentenza n. 1688/2000 pronunciata il 28 settembre 2000 dalla sezione IV della Cassazione appare come un passaggio auspicabilmente decisivo nel diritto vivente di questi ultimi anni, sia rispetto al grave problema della responsabilità penale dei medici, sia sotto il generale profilo del nesso causale nelle condotte omissive.
La Corte Suprema, a partire dal 1990, si era già pronunciata in numerose importanti sentenze in favore del contemperamento del regime condizionalistico, che sta alla base del nostro ordinamento, con criteri desumibili dalla dottrina della sussunzione sotto leggi scientifiche elaborata nel 1931 in Germania da Karl Engisch ed importata in Italia, con adattamenti ed ampiezza di argomentazioni e di approfondimenti, dal penalista Federico Stella. Ma tali sentenze, ci sembra, sono rimaste relativamente in ombra, oscurate, in ambito di responsabilità medica, da un orientamento di segno opposto, molto pubblicizzato nei mass media. Nello stesso decennio, infatti, è stata ampiamente pubblicizzata, ed ha esercitato un notevole effetto sui giudizi di merito, la non condivisibile sentenza n. 371/1992, detta anche del 30%.
La sentenza qui commentata - il cui estensore è stato, non a caso, il giudice Battisti che ha dato inizio nel 1990 a tale orientamento - imprime un confortante nuovo impulso a questo indirizzo applicandolo alla responsabilità professionale dei medici. La sua importanza si deve attribuire anche all'ulteriore approfondimento delle motivazioni - che si avvalgono anche di citazioni di parti della Relazione della Commissione Grosso per la riforma del codice penale, istituita con D. M. 1 ottobre 1998, che ha dedicato gli articoli 13 e 14 del Progetto al ‘rapporto di causalità’ - circa l’utilizzo della dottrina della sussunzione sotto leggi scientifiche al fine di accertare il nesso causale.
Il commento che di questa sentenza proponiamo è per ora concentrato su alcune considerazioni relative alla nozione scientifica di probabilità e sulla criteriologia medico-legale in tema di nesso causale: argomento, quest’ultimo, cui abbiamo dedicato recentemente un’analisi metodologica. La lettura dell’intero testo della sentenza è infatti ben più eloquente di quanto non possa risultarne un riassunto e una rielaborazione sia pure al fine di approvarne le conclusioni. Tali sono la chiarezza e l’ampiezza di convincenti e coerenti motivazioni giuridiche da produrre non soltanto la condivisione (pur associata ad alcune indispensabili precisazioni criteriologiche medico-legali), bensì anche il sentimento di viva - benché quasi incredula - speranza che questo giro di boa, ispirato a principi inderogabili, riporti finalmente il diritto vivente fuori dalle sabbie mobili in cui un recente passato più volte l’ha fatto smarrire, perlomeno in alcuni centrali settori. Tra questi figura in prima fila la responsabilità professionale del medico, che ha conosciuto le traversie più inquietanti fino a produrre assurde imputazioni e condanne per omicidio preterintenzionale: un tema, quest’ultimo, che investe i fondamenti della liceità della professione medica, sul quale la Cassazione è pure intervenuta di recente con la sentenza della sezione IV penale n. 585 pronunciata il 9 marzo 2001 (ricorrente: Barese), altro interessante segno di un mutamento di clima, la quale verrà prossimamente pubblicata e commentata su questa Rivista.

2. Il caso, riassunto come di consueto nella prima parte della sentenza in epigrafe, è di frequente osservazione nella pratica medico legale in tema di responsabilità medica, riguardando il mancato ricovero di pazienti giunti al Pronto Soccorso con sintomi inscritti in storie di patologia cronica, ovvero con sintomi nuovi ma privi di riscontri oggettivi clinici e strumentali: conseguendone il rinvio a domicilio seguito tuttavia, poche ore dopo, da un cospicuo aggravamento, talora dalla morte. In queste evenienze manca di frequente la dimostrazione che, a fronte della scarsa disponibilità di posti letto e nel contempo in presenza di sintomi ambigui, o di scarso rilievo, sia da considerarsi colposa la condotta del medico di Pronto Soccorso su cui incombe un ruolo difficile, ed anche sgradevole, di selezione tra i malati che hanno reale bisogno di ricovero e quelli che non sembrano averne necessità urgente.
Le difficoltà diagnostiche differenziali, e soprattutto prognostiche, sono purtroppo la causa di rinvii al domicilio nell’ambito dei quali un numero per fortuna ridotto di casi presenta l’evoluzione sfavorevole cui abbiamo fatto cenno e che ha connotato il caso su cui la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sotto il profilo della legittimità. La casistica è in proposito abbastanza ampia ed è costituita prevalentemente, ma non esclusivamente, da patologie cardiovascolari nel caso di soggetti adulti (anche le ambigue urgenze chirurgiche hanno una loro rappresentanza), mentre nella patologia pediatrica figurano spesso le malattie infettive acute. Non solo il carattere colposo di queste condotte è spesso opinabile, ma ancor più frequentemente lo è il nesso causale tra condotta ed esito sfavorevole del trattamento medico-chirurgico.

3. La sentenza n.1688/2000 è auspicabile possa costituire una svolta, in tema di responsabilità medica, segnando anche (ma non soltanto) l’atteso ritorno al rispetto del principio di eguaglianza davanti alla legge, costituzionalmente garantito (art. 3 Cost.), per una categoria di cittadini, i medici, per i quali un diritto vivente, sempre più differenziato a loro sfavore, ha squilibrato il suddetto principio in misura ormai inaccettabile.

Alludiamo al criterio di accertamento del nesso causale tra le condotte omissive dei sanitari e gli eventi di danno, lesioni e/o morte, che nell’ultimo ventennio, a causa di due sentenze - una poco nota del 12 maggio 1983 n. 4320, l'altra la notissima e per di più in parte equivocata n. 371 del 17 gennaio 1992 (detta sbrigativamente "del 30%") - ha subito una distorsione a carattere ingiustificatamente discriminatorio nei confronti degli esercenti l'attività medico-chirurgica.
Nella prima delle due sentenze si è affermato che "al criterio della certezza degli effetti si può sostituire quello della probabilità di tali effetti (e della idoneità della condotta a produrli) quando è in gioco la vita umana". Affermazione che in linea di massima si può accettare se la Corte non ne avesse aggiunto un'altra che contraddice gravemente il principio di "probabilità". Affermava infatti la Corte che sono "sufficienti anche solo poche probabilità di successo di un immediato o sollecito intervento chirurgico, sussistendo, in difetto, il nesso di causalità qualora siffatto intervento non sia stato possibile a causa dell'incuria del sanitario che ha visitato il paziente".
La sentenza n. 371 pronunciata dalla Cassazione nel luglio del 1991, e pubblicata il 17 gennaio 1992, ha a sua volta clamorosamente affermato che basta il 30% di probabilità di successo della omessa prestazione per riconoscere la sussistenza del nesso causale.
Le altre sentenze in tema di responsabilità medica pronunciate dalla Corte in questo lungo periodo hanno più volte confermato la legittimità di fare ricorso al "criterio di probabilità" (cfr. ad esempio Cass. 22 febbraio 1993 n. 1594), ma hanno preteso che tale probabilità sia "seria ed apprezzabile" (Cass. 10 luglio 1987 n. 8290, che quantifica nel 70/80% la "probabilità di esito favorevole" richiesta; Cass. 12 maggio 1989 n. 7118; Cass. 5 giugno 1990 n. 8148 della IV sezione penale; Cass. 10 agosto 1990 n. 11389; Cass. 16 agosto 1990 n. 11484; Cass. 23 novembre 1990 n. 15565).
Con la sentenza 16 novembre 1993 n. 10437 - di appena un anno successiva alla 371/1992 - la Cassazione penale aveva richiesto invece "un sufficiente grado di certezza", in tal modo collocandosi di fatto sul binario delle sentenze citate nella nota n.1 ed anticipando la sentenza in epigrafe.
Vale a questo punto la pena di ricordare una esemplare massima contenuta in una ormai lontana sentenza della sezione III civile, datata 13 maggio 1982, n. 3013 secondo cui "L’indagine sulla sussistenza del nesso di causalità fra un'affezione o lesione personale ed una terapia medica od un intervento chirurgico, al fine dell'eventuale risarcitoria dell'autore di tale terapia o intervento, implica il necessario ausilio di nozioni di patologia medica e medicina legale, con la conseguenza che non potendo questa fornire un grado di certezza assoluta sulla derivazione di un certo evento da un determinato antecedente, la ricorrenza del suddetto rapporto di causalità non può essere esclusa in base al mero rilievo di margini di relatività, a fronte di un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica, specie quando non risulti la preesistenza, concomitanza o sopravvenienza di altri fattori idonei a provocare l'evento medesimo".
Questa massima è particolarmente rilevante non solo per il riferimento al criterio di probabilità scientifica, ma anche perchè richiama con chiarezza la necessità di applicazione del cosiddetto "criterio di esclusione di altre cause", cioè della diagnosi eziologica medico-legale differenziale, che è passaggio centrale della criteriologia medico-legale in tema di nesso causale.
E’ sperabile che la sentenza n. 1688/2000 qui annotata - assieme a quelle sul tema generale del nesso causale che l'hanno preceduta nell'ultimo decennio - sia diffusamente portata a conoscenza di tutti gli operatori del diritto che si occupano di responsabilità medica, con la stessa rapidità con cui la citata sentenza n. 371 del 1992 è stata conosciuta tramite le stampa quotidiana, spesso incline al sensazionalismo e assai di frequente connotata per la superficialità delle letture di eventi e di documenti. Si può forse ritenere incredibile che presentazioni giornalistiche di questo tipo siano capaci di raggiungere ed influenzare anche giuristi sperimentati e medici legali accreditati. Ma di fatto ciò accade con una frequenza non irrilevante, il che mette in risalto da un lato le responsabilità della stampa non specializzata (che alterna quasi quotidianamente l’esaltazione e la denigrazione dei medici), dall’altro le frequenti disattenzioni culturali degli addetti ai lavori.
4. E' opportuno riflettere brevemente sulla motivazione di cui le due citate, contestabili sentenze n. 4329/1983 e n. 371/1992 si sono avvalse per affermare la sussistenza di un nesso causale tra condotta medica omissiva e danno anche in casi di bassa probabilità effettiva di tale nesso.
Tale motivazione poggia essenzialmente sul valore primario del bene della salute e della vita il quale giustificherebbe una diversa applicazione dei principi generali della causalità nei confronti dei medici.
Tale valore, tuttavia, è in gioco anche in altri reati di danno, come ad esempio negli incidenti stradali per i quali, se le norme vigenti possono consentire una presunzione di colpa, pretendono comunque la prova ragionevole del nesso causale sia nelle condotte di azione che in quelle di omissione.
Pertanto si deve ritenere che l’indiscusso valore primario dei beni in gioco nei trattamenti medico-chirurgici non debba produrre inaccettabilmente differenziati criteri di accertamento del nesso causale tra condotta e danno, bensì semmai imporre il massimo rigore scientifico nella fase delle indagini medico-legali dedicata allo studio dell’eventuale carattere colposo delle condotte del medico, siano esse commissive ovvero omissive.
Si può, in altri termini, invocare una particolare attenzione nell'individuare negligenze, imprudenze, imperizie, inosservanze di norme da parte dei sanitari. Ma se il carattere colposo della condotta sanitaria è individuato con il rigore richiesto dal valore prioritario del bene che è in gioco, non può ammettersi tuttavia alcuna forzatura nell’accertamento del nesso causale tra la condotta ed il danno.
Il principio condizionalistico che sta alla base dell'ordinamento è già per proprio conto connotato da una notevole severità, per cui si deve pretendere almeno un nesso causale dimostrato e convincente: e ciò qualunque sia l'autore della condotta, un medico o un qualsiasi cittadino. Non è un argomento nuovo, ma le vicende giudiziarie di cui siamo stati diretti testimoni, e non poche perizie e sentenze, dimostrano il frequente smarrimento di principi medico-legali fondamentali e consentono di cogliere l’occasione offerta dall’importante sentenza n.1688/2000 per ribadire l’inaccettabilità del criterio di accertamento del nesso causale, di esclusiva produzione giurisprudenziale, che in caso di condotte ritenute colposamente omissive intenda porre il medico in una posizione particolare, e discriminante, rispetto a tutti gli altri cittadini.
La sentenza n. 1688/2000, nel momento stesso in cui afferma il dovere di acquisire la "copertura" di leggi scientifiche quando si accerta il nesso tra un comportamento professionale ritenuto omissivo e l’evento di danno, riporta il criterio scientifico al centro del contributo peritale medico-legale. E tale riposizionamento – reso necessario dalle troppo frequenti incertezze ed ambiguità peritali, causa a loro volta di decisioni giudiziarie non convincenti – assume valore generale e quindi tutela anche i medici, spesso vittima di pareri peritali basati su impressioni e valutazioni soggettive circa la correttezza della loro condotta e circa il nesso tra la condotta ed il danno. Ma tutela nel contempo anche i danneggiati, in quanto può dare maggiore consistenza al supporto probatorio medico legale delle loro tesi quando le nozioni e informazioni scientifiche, utilizzate dai periti con adeguato approfondimento, sono in grado di attribuire reale consistenza scientifica ai pareri tecnici. Che poi tali pareri, sia in tema di condotta professionale che di nesso causale, riescano a raggiungere sempre, o molto frequentemente, il livello della quasi certezza - per il nesso causale quote percentuali di probabilità addirittura vicine al cento percento, come afferma suggestivamente la Corte di Cassazione nella sentenza n.1688/2000 - non ci sentiamo, sinceramente, di poterlo affermare con adeguate motivazioni. Su questo punto, centrale in tutta la metodologia medico-legale, torneremo tra poco.

5. La sentenza in epigrafe richiama la divergenza esistente da tempo in dottrina sulla natura della omissione e sulla conseguente costruzione della causalità omissiva. Si tratta di un problema che ha non solo un’evidente rilevanza generale, ma che nella responsabilità medica occupa un posto di primo piano per la frequenza elevata delle accuse, rivolte ai medici, di condotte colpose omissive, non di rado addebitate ad un errore (commissivo) diagnostico, cui consegue, appunto, una omessa terapia specifica.
Ricorda la sentenza che la dottrina giuridica dominante nega che nei reati omissivi il rapporto di causalità sia identico a quello che si propone nei reati di evento commessi mediante azione, giacché in questi ultimi si deve accertare l'eventuale nesso tra dati reali del mondo esterno. Nei casi in cui si addebitano invece condotte omissive "improprie", il nesso causale si accerta "con un giudizio ipotetico o prognostico supponendosi realizzata l'azione doverosa e chiedendosi se, ove fosse stata presente, l'evento lesivo sarebbe venuto meno".
Un’altra parte della dottrina giuridica ritiene, invece, che la causalità omissiva non sia una causalità "ipotetica", ma sia anch'essa vera e propria "causalità reale", dovendosi tenere conto che, "in una visione moderna della causalità, le entità che entrano in relazione di causa ed effetto non sono forze o energie materiali, ma processi o eventi, sicché, se ciò è vero, bisogna includere tra quelle entità anche i processi statici", "con la conseguenza che, nella relazione di causa ed effetto, entra anche l'omissione, il non-fare, ché una condizione statica è pur sempre una condizione". Anche il non-fare, dunque, deve considerarsi causale quando risulti che, senza lo stato della persona costituito dal non compiere l'azione dovuta, l’evento lesivo non si sarebbe verificato.
Ne consegue, secondo questo indirizzo dottrinale, che "sotto il profilo dell'accertamento, il procedimento utilizzato per stabilire se l'omissione è condizione statica necessaria non è diverso, bensì identico, nella sua struttura, a quello cui si ricorre per giustificare la causalità dell'azione". "Identico è, infatti, l'oggetto della spiegazione: un avvenimento del passato; identico il giudizio che si deve compiere per individuare la condizione necessaria: il giudizio controfattuale o ipotetico teso ad appurare se, senza la condotta attiva od omissiva, l'evento si sarebbe o non si sarebbe verificato; identico il procedimento da impiegare, in via strumentale, per compiere il giudizio controfattuale: una spiegazione legata all'oggettivo sapere scientifico, che consenta di ricollegare l'evento lesivo ad un insieme di condizioni empiriche antecedenti, variabili o statiche; identica la struttura probabilistica della spiegazione offerta e identico perciò il carattere probabilistico dell'enunciato esplicativo".
Malgrado tali differenze, le conclusioni cui i due indirizzi dottrinali pervengono, quanto al grado di certezza raggiungibile nell'accertamento della causalità omissiva, finiscono pressoché per coincidere, affermando entrambi la struttura probabilistica della spiegazione del nesso causale in questi casi.

6. Di particolare importanza ci appare il passo della sentenza nel quale, richiamati con ampiezza i principi elaborati dalla Commissione che ha redatto il Progetto preliminare di riforma del Codice penale, si fa rilevare che i principi su cui tale Progetto si basa non valgono solo de jure condendo, ma anche de jure condito perché rinvenibili anche nel vigente Codice Rocco. Secondo la Corte la ricerca scientifica non solo consente ma addirittura impone, con il suo rigore, "di interpretare le norme del Codice vigente, sul rapporto di causalità, nel senso che la condotta deve essere condizione necessaria dell'evento ed essendo innegabile che la filosofia della scienza, la logica e il diritto esigano che, in tanto il giudice può affermare il rapporto di causalità, anche nei reati omissivi, in quanto - pena anche il rinnegamento del principio di personalità della responsabilità - abbia accertato che, con probabilità vicina alla certezza, con probabilità vicina a cento, quella condotta, azione od omissione, è stata causa necessaria dell'evento come verificatosi hic et nunc".
Ne deriva che se la condotta - azione od omissione - deve essere, per definizione, la condizione necessaria dell'evento, non potrà mai dirsi che una condizione, che avrebbe potuto essere causa soltanto al 50% o al 28%, è stata la condizione necessaria dell’evento. Sottolinea coerentemente la Corte che le percentuali pari a 50% o 28% di probabilità di evitare un evento di danno - attuando una condotta che si è invece colposamente omessa – sono "ben lontane dalla ‘quasi certezza’, dall'essere ‘vicine a cento’, come vogliono la scienza, la logica e come, conseguentemente, deve volere il diritto, sono ben lontane, dunque, dal poter essere per il giudice quella legge di copertura necessaria perché il rapporto di causalità venga costruito in termini scientificamente e, quindi, penalmente soddisfacenti".

7. Un rilevante problema è tuttavia collocato a monte del criterio medico-legale di accertamento del nesso causale nelle condotte omissive improprie: quando la condotta del medico può essere qualificata "omissiva", nell’accezione negativa del termine che implica un giudizio di colpa ?
Se si passa dalle enunciazioni giuridiche di principio, nel complesso facilmente comprensibili anche da parte del profano, alla formulazione di categorie di condotte professionali al fine di distinguere quelle doverose - la cui violazione comporta un giudizio di colpa – da quelle che non costituiscono regole consolidate e fisse, risulta evidente che il sostantivo "omissione", connotato negativamente, può essere impiegato con proprietà solo per talune categorie di condotte mediche, ma non per altre.
Questo è un tema che non può essere affrontato in questa sede, data la sua complessità ed il fatto che riguarda la colpa e non il nesso causale. Ma è opportuno richiamarlo anche in questa circostanza ricordando, con una preliminare e semplificante notazione, che tra le basilari regole interne all’arte medica figura l’antichissimo "primum non nocere" il quale, in una lettura aggiornata, si può ritenere comprenda tutte quelle condotte prudenti e competenti che implicano una ponderata valutazione dei pro e contro di determinati interventi diagnostici e terapeutici. Tale principio, che ha contenuti tecnici, fa sì che molte condotte di tipo attendista – cioè deliberatamente astensionista (non frutto, quindi, di negligenza od imprudenza) – possano essere legittimamente incluse nell’area dell’opzionalità discrezionale del medico, che si avvale di decisioni caso per caso, e momento per momento: le quali possono ovviamente anche risultare alla fine erronee e produttrici di danno, per insufficienza intrinseca di prevedibilità di una determinata evoluzione sfavorevole e perché collocate spesso nella zona grigia che separa l’errore giustificato da quello ingiustificabile.
In altri termini molte delle censure rivolte ai medici con il "senno del poi" - cioè per l’esito sfavorevole di un trattamento, e che con frequenza crescente riguardano condotte qualificate come "omissive" - devono oggi essere riconsiderate tramite una griglia criteriologica medico-legale che attende ancora di essere sistematizzata nell'attuale fase di lenta e faticosa costruzione della corretta e globale metodologia medico-legale necessaria all’esercizio peritale in ambito di responsabilità medica penale e civile. Nel contempo, come già detto al par. 4, devono essere massimi l’attenzione ed il rigore nel valutare le vere omissioni per negligenza che indubbiamente si incontrano nella pratica medico-legale.
Non si possono invece accettare gravi violazioni del principio di legalità e di uguaglianza che si annidano in modulazioni discriminanti dei criteri di accertamento del nesso causale. Le regole devono valere per tutti, medici compresi, e quindi la necessità del rigore scientifico, che autorevolmente la Corte Suprema ha affermato, appare non contestabile malgrado le difficoltà operative medico-legali siano spesso tali da rendere irraggiungibili i traguardi di probabilità vicini al cento.

8. Il ripetuto richiamo della sentenza n. 1688/2000 alla dottrina della sussunzione sotto leggi e le puntualizzazioni in essa contenute (del tutto condivisibili sul piano scientifico) circa l’utilizzo rigorosamente restrittivo del criterio probabilistico nell’accertamento del nesso causale, inducono a qualche commento complementare sul versante medico-legale.
La complessità del mondo moderno, in crescita continua ed esponenziale, rende sempre più profondo il solco che separa i vari settori delle conoscenze ed incrementa le difficoltà di comunicazione tra di essi. La cosiddetta "globalizzazione", processo che - seppur riguardante principalmente l’economia - investe indubbiamente anche il mondo dell’informazione scientifica, può attenuare questi ostacoli attraverso le facilitazioni introdotte dall’informatica. Oggi chi possa avvalersi di un computer collegato con Internet è in grado di accedere in tempo reale, dal più remoto ed isolato angolo del pianeta, ad informazioni di qualsiasi tipo, e quindi anche a quelle scientifiche che, per di più, sono prevalentemente scritte in lingua inglese, largamente diffusa.
Tuttavia l’accesso all’informazione non significa certo poter facilmente penetrare nell’intimo delle conoscenze specifiche di settore, che sempre più frequentemente appaiono patrimonio utilizzabile da pochi esperti, spesso superspecializzati all’interno di una determinata area disciplinare. Coloro che a questi esperti si rivolgono per ottenerne l’aiuto - come avviene nell’istituto peritale - devono accontentarsi di accettare la loro mediazione culturale attraverso semplificazioni e volgarizzazioni di nozioni e principi molto complessi, che espongono continuamente al rischio di erronee interpretazioni ed utilizzazioni nei casi concreti. Senza dire degli errori di "trasmissione" di tali informazioni che provengono dagli stessi esperti: sia perché spesso si tratta di esperti solo in apparenza, sia perché altri, pur realmente competenti, sono poco idonei ad utilizzare i contenuti del proprio sapere a fini diversi da quelli loro abituali ed a trasmetterli in modo sufficientemente comprensibile anche ai profani e, soprattutto, a renderli congrui all’obiettivo specifico del committente: esigenza che, in ambito peritale, presuppone una appropriata conoscenza degli obiettivi di natura giuridica.
L’istituto della perizia giudiziaria soffre in misura elevata queste difficoltà e non soltanto nella perizia medico-legale ma anche in altre. Le conseguenze pratiche negative di questa situazione sono sotto gli occhi di chiunque si soffermi a considerarle.
Per quanto ci riguarda siamo da lungo tempo testimoni di quanto avviene nell'area delle perizie medico-legali ed in particolare di quelle elaborate per casi di asserita responsabilità professionale medica.
Sempre più frequentemente, in questo settore, si osservano interventi tecnici, in qualsiasi posizione siano collocati – per l’accusa e le parti civili, per la difesa e per i giudici – in cui si concentrano negativamente carenze culturali mediche, carenze metodologiche medico-legali e gravi carenze di capacità di comunicazione argomentata, sia nelle relazioni scritte che, ancor più, nelle perizie orali. L’accertamento del nesso causale è tra gli aspetti che più risentono di tali inadeguatezze.
Quanto si è detto - ripetendo del resto concetti già espressi - viene riproposto in questa sede per la preoccupazione che gli ineccepibili principi affermati nella qui annotata sentenza possano rimanere di fatto lettera morta nei prossimi giudizi di merito. Ciò potrà infatti accadere se lo sforzo di approfondimento richiesto ai consulenti, e quindi agli stessi magistrati, non si eserciterà continuamente nei casi concreti, con la flessibilità modulata alle singole contingenze, ed avvalendosi dell'indispensabile criteriologia operativa. Se tale esigenza di approfondimento non sarà capillarmente soddisfatta, si correrà il rischio reale che il richiamo della Cassazione alle leggi scientifiche rimanga una interessante petizione di principio peraltro vanificata nella realtà dalle approssimazioni, quando non addirittura da grossolani errori.
A questo fine appare opportuno richiamare alcune elementari nozioni in tema di probabilità, per la quale diverse sono state le teorie elaborate: a dimostrazione che questo stesso concetto richiede, in chi se ne avvale nei casi pratici, qualche punto fermo che serva di orientamento. Conoscere la varietà delle tesi può infatti servire, nella pratica forense, a sollecitare la massima prudenza ed attenzione nell’uso dei principi e dei termini, in particolare degli aggettivi.
Nei giudizi medico-legali sono infatti assai frequenti le conclusioni probabilistiche basate su valutazioni largamente approssimative, mentre sono infrequenti le circostanze in cui ci si può avvalere di un calcolo vero e proprio: si tratta essenzialmente dei risultati di analisi di laboratorio come le indagini di paternità e le diagnosi "individuali" di appartenenza di tracce biologiche ad un determinato individuo. Negli altri casi, e nella responsabilità medica in particolare, i limiti tecnici del perito sono spesso rilevanti, per cui i giudizi probabilistici devono essere formulati con la massima accuratezza e con una esatta criteriologia scientifica benché priva di quantificazione percentualistica: è questo, ci sembra, il messaggio più importante che dobbiamo cogliere nella sentenza n. 1688/2000 della Cassazione.
E’ dunque indispensabile avere chiaro il concetto scientifico di probabilità ed i limiti che derivano, già in sede teorica, dall’avvicendarsi e competere di dottrine differenti sulla materia; ed in sede pratica, avere costante consapevolezza delle difficoltà che sono intrinseche all’utilizzo del criterio di probabilità per esprimere motivati giudizi sulla sussistenza, o meno, del nesso causale: non solo nelle condotte illecite omissive, ma spesso anche in quelle commissive.

9. Ci limitiamo a ricordare, in poche righe, che le discipline probabilistiche (la teoria della probabilità e la statistica induttiva) ebbero una prima soddisfacente sistemazione scientifica ad opera di P.S. de Laplace che diede dignità scientifica a problemi legati principalmente ad aspetti della vita comune (giochi d’azzardo, determinazione di rendite, ecc.). Quella enunciata da de Laplace è conosciuta come Teoria classica ed è basata sul principio dell’indifferenza: due eventi sono ‘equipossibili’ a parità di ragioni del loro verificarsi. La probabilità di un evento è definita come rapporto tra il numero dei casi favorevoli al suo accadimento ed il numero dei casi ‘equipossibili’.
La teoria classica lascia nel vago la nozione di ragione favorevole al verificarsi di un dato evento. Per tale motivo sono state elaborate le teorie logiche (Keynes, Johnson, Carnap, Jeffreys) che concordano nel riguardare la relazione fra un’ipotesi e le sue ragioni come una relazione logica fra proposizioni.
Le teorie frequentiste (von Mises, Reichenbach ed altri), in alternativa alla teoria classica, considerano la probabilità come la frequenza relativa di un evento in una serie causale di eventi simili ripetibili.
Le teorie soggettive si richiamano essenzialmente alla concezione elaborata da Savage e de Finetti. Un’asserzione di probabilità, secondo queste teorie, esprime l’aspettativa di un invididuo S relativamente al verificarsi di un evento E. Il grado di fiducia di S nel verificarsi di E è una funzione dell’evidenza disponibile; partendo dall’ipotesi che S sia disposto a modificarlo in relazione al crescere dell’informazione e in ottemperanza a certi requisiti di coerenza con il sistema complessivo delle sue aspettative, la probabilità soggettiva di E viene identificata con il grado di credenza ‘rettificata’ o ‘ ragionevole’ di S.
Infine si deve menzionare la cosiddetta assiomatizzazione della teoria delle probabilità, impostata verso una visione tollerante, antidogmatica, che negli ultimi decenni si è andata diffondendo e che si ispira alla convinzione secondo cui esistono molte interpretazioni della ‘probabilità’ o meglio molti metodi di misura di essa, ognuno dei quali si adatta meglio di altri a un particolare ambito di applicazione delle nozioni probabilistiche.
Si è ritenuto utile citare le principali teorie probabilistiche elaborate nel tempo, con il solo scopo di richiamare la complessità dei problemi teorici che in questo campo si presentano. Tra le teorie citate si ha l’impressione che meglio si adatti ai nostri fini l’ultima, perché dotata di una maggiore ed eclettica flessibilità.
Detto questo, appare tuttavia difficile trarre dalle teorie elementi per una trasposizione in ambito metodologico medico-legale. La conoscenza, pur anche approssimativa, di questo affascinante ambito culturale, appare inadeguata, di per sé, alla costruzione di una criteriologia generale applicabile con sufficiente praticità operativa da periti dotati di bagagli professionali così eterogenei come quelli che con crescente frequenza si incontrano nei tribunali.
Di questo rilevante ostacolo è indispensabile prendere coscienza allo scopo di rinverdire proposte metodologiche del passato che purtroppo vediamo rarissimamente applicate benché ad esse non siano state opposte motivate alternative. Ne faremo cenno al prossimo paragrafo.
Nel contempo, però, è necessario trarre anche un’altra conclusione: il dovere di informare i magistrati della povertà di mezzi di cui i periti medici legali dispongono per dare supporto al criterio probabilistico che oggi essi, tramite la sentenza 1688/2000 della Corte di Cassazione, ripropongono in termini doverosamente rigorosi ed esigenti.
Se tale chiarimento non viene realizzato, il mutato orientamento della Corte che emerge nella sentenza qui annotata potrebbe incontrare serie difficoltà applicative se gli stessi periti, omettendo di avvalersi di una rigorosa criteriologia in tema di nesso causale, continuassero a basarsi (come purtroppo spesso accade) su valutazioni soggettive sia in ordine all’esistenza di probabilità reali di un nesso causale, sia, soprattutto, sulla quantificazione del grado di tale probabilità.

10. Più volte, in passato, uno di noi ha tentato un riordino delle tappe criteriologiche indispensabili per la valutazione, positiva o negativa, del nesso causale in medicina legale. E’ una criteriologia non indispensabile in tutti i casi – che spesso si presentano con caratteri tali da non indurre a ragionevoli dubbi – ma necessaria in altri.
Ricitare le proprie proposte non ha il pregio dell’eleganza. Ma d’altro canto ci si sarebbe potuto aspettare un confronto dialettico che mettesse a raffronto ipotesi diverse. Ciò non è avvenuto ed il proponente dovrebbe prendere atto dello scarso interesse suscitato dalla propria elaborazione. Tuttavia si è indotti ad insistere di fronte al ripresentarsi del problema, oggi sollecitato ulteriormente dalla sentenza qui annotata: la quale presenta esigenze metodologiche medico-legali ancor maggiori rispetto al passato. Nella realtà peritale si ha l’impressione che perfino la rituale elencazione (ma in genere senza alcuna analisi) dei criteri di cui il perito dichiara di essersi avvalso – topografico, cronologico, di efficienza lesiva, di continuità ecc. – sia sempre più dimenticata. Ma senza essere sostituita da alcun altro criterio di giudizio, affidato spesso invece ad impressioni tradotte in convincimento.
In campo peritale, tuttavia, non è riconosciuto il diritto al libero convincimento, concesso invece ai giudici. Il parere tecnico deve essere motivato e la motivazione deve avere basi scientifiche. Queste basi servono per elaborare un giudizio finale attraverso la connessione scientifica, quindi razionale, dei dati: correlazione che passa, appunto, attraverso la griglia di criteri.
Considerato che l’impiego senza ordine gerarchico dei tradizionali criteri di giudizio medico-legali in tema di nesso causale appare ormai insostenibile alla luce delle attuali esigenze del criterio di certezza come pure di quello di elevata probabilità, non resta che riconsiderare la proposta di gerarchizzazione a suo tempo formulata: ovvero di prospettarne altre che, per quanto riguarda gli autori di questa nota, non appaiono all’orizzonte.
I due passaggi metodologici cardine costituiti dal criterio di possibilità scientifica del nesso causale e quindi dal successivo criterio di certezza o probabilità (che si avvale a sua volta di criteri articolati) rimangono per ora non superabili. Oggi, dopo la sentenza 1688/2000 ed il suo richiamarsi autorevolmente alla dottrina di Engisch della sussunzione sotto leggi di copertura scientifiche, la tappa preliminare costituita dal "criterio di possibilità scientifica" viene ad assumere un risalto se possibile ancora più rilevante.
L’aggettivo "scientifica" indica esplicitamente che la "possibilità" di un nesso causale deve essere primariamente indagata con le nozioni ed i metodi della scienza moderna, il che spesso è facile per la evidenza dei dati e del loro significato; ma di frequente è invece difficile richiedendo studio ed approfondimento.
La tappa successiva - che nel suo obiettivo finale si propone di effettuare la valutazione, positiva o negativa, sulla reale sussistenza del nesso causale - cerca di proporsi il traguardo della certezza e solo subordinatamente quello della elevata probabilità.
Di fatto la certezza medico-legale del nesso causale è raggiungibile – non solo in ambito di responsabilità medica – in un numero ridotto di casi, mentre i giudizi probabilistici, anche se non qualificati esplicitamente come tali, rappresentano invece la maggioranza, sia nelle condotte di azione che di omissione.
E’ per tale ragione che i giudizi di probabilità, pur non potendo essere, purtroppo, quantificabili in numeri percentuali (fatta eccezione per talune indagini identificative di laboratorio), devono essere solidamente fondati su basi scientifiche e criteriologiche tali da rendere la probabilità "seria e notevole", come più volte affermato dalla Corte di Cassazione in precedenti sentenze relative al nesso causale nelle condotte omissive dei medici (cfr. supra par. 3).
La sentenza n. 1688/2000 è apprezzabile anche sotto questo profilo, in quanto al punto V dei propri motivi cita, e sembra far propria, la dottrina che include implicitamente il pregiudiziale criterio di possibilità, ma nel contempo ne dichiara l'insufficienza richiedendo invece la sussistenza di una alta probabilità logica o elevata credibilità razionale: ed è questa che può considerarsi, sul piano pratico, vicina alla certezza, vicina a cento. La pretesa della certezza "è chiaramente utopistica", ma nel contempo, in tema di condotte omissive, il giudice non solo non può accontentarsi della mera possibilità, ma neppure di serie ed apprezzabili possibilità dì successo (cui hanno fatto riferimento alcune sentenze della Cassazione in precedenza citate). Il giudizio che gli viene richiesto deve essere invece provvisto di ‘elevata credibilità razionale’ o ‘alta probabilità logica’ o ‘quasi certezza’.

11. La sentenza n.1688/2000, che merita un ammirato consenso, non può tuttavia essere considerata un punto di arrivo, ma solo una tappa di un cammino aspro e tortuoso.
Le speranze che essa accende relativamente al nodo tra i più cruciali dell’applicazione del diritto, costituito dal nesso causale, non sono prive di contestuale preoccupazione per il futuro, specie per il contenzioso sulla responsabilità medica. Nello stesso mese di settembre del 2000 la Corte di Cassazione Civile ha infatti reso nota una sentenza che, in tema di nesso causale, si colloca in una posizione opposta estendendo i criteri di giudizio oltre ogni ragionevole limite, addirittura confondendo causalità e colpa.
E’ dunque necessario che si apra un ampio ed approfondito dibattito in questo delicato ed interessante momento, perché il ritrovato rigore della Cassazione penale sia adeguatamente pubblicizzato tra magistrati, giuristi e medici legali e non rimanga invece informazione e principio confinato a pochi cultori più attenti al dinamico mutare del diritto vivente. Nel contempo non può negarsi la preoccupazione che il rigore invocato dalla sentenza e previsto dalla Relazione Grosso, in tema di accertamento del nesso causale, non preluda all’introduzione nel progettato codice penale dei reati di mera condotta perseguibili indipendentemente dal danno arrecato: un pericolo di recente prospettato da Iadecola.
La lettura della sentenza n.1688/2000 appare infine di grande importanza come nuovo stimolo ai cultori della Medicina Legale affinché riprendano l’opera di approfondimento metodologico che i maestri del passato hanno compiuto nel corso di tutto il secolo ventesimo, specie nella sua prima metà. Il diffondersi del contenzioso per responsabilità medica, in particolare, ha aperto un capitolo della disciplina - in passato occupato da casi sporadici - il quale presenta le massime difficoltà di accertamento tecnico e, ancor più, di valutazione dei dati.
Il nesso causale è certo uno dei passaggi cruciali e su di esso dovranno ritornare a confrontarsi tutti i cultori della disciplina, affinchè le nuove leve non siano lasciate prive di un aggiornato supporto culturale nel quale le leggi scientifiche devono occupare un posto privilegiato. Il percorso di rielaborazione dottrinale, che si presenta come indispensabile nell’orizzonte dalla Medicina Legale, potrà trovare un aiuto rilevante, forse risolutivo, nelle idee del massimo metodologo del nostro tempo, Karl Popper, padre dell’analisi critica dell’idea di possesso della verità scientifica (le nostre conoscenze sono approssimate e verosimili) e del principio di argomentazione "falsificante", mediante la quale si possono dimostrare gli errori delle nostre ipotesi senza invece pretendere in termini certi la verificabilità degli assunti.
Su questa linea è da ritenere potrà incardinarsi il dialogo con i giuristi che i periti (perlomeno i periti medici) hanno il dovere di informare circa i limiti delle conoscenze scientifiche e quindi sulle difficoltà di pervenire a certezze auspicabili ma non sempre raggiungibili.

Angelo Fiori, Giuseppe La Monaca (in corso di pubblicazione su "Rivista Italiana di Medicina Legale")

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Meno burocrazia per gli studi medici

Bollatura registri

Una circolare del "Agenzia delle Entrate" (92/E del 22 Ottobre 2001) ha precisato alcune nuove normative che derivano dalla Legge approvata dal Parlamento il 10 Ottobre 2001, sui "primi interventi per il rilancio dell’economia".
Tali norme riguardano in particolare la soppressione di alcuni adempimenti dovuti finora dai professionisti, medici inclusi, nonche’ la semplificazione degli altri adempimenti stessi.
L’art. 8 della Legge prevede innanzitutto la soppressione delle bollatura del Libro Giornale e del Libro degli Inventari nonche’ anche dei Registri Tributari.
Non sono piu’ soggetti a bollatura, ma si ritengono regolarmente tenuti, anche se solo numerati progressivamente in ogni pagina il registro delle fatture, quello degli acquisti, nonche’ il Registro dei Corrispettivi. Tali Registri sono obbligatori nell’esercizio dell’attivita’ libero-professionale anche dei medici di famiglia.
Non sono piu’ soggetti a bollatura ma a semplice a numerazione progressiva delle pagine anche i Registri previsti ai fini delle Imposte Dirette.
Secondo la normativa precedente la bollatura doveva essere effettuata dall’Ufficio del Registro, dal notaio, o dall’Ufficio delle Entrate. Questi uffici numeravano le pagine e ne certificavano il numero complessivo. Tutto cio’ viene sostituito dalla semplice attribuzione del numero progressivo di ciascuna pagina fatta dal contribuente.
La soppressione dell’obbligo di bollatura influisce anche sulle sanzioni derivanti dalla precedente normativa in quanto tali violazioni non possono essere piu’ considerate tali in base alla Legge successiva.
La legge sopra detta (comunemente chiamata "Legge dei 100 giorni") prevede anche una modifica semplificativa dei regimi fiscali relativi a trasferimenti e conseguenti a successioni per causa di morte nonche’ degli atti di donazione tra famigliari.

Rifiuti speciali:

La L.16 NOVEMBRE 2001, N°405, (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 268 del 17.11.2001) "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 18 settembre 2001, n. 347, recante interventi urgenti in materia di spesa sanitaria" ha sancito che " . I rifiuti sanitari speciali non tossico-nocivi, dopo un procedimento di disinfezione di una durata non inferiore a 72 ore, o sottoposti a processo di sterilizzazione mediante autoclave dotata di sistemi di monitoraggio e controllo delle fasi di sterilizzazione, possono essere assimilati ai rifiuti urbani."
Viene quindi introdotta la possibilita', per gli studi medici, di adottare metodiche alternative a quelle finora vigenti per lo smaltimento dei rifiuti. Occorrera' pero' attendere ulteriori dettagli sulle metodiche di disinfezione ammesse.

Targhe per l' attivita'

La legge 21/12/2001 n. 448 (Legge Finanziaria 2002) stabilisce, all' art. 10, l' abolizione dell' imposta sulle insegne che indichino la sede dell' esercizio. Viene meno, quindi, per il medico, l' obbligo di pagare tale imposta, nonche' gli obblighi burocratici connessi a tale adempimento. Resta pero' l' obbligo di sottostare alle regole deontologiche stabilite dagli Ordini.

Attivita' lavorative

La finanziaria prevede pure, all' art. 19, diverse innovazioni e facilitazioni per l' attivita' medica::
 comma 10." I medici di base iscritti negli elenchi di medicina generale del Servizio sanitario nazionale, con almeno dieci anni di servizio, in possesso di titoli di specializzazione riconosciuti dall’Unione europea, possono, a richiesta e secondo la disponibilità dei posti, essere inseriti nella medicina specialistica ambulatoriale e sul territorio, rinunciando all’incarico di medico di base.
    11. I laureati in medicina e chirurgia abilitati, anche durante la loro iscrizione ai corsi di specializzazione o ai corsi di formazione specifica in medicina generale, possono sostituire a tempo determinato medici di medicina generale convenzionati con il Servizio sanitario nazionale ed essere iscritti negli elenchi della guardia medica notturna e festiva e della guardia medica turistica ma occupati solo in caso di carente disponibilità di medici già iscritti negli elenchi della guardia medica notturna e festiva e della guardia medica turistica.
    12. Il medico che si iscrive ai corsi di formazione specifica in medicina generale, previo svolgimento di regolare concorso, può partecipare successivamente, a fine corso o interrompendo lo stesso, ai concorsi per le scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia per il conseguimento dei titoli di specializzazione riconosciuti dall’Unione europea. Il medico che si iscrive alle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia per il conseguimento dei titoli di specializzazione riconosciuti dall’Unione europea può partecipare successivamente, a fine corso o interrompendo lo stesso, ai concorsi per i corsi di formazione specifica in medicina generale.

Daniele Zamperini

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PRINCIPALI NOVITÀ IN GAZZETTA UFFICIALE
mese di gennaio 2002

La consultazione dei documenti citati, come pubblicati in Gazzetta Ufficiale, è fornita da "Medico & Leggi" di Marco Venuti: essa è libera fino al giorno 20.02.2002. Per consultarli, cliccare qui

DATA GU TIPO DI DOCUMENTO TITOLO DI CHE TRATTA?
23.01.02 19 Conferenza Stato-Regioni Accordo tra Governo, regioni e le province autonome di Trento e Bolzano sui livelli essenziali di assistenza sanitaria ai sensi dell'art. 1 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni. (Repertorio n. 1318) I tanto attesi "LEA"
10.01.02 8 Decreto del Ministero della salute Sorveglianza obbligatoria della malattia di Creutzfeldt-Jakob .................
10.01.02 8 Legge 1 Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 12 novembre 2001, n. 402, recante disposizioni urgenti in materia di personale sanitario Specialisti in diverse branche possono svolgere l'attività di medico competente
09.01.02 7 Decreto del Presidente della Repubblica Regolamento che stabilisce le condizioni nelle quali è obbligatoria la vaccinazione antitubercolare, a norma dell'articolo 93, comma 2, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 .................
09.01.02 7 Decreto del Presidente della Repubblica Regolamento recante modalità di esecuzione delle rivaccinazioni antitetaniche, a norma dell'articolo 93, comma 2, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 .................
07.01.02 5 Decreto del Presidente della Repubblica Regolamento recante semplificazione dei procedimenti per il riconoscimento della dipendenza delle infermità da causa di servizio, per la concessione della pensione privilegiata ordinaria e dell'equo indennizzo, nonchè per il funzionamento e la composizione del comitato per le pensioni privilegiate ordinarie ..................
29.12.01 301 Legge 448 Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002) Come ogni anno, alcuni articoli interessano l'attività medica

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