Settembre
2000

PILLOLE DI MEDICINA
TELEMATICA

Patrocinate
da
- SIMG-Roma
 
-A.S.M.L.U.C.

  Periodico di aggiornamento e varie attualita' a cura di: 
Daniele Zamperini md8708@mclink.it, Amedeo Schipani mc4730@mclink.it,
Responsabili della versione "illustrata":Massimo Angeloni mc1448@mclink.it  Maurizio Pino mpino@itelcad.it
"GEMELLATA" con Med-News di Enzo Brizio (e.brizio@tin.it)
Il Bollettino viene inviato gratuitamente a chiunque ne faccia richiesta. Si invita ad attuare l' iscrizione anche alla lista"gemella". L' archivio dei numeri precedenti e' consultabile su: http://utenti.tripod.it/zamperini/pillole.htm (Visitate anche le altre pagine, sono ricche di informazioni!)


INDICE GENERALE

  PILLOLE

MINIPILLOLE

  NEWS  

Agopuntura contro le tossicodipendenze da cocaina
Trapianto di testa: horror o realtà?
Funzionerà l'arma biologica contro la zanzara tigre?
Anti IgE promettenti per I bambini asmatici
Caffè: mal di testa in agguato se si “abbandona” nel weekend
Successo della terapia genetica per l’ischemia miocardica cronica
Il sonno rivelatore
Malattie polmonari indotte dai medicinali
Semi di anice per stimolare la digestione
Rischio di m. di Hodgkin aumentato nei pazienti affetti da colite ulcerosa
Toxoplasmosi: un verdetto di assoluzione per i gatti

  

APPROFONDIMENTI

MEDICINA LEGALE E NORMATIVA SANITARIA  
Rubrica gestita dall' ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale Universita' Cattolica


CONGRESSI E CONVEGNI
Gli eventi a noi segnalati verranno comunicati tramite Pillole; le locandine (linkabili) saranno conservate, fino a scadenza, sul Sito Web. Ovviamente non ci assumiamo responsabilita' sulla qualita' dei contenuti ne' dell'organizzazione degli stessi. Chi desiderasse ulteriori informazioni (impossibile riportare TUTTO sul web) e' pregato di contattarci. I nuovi convegni segnalati dai colleghi


Pillole di buonumore (oggi: Diete e Cibi, da "Ridiamocisopra")

"Non mangio mai ostriche. Il cibo mi piace morto. Non malato, ne' ferito. Morto." (Woody Allen)


PILLOLE

La doxazosina è meno efficace nelle patologie cardiovascolari
E' stato interrotto prematuramente un braccio dello studio ALLHAT (Antihypertensive and Lipid Lowering treatment to prevent Heart Attack Trial) in quanto uno dei farmaci testati, la doxazosina, si è dimostrato meno efficace della terapia tradizionale di confronto (mediante diuretici) nel ridurre alcune patologie cardiovascolari.
La decisione è stata presa in base all'evidenza che in una percentuale significativamente maggiore di pazienti del gruppo doxazosina insorgeva insufficienza cardiaca congestizia (che era un end point secondario) ed alla considerazione che la doxazosina appariva meno efficace del clortalidone nella prevenzione della malattia coronarica (end point principale).
Lo studio ALLHAT ha portato ad arruolare oltre 40.000 pazienti.
Per definizione, tutti i farmaci antipertensivi abbassano la pressione e si ritiene che tale riduzione di per sè riduca morbilità e mortalità, e che tale riduzione di eventi avversi non sia correlata, o lo sia scarsamente, al meccanismo attraverso cui la pressione viene ridotta. Questo concetto del primato dell'abbassamento della pressione è stato rassicurante per i medici e per le autorità sanitarie, e finora la riduzione della pressione è stata ritenuta una prova sufficiente di efficacia per qualsiasi nuovo farmaco antipertensivo.
I bloccanti post-sinaptici o gli alfa-litici periferici sono usati da oltre due decenni nel trattamento dell'ipertensione, eppure solo ora è stato evidenziato che un componente di questa classe produce un beneficio inferiore a quello di un diuretico. E' stato ben documentato che gli alfa-litici esercitano un effetto benefico sulla sindrome metabolica dell'ipertensione, determinando in particolare una riduzione dell'insulino-resistenza. E, tra tutti i farmaci antipertensivi, la doxazosina si è dimostrata di fatto quello dotato dell'effetto più intenso sull'insulino-resistenza. Al contrario, i diuretici aumentano la resistenza all'insulina. Pertanto, si è molto sperato che la doxazosina, in aggiunta ai benefici conseguenti alla riduzione pressoria, potesse migliorare anche i fattori di rischio metabolico correlati alla malattia cardiovascolare ipertensiva, dimostrandosi per questo di particolare utilità, o almeno più efficace dei diuretici nel prevenire la malattia coronarica.
La decisione del Data Safety Monitoring Board dell'ALLHAT indica evidentemente che non è così. Questo organismo ha invece constatato che la terapia diuretica a basso dosaggio offre complessivamente più benefici cardiovascolari della doxazosina. Lo studio ALLHAT non ha evidenziato alcuna differenza tra i due gruppi relativamente alla pressione diastolica, mentre è emersa una differenza di 3 mmHg nella pressione sistolica, il che non dovrebbe giustificare l'aumento dello scompenso cardiaco, ma potrebbe spiegare perché i soggetti trattati con doxazosina presentavano un 25% in più di eventi cardiovascolari rispetto ai pazienti trattati con clortalidone. La minore differenza nella pressione arteriosa indica che le modificazioni indotte dal farmaco sulla resistenza all'insulina e sulla dislipoproteinemia non sono clinicamente rilevanti, o che un potente fattore di rischio ancora sconosciuto, associato alla terapia con doxazosina, si contrappone all'effetto benefico correlato alla diminuzione pressoria e al miglioramento dell'insulino-resistenza, o che i diuretici offrono alcuni benefici cardiovascolari indipendentemente dal loro effetto antipertensivo. Ora le linee guida dovranno essere riprese in considerazione, per il semplice fatto che la doxazosina, o l'intera classe degli alfa-litici, non potranno ancora essere classificati tra i farmaci antipertensivi di prima scelta.
Si potrà ancora utilizzare tale farmaco per la remissione dei sintomi in pazienti con nicturia secondaria ad iperplasia prostatica, anche se probabilmente è da evitarsi in pazienti con scompenso cardiaco congestizio manifesto o latente.
DZ. Fonte: F.H. Messerli: Lancet  (355:863-864)
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Helicobacter pylori: terapia eradicante a seconda dei ceppi?
La scoperta che l’H.P., batterio microanaerofilo e gramnegativo, presente a livello dello stomaco degli esseri umani fin dalla piu’ remota antichita’ (antigeni verso questi batteri sono stati identificati in materiale prelevato da antiche mummie) ha rivoluzionato la terapia dell’ulcera peptica e delle malattie dell’apparato digerente superiore. Infatti l’infezione da H.P. e’ generalmente accettata come fattore di rischio sia per l’adenocarcinoma gastrico che per il linfoma (malt). Per questo motivo la terapia antibiotica mirata ad eradicare l’H.P. e’ consigliata nei pazienti infettati che presentano ulcere peptiche a livello gastricoduodenali o linfomi malt gastrici. Tuttavia e’ stato evidenziato che solo una piccola parte dei portatori cronici di H.P. ha sviluppato ulcera peptica o formazioni tumorali maligne per cui e’ stato evidenziato da alcuni ricercatori che alcuni ceppi di H.P. esprimono un gene particolare (cagA) i quali possono presentare una virulenza particolarmente evidente. E’ utile evidenziare che l’H.P. appartiene a una specie batterica in cui la diversita’ genetica e’ espressa a livello massimale: spesso infatti si riscontra infezione simultanea con ceppi multipli di H.P. che si scambiano le sequenze genetiche. Si e’ cercato percio’ di evidenziare le differenze tra i vari ceppi generici al fine di poter proporre una terapia mirata all’eradicazione dell’H.P. solo nei casi veramente necessari. Il ceppo cagA e’ stato a questo scopo particolarmente studiato e sono stati evidenziati dei marcatori morali che possano indicarne l’infezione. Un fatto paradossale e’ che, sebbene le infezioni da H.P. siano associate spesso alcune patologie a livello gastricoduodenali, alcuni dati sperimentali hanno suggerito che, al contrario, potrebbero svolgere un ruolo di protezione dell’esofago dallo sviluppo del reflusso gastroesofageo e dalle sue complicazioni come l’esofago di Barret e l’adenocarcinoma esofageo. E’ stato evidenziato ad esempio che l’infezione da H.P. e’ meno comune nei soggetti affetti da reflusso gastroesofageo rispetto ai pazienti sani; e’ stato anche osservato che pazienti affetti da ulcere duodenali trattati con antibiotici eradicanti hanno poi sviluppato un reflusso esofageo con una frequenza maggiore rispetto a coloro che invece non erano stati eradicati. Non e’ stata evidenziata nessuna associazione tra adenocarcinoma esofageo ed infezione da H.P.; tuttavia gli studi non sono definitivi. Le osservazione contraddittorie accennate sopra necessitano ovviamente di una conferma e di una spiegazione definitiva: mentre i ceppi con gene cagA costituiscono un fattore di rischio per le ulcere duodenali e per il tumore dello stomaco, e’ stato evidenziato che a livello di popolazione generale, pazienti affetti da ulcere duodenali vanno incontro a un rischio minore di sviluppo di tumore gastrico rispetto ai soggetti di controllo. Inoltre la positivita’ al gene cagA aumenta il rischio di malattie acido peptichegastroduodenali ma potrebbe far diminuire il rischio di esofagite peptica. In terzo luogo la positivita’ al gene di cagA incrementa il rischio di cancro allo stomaco ma potrebbe far diminuire il rischio di adenocarcinoma esofageo. Le ipotesi e le spiegazioni di questi dati sono molteplici, una di esse mette in relazione l’esito dell’infezione da H.P. cagA con una maggiore virulenza e una maggiore quantita’ di citochine proinfiammatorie, maggiormente gastrolesive. Per questo motivo le infezioni da gene cagA potrebbe determinare complicazioni piu’ severe della funzionalita’ gastrica. Sembra prematuro, in base a questi dati, condizionare la terapia eradicante dell’H.P. al solo screening tra cagA positivi e cagA negativi; a complicare la situazione si colloca anche il fatto che alcune popolazioni (per es. Taiwan) la maggior parte delle infezioni risulta cagA positiva, Per questo motivo bisogna completare le ricerche in atto per poter discriminare meglio l’utilita’ della terapia eradicante in relazione anche ai ceppi genetici di H.P. onde limitarla ai casi effettivamente necessari.
D.Z.: (Jama, ed. italiana, Giugno-Luglio 2000, vol. 12 n. 5-231)
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Anche i betabloccanti sono utili nello scompenso cardiaco: studio MERIT-HF
Diversi recenti studi hanno evidenziato che il blocco beta 1 nei pazienti con insufficienza cardiaca riduceva significativamente la mortalita’ totale. Tuttavia non sono stati effettuati studi completi su fattori quali ospedalizzazione, sintomi, qualita’ della vita. E’ stato percio’ stato effettuato uno studio multicentrico mirato a determinare gli effetti di un betabloccante a rilascio controllato su fattori quali mortalita’, ospedalizzazione, sintomi, qualita’ della vita, in pazienti con insufficienza cardiaca. Sono stati studiati quasi 4.000 pazienti in oltre 300 centri situati in 14 paesi; lo studio era in doppio ceco randomizzato della durata di circa 1 anno e mezzo con un follow-up medio di un anno. Venivano trattati pazienti in classe NYHA 2, 3, o 4 trattati con Metoprololo a rilascio controllato una volta al giorno a dosi crescenti. Si sono presi in considerazione fattori quali la mortalita’ totale, l’ospedalizzazione, il numero di ospedalizzazioni per peggioramento di insufficienza cardiaca, variazione nella classe NYHA per il gruppo di intervento. In un sottogruppo di 740 pazienti e’ stata valutata la qualita’ della vita. Nel gruppo dei pazienti trattati con betabloccanti e’ stato riscontrato un miglioramento di tutti i parametri con una diminuzione sia della mortalita’ specifica che della mortalita’ complessiva da ogni causa, una diminuzione della ospedalizzazione cardiaca dovuta ad aggravamento cardiaco, una diminuzione del numero dei giorni trascorsi in ospedale e un miglioramento della classe NYHA. Tali progressi erano tutti statisticamente altamente significativi. In conclusione si riscontra come un betabloccante a rilascio controllato (Metaprololo) migliora la sopravvivenza, riduce la necessita’ di ospedalizzazione e aveva effetti benefici sul benessere del paziente cardiopatico.
DZ. Jama 2000;283:1295-1302
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Malattia polmonare cronica ostruttiva e medicina primaria
La malattia polmonare cronica ostruttiva (Chronic Obstructive Pulmonary Disease = COPD) è comune, ma spesso scarsamente caratterizzata, particolarmente in medicina primaria (= medicina generale). Tuttavia, l’applicazione di linee guida alla gestione di questi pazienti richiede una chiara comprensione del fenotipo. In particolare, le linee guida britanniche per la gestione della COPD raccomandano che la diagnosi sia basata su sintomi appropriati e sulla dimostrazione di ostruzione del flusso aereo determinata mediante un FEV1 (= Volume Espiratorio Forzato in 1 secondo) <80% del valore normale e un rapporto FEV1/VC <70%.
Metodi. E’ stato fatto uno studio su 110 pazienti di età da 40 a 80 anni che si erano rivolti al loro medico curante per una esacerbazione acuta di COPD. L’episodio è stato trattato a domicilio e, quando i pazienti hanno recuperato una situazione di stabilità (due mesi dopo), sono stati sottoposti a una batteria completa di tests di funzione polmonare e ad una tomografia computerizzata del torace ad alta risoluzione (HRCT).
Risultati. C’era un’ampia gamma di riduzione del FEV1, che risultava nei limiti normali (>/=80%) nel 30% dei pazienti, lievemente diminuito (60-79%) nel 18%, moderatamente diminuito (40-59%) nel 33%, e severamente diminuito (<40%) nel 19% dei pazienti. Un rapporto FEV1/VC ridotto era presente in tutti i pazienti con un FEV1 <80%, ma era presente anche nel 41% dei pazienti con FEV1 >/=80%. Solo il 5% dei pazienti ha avuto una risposta consistente all’utilizzo di broncodilatatori, suggerendo una diagnosi di asma. L’enfisema era presente nel 51% dei pazienti e confinato ai lobi superiori nella maggioranza (il 73% di questi pazienti). L’HRCT ha dimostrato la presenza di bronchiectasie nel 29% dei pazienti, prevalentemente del tipo tubulare; la maggioranza erano attuali o ex fumatori. Un nodulo solitario del polmone è stato rilevato nel 9% degli esami, e in due pazienti è stato diagnosticato un carcinoma polmonare insospettato.
Conclusioni. Questo studio conferma che la malattia polmonare cronica ostruttiva in medicina primaria è una condizione eterogenea. Alcuni pazienti, con un FEV1 >/=80%, non rispecchiano completamente i criteri diagnostici proposti, ma ciononostante possono avere un’ostruzione al flusso delle vie aeree. La bronchiectasia è comune in questo gruppo di pazienti, come lo è il carcinoma non sospettato. Questi riscontri dovrebbero essere tenuti in considerazione nello sviluppo di raccomandazioni per l’indagine e la gestione della COPD nella comunità.

A. Schipani, da Thorax, agosto 2000

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Funzione polmonare e mortalità nella popolazione generale
 Numerosi studi hanno descritto una relazione tra funzionalità polmonare e mortalità sia per tutte le cause che per cause specifiche. Lo scopo di questo studio era di indagare il valore predittivo della funzionalità polmonare dopo 29 anni di follow-up.
Hanno partecipato allo studio 554 uomini e 641 donne, di età dai 20 agli 89 anni, selezionati in modo casuale tra tutte le famiglie elencate della città di Buffalo, NY (tutti inseriti nello studio prospettico con 29 anni di follow-up denominato Buffalo Health Study cohort).
Le misurazioni di base furono eseguite tra il 1960 e il 1961. La funzionalità polmonare fu valutata mediante la determinazione del FEV1 espresso in percentuale.
Risultati. Il FEV1 % ,aggiustato per età, indice di massa corporea, pressione arteriosa sistolica, scolarità e fumo, è risultato inversamente correlato alla mortalità per tutte le cause sia negli uomini che nelle donne (p < 0.01). E’ stata anche effettuata un’analisi sequenziale di sopravvivenza nei partecipanti che avevano un tempo di sopravvivenza di almeno 5, 10, 15, 20 e 25 anni dopo l’arruolamento nello studio. Con l’eccezione degli uomini che erano sopravvissuti per più di 25 anni, è stata riscontrata un’associazione negativa, statisticamente significativa, tra FEV1 % e mortalità per tutte le cause. Il FEV1 % era anche inversamente correlato alla mortalità per cardiopatia ischemica. Dividendo i partecipanti per quintili di FEV1 %, i partecipanti posti nel quintile più basso avevano una mortalità per tutte le cause significativamente più alta in confronto ai partecipanti nel quintile più alto. Per l’intero periodo di follow-up, gli indici di rischio di mortalità per tutte le cause sono stati 2.24 (IC 95% = 1.6 – 3.13) per gli uomini e 1.81 (IC 95% = 1.24 – 2.63) per le donne. Gli indici di rischio per mortalità da cardiopatia ischemica nel più basso quintile di FEV1 % sono stati, rispettivamente, per gli uomini 2.11 (IC 95% = 1.20 – 3.71) e per le donne 1.96 (IC 95% = 0.99 – 3.88).
Conclusioni. Questi risultati suggeriscono che la funzionalità polmonare è un fattore predittivo a lungo termine di sopravvivenza in entrambi i sessi e potrebbe essere utilizzata come strumento di valutazione generale della salute.
A. Schipani, da Chest, settembre 2000
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Consumo di alcool e rischio di cardiopatia ischemica in soggetti diabetici
In molti studi epidemiologici è stata osservata una relazione inversa tra moderato consumo di alcool e cardiopatia ischemica. Sul numero di agosto di Circulation due studi hanno valutato se la stessa relazione esista anche nei soggetti diabetici.
1. Il primo (Alcohol consumption and risk of coronary heart disease by diabetes status - Circulation 2000 Aug 1;102(5):500-5) è uno studio prospettico di coorte che prende in esame 87938 medici (di cui 2790 diabetici) partecipanti al Physicians' Health Study. I soggetti, tutti maschi, all’inizio dello studio erano esenti da infarto miocardico, stroke, cancro, o malattie epatiche, e sono stati seguiti per una media di 5.5 anni per valutare la mortalità per cardiopatia ischemica. Nel follow-up di 480876 anni/persona sono state documentate 850 morti per cardiopatia ischemica, di cui 717 riguardavano maschi non diabetici e 133 maschi diabetici. Per i soggetti non diabetici, le stime del rischio relativo per coloro che riferivano un consumo di alcool rispettivamente raro/nullo, mensile, settimanale e giornaliero sono state 1.00, 1.02, 0.82 e 0.61 (P per il trend = < 0.0001), dopo aggiustamento per età, utilizzo di aspirina, fumo, attività fisica, indice di massa corporea e storia di angina, ipertensione e colesterolo elevato. Per i soggetti che all’inizio dello studio erano diabetici le stime del rischio relativo per i vari livelli di consumo di alcool sono state rispettivamente 1.00, 1.11, 0.67 e 0.42 (P per il trend = 0.0019). Conclusioni.  Questi risultati suggeriscono che il consumo da lieve a moderato di alcool è associato a riduzioni di rischio di cardiopatia ischemica equivalenti in uomini diabetici e non diabetici.
2. Il secondo studio (Moderate alcohol consumption and risk of coronary heart disease among women with type 2 diabetes mellitus - Circulation 2000 Aug 1;102(5):494-9) valuta in modo prospettico l’associazione tra consumo moderato di alcool e rischio di cardiopatia in donne con diabete mellito di tipo 2, un gruppo ad alto rischio per malattie cardiovascolari. Sono state studiate donne partecipanti al Nurses' Health Study a cui era stato diagnosticato un diabete mellito all’rtà di 30 o più anni. Nel corso del follow-up di 39092 anni/persona dal 1980 al 1994 sono stati documentati in questa popolazione 295 eventi ischemici, di cui 194 casi di infarto miocardico non fatale e 101 casi di ischemia fatale. Rispetto alle donne diabetiche che non consumavano alcool, il rischio relativo, aggiustato per l’età, per infarto non fatale o fatale nelle donne diabetiche che riferivano un consumo abituale giornaliero di alcool da 0.1 a 4.9 g (< 0.5 drinks) era 0.74 (IC 95% = 0.56 – 0.98), mentre fra quelle che consumavano solitamente >/= 5 g/die era 0.48 (IC 95% = 0.32 – 0.72) (P per il trend <0.0001). L’associazione inversa tra consumo di alcool e rischio di cardiopatia ischemica è rimasta significativa nell’analisi multivariata aggiustando per svariati altri fattori di rischio coronarico. Conclusioni. Sebbene si debbano tenere in considerazione i rischi potenziali del consumo di alcool, questi dati suggeriscono che il consumo moderato di alcool è associato con un diminuito rischio di cardiopatia ischemica nelle donne diabetiche, e non dovrebbe essere routinariamente scoraggiato.
 A. Schipani, da Circulation, agosto 2000

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Pillole di buonumore

"I peccati della carne si fanno con la carne, non con le ossa" (da dire alle maniache della dieta).


MINIPILLOLE

Asma allergica curata con anticorpi anti IgE
Da lungo tempo e’ noto come gli anticorpi IGE hanno un ruolo importante nella patogenesi delle forme allergiche e in particolare dell’asma allergica. Sono stati effettuati in passato dei tentativi di enfatizzare tali anticorpi con vari metodi. All’Univarsita’ del Colorado e’ stata sperimentata una terapia con anticorpi monoclonali antiIGE. Sono stati esaminati 317 pazienti gia’ in trattamento cortisonico e randomizzati per placebo o per anticorpi monoclonali antiIGE a diverso dosaggio. A distanza di 12 settimane e’ stato valutato mediante uno specifico questionario il livello di gravita’ dei sintomi asmatici. Questo e’ risultato sensibilmente minore nei due gruppi trattati rispetto ai controlli. Non e’ stata riscontrata differenza significativa tra i pazienti trattati con alte o basse dosi di anticorpi monoclonali antiIGE. In conclusione la terapia con tali anticorpi monoclonali e’ in grado di alleviare i sintomi dell’asma allergica riducendo la necessita’ dei farmaci cortisonici.
D.Z : (N.E.J.M. 1999;341:1966-73)
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Celecoxib e diclofenac a confronto nell'artrite reumatoide
Sono ampiamente noti i vantaggi e gli svantaggi dei fans nel trattamento delle patologie croniche osteoarticolari: esse inibiscono la cicloossigenasi che media la sintesi delle prostaglandine; vengono pero’ inibite sia le prostaglandine di tipo infiammatorio che quelle deputate alla protezione della mucosa gastrica intestinale. E’ ben noto quindi l’aumento di rischio di lesioni ulcerative a carico dello stomaco nei pazienti in trattamento prolungato con fans. E’ stata valutata l’efficacia del Celecoxib, inibitore selettivo delle cicloossigenasi (COX-2) paragonandone i risultati con quelli ottenuti in un gruppo di controllo trattato con il Diclofenac, inibitore non selettivo. Sono stati trattati oltre 650 pazienti con artrite reumatoide: un gruppo e’ stato trattato con Celecoxib 400 mg. die e l’altro gruppo con Diclofenac 150 mg. die. L’azione antiinfiammatoria dei due farmaci e’ risultata pressoche’ equivalente; la tossicita’ a livello gastrico e’ stata invece nettamente ridotta per il Celecoxib (4% di ulcere rilevate alle endoscopie di controllo) rispetto al Diclofenac (15% di ulcere rilevate). La terapia e' percio' stata meglio tollerata nei pazienti trattati con Celecoxib che si e' pure dimostrato ugualmente efficace rispetto al Diclofenac.
D.Z.:(Lancet 1999;354:2106-11).
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Parkinson studiato negli ex-prigionieri di guerra
E’ stato da alcuni postulato il sospetto di una maggiore incidenza di malattie neurodegenerative tra i sopravvissuti ai campi di concentramento della seconda guerra mondiale, soprattutto tra coloro che erano vissuti in ambienti di estrema malnutrizione. Sono state percio’ studiate le cartelle cliniche di 11.000 ex prigionieri deceduti tra il 1952 e il 1997. La mortalita’ globale e’ risultata inferiore a quella prevista in base ai dati epidemiologici della popolazione generale con una minore incidenza di morbo di Parkinson rispetto al prevedibile. Lo stesso andamento e’ stato osservato per altre malattie degenerative (sclerosi multipla o altro genere: ictus cerebrale, cardiopatia ischemica, TBC). Sono risultati invece prevalenti le affezioni epatiche probabilmente in correlazione a pregressa infezione da virus di epatite "B" e "C". Gli autori concludono che il periodo di prigionia non ha avuto effetti sulla proprieta’ di insorgenza di malattie neurodegenerative in questi pazienti.
(n.d.r.: e’ da tenere presente pero’ che le cartelle cliniche esaminate (circa 11.000) costituiscono meno del 10% dei soggetti richiusi nei campi dei prigionieri di guerra in mano giapponese che sono state in totale circa 140.000).
D.Z.: (Lancet 1999;354:2116-20)
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La sindrome di Down predispone ad alcuni tumori
E’ ben noto come i pazienti con sindrome di Down (trisomia 21) presentano un aumentato rischio di leucemia. Non e’ nota tuttavia la reale incidenza di tali patologie e non e’ noto se a cio’ si accompagna un analogo incremento dei tumori solidi. Un gruppo di studiosi danesi ha studiato oltre 2.800 pazienti con sindrome di Down e ne ha esaminato la storia clinica. Sono stati individuati 60 casi di neoplasia (contro i 49,8 prevedibili nella popolazione normale). Il 60% di queste neoplasie e‘ di tipo leucemico e il rischio neoplastico dimostrava di variare con l’eta’ con una punta corrispondente ai primi 4 anni di vita. Il tipo neoplastico piu’ comune risultava essere la leucemia mieloide acuta. L’incidenza della leucemia si azzerava con crescita di eta’ intorno ai 30 anni; il numero dei tumori soldi e’ risultato non superiore alla media della popolazione normale. Si conclude che la sindrome di Down aumenta il rischio per la leucemia, in particolare durante la prima infanzia, ma non aumenta il rischio di tumori solidi.
D.Z.: (Lancet 2000;355:165-9)
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L'eritromicina favorisce la stenosi ipertrofica del piloro?
Uno studioso americano ha avanzato l’ipotesi che la terapia con Eritromicina usata nei neonati per la profilassi del contagio della pertosse possa essere associata a un maggior rischio di stenosi ipertrofica del piloro. Cio’ e’ derivato da uno studio retrospettivo effettuato in 200 neonati presenti in un Ospedale USA in cui nel Febbraio ‘99 essendo stati isolati dei casi di pertosse, fu effettuata una terapia profilattica con Eritromicina a tutti i neonati presenti. E’ stato osservato successivamente che almeno sette neonati hanno presentato stenosi ipertrofica del piloro che, dalle caratteristiche ecografiche e dalla valutazione prospettica della storia clinica suggeriscono una possibile associazione tra la somministrazione del farmaco e il verificarsi di tale patologia. Gli autori consigliano percio’ una prudenza e attenzione nell’esame del bilancio rischio-beneficio nell’utilizzo nell’eta’ neonatale di questo antibiotico.
D.Z.: (Lancet 1999;354:2101-5) 
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Differenze genetiche di HIV nei sessi
E’ stato osservato come nelle donne africane affette da HIV si abbia una popolazione virale piuttosto eterogenea a differenza di quanto si riscontra nei paesi industrializzati. Si e’ voluto percio’ studiare l’eventuale differenza specifica legata al sesso nell’ambito del polimorfismo virale dell’HIV. E’ stato quindi osservato in un gruppo di donne del Kenia che, mentre nel sesso femminile si presentavano casi di infezioni da varianti virali multiple, cio’ non avveniva per uomini in cui si osservava invece un’elevata omogeneita’ dell’agente infettivo. Gli autori concludono che esiste una differenzazione su base sessuale delle caratteristiche biologiche di trasmissione dell’ HIV nella specie umana.
D.Z.: (Nature Med 2000; 6: 71-5)
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Esame mammografico e terapia ormonale sostitutiva
Questo studio dimostra che la terapia ormonale sostitutiva puo’ influire sull’accuratezza diagnostica della mammografia. Cio’ puo’ rivestire una grande importanza data la diffusione sempre maggiore della terapia ormonica post-menopausale. Un équipe australiana ha verificato la sensibilita' e la specificita’ della mammografia per la diagnosi di cancro a piccole cellule in oltre 100.000 donne analizzando i risultati in funzione della eventuale assunzione di terapia sostitutiva ormonale. Le pazienti veniva sottoposte a screening mammografico ogni due anni. Lo studio ha rilevato che la sensibilita’ della mammografia era piu’ bassa nelle pazienti con terapia ormonale (64,8%) rispetto ai soggetti non trattati (77,3%). Era percio’ piu’ elevata la probabilita’ di un falso referto negativo nel gruppo delle donne con cancro mammario e in trattamento con farmaci sostitutivi. E’ stato verificato un calo della specificita’ stimabile pari allo 0,6%. In conclusione la terapia sostitutiva con estrogeni puo’ ridurre la capacita’ diagnostica della mammografia.
D.Z.: (Lancet 2000;355:270-4)
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Studio Atlantis: ictus ischemico trattato con fibrinolisi
Lo studio Atlantis intendeva verificare l’efficacia della somministrazione di rTPA (un fibrinolitico inibitore della tromboplastina tissutale) nell’ictus ischemico. Sono stati trattati 600 pazienti in 140 diverse Istituzioni nel nord America. Questi soggetti erano affetti da ictus ischemico da 3 a 5 ore. Non sono stati apprezzabili i benefici della terapia fibrinolitica sistemica: il recupero neurologico dei pazienti trattati e’ risultato simile a quella del gruppo di controllo trattato con placebo. Il fibrinolitico pero’ ha dimostrato un’incidenza di emorragie cerebrali anche fatali molto maggiore rispetto al gruppo di controllo. La mortalita’ globale era simile tra i due gruppi. Gli autori concludono che i dati ottenuti da questo studio non sostengono l’ipotesi che la terapia trombolitica oltre le 3 ore dall’esordio dei sintomi riferibili a ictus cerebrale ischemico sia utile per il paziente.
D.Z.: (Jama 1999;282:2019-26)
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Attività fisica ed ulcera peptica
Sebbene l’Helicobacter pylori sia stato identificato come una causa fondamentale di gastrite cronica, non tutti i pazienti infetti sviluppano un’ulcera, il che suggerisce che altri fattori quali lo stile di vita possono essere di importanza critica per lo sviluppo della malattia ulcerosa.
Obiettivo di questo studio: valutare il ruolo che l’attività fisica può giocare nell’incidenza dell’ulcera peptica. Metodi. Hanno partecipato 8529 uomini e 2884 donne, che hanno frequentato il Cooper Institute for Aerobics Research di Dallas, Texas, tra il 1970 e il 1990. La presenza di ulcera gastrica o duodenale diagnosticata da un medico è stata accertata mediante un questionario epistolare nel 1990. I partecipanti furono divisi in tre gruppi di attività fisica, sulla base delle informazioni fornite nel corso della visita iniziale (prima del 1990): 1) attivi, che camminavano o correvano per 10 o più miglia a settimana; 2) moderatamente attivi, che camminavano o correvano per meno di 10 miglia a settimana o facevano un’altra attività fisica regolare; e 3) il gruppo di controllo, composto da coloro che riferivano di non praticare attività fisica regolare. Dopo aggiustamento per età, fumo, consumo di alcool, indice di massa corporea e stress riferito, gli uomini attivi presentavano un rischio di ulcera duodenale significativamente ridotto: rischio relativo 0.38 (IC 95% = 0.15-0.94) per il gruppo “attivo” e 0.54 (IC 95% = 0.30-0.96) per il gruppo “moderatamente attivo”. Nessuna associazione è stata riscontrata tra attività fisica ed ulcera gastrica negli uomini, né per entrambi i tipi di ulcera nelle donne.
Conclusioni. L’attività fisica può fornire un metodo non farmacologico per ridurre l’incidenza di ulcera duodenale negli uomini.
Western Journal of Medicine, agosto 2000
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Pillole di buonumore

"Sai che le ostriche sono afrodisiache? ". "Non tutte. Ieri sera ne ho mangiate una dozzina e solo nove hanno fatto effetto".


NEWS 

 

Agopuntura contro le tossicodipendenze da cocaina
A Yale trial clinici rigorosi sono stati applicati a una delle più diffuse terapie alternative
22.08.2000 Le Scienze. - La reciproca diffidenza che caratterizza i rapporti tra i difensori della medicina allopatica e coloro che sostengono approcci medici alternativi lascia qualche volta spazio a collaborazioni interessanti. L’ultimo successo in ordine di tempo arriva da Yale ed è stato riportato nell’edizione del 14 Agosto di «Archives of Internal Medicine». Si tratta di una ricerca che ha dimostrato l’efficacia dell’agopuntura nel trattamento della tossicodipendenza da cocaina.
Lo studio è stato condotto su un gruppo di 82 consumatori abituali di eroina e cocaina. Contro la dipendenza da eroina è stato somministrato metadone, mentre veniva loro permesso di continuare l’uso di cocaina. Per combattere quest’ultima dipendenza i pazienti sono stati suddivisi in tre gruppi. Il primo gruppo di controllo ha partecipato semplicemente a sedute di rilassamento; al secondo è stata praticata un’agopuntura in punti che non hanno alcun effetto terapeutico; il gruppo di trattamento, invece, ha ricevuto una «vera» agopuntura. Ai partecipanti venivano applicati da tre a cinque piccoli aghi in punti particolari situati nell’orecchio per circa 45 minuti, cinque volte alla settimana. Regolarmente venivano effettuate analisi delle urine. Dopo otto settimane di trattamento, i risultati: il 54,8 per cento degli appartenenti al gruppo di trattamento sono stati trovati liberi dalla cocaina contro percentuali del 23,5 e del 9,1 per cento nei gruppi di controllo.
Arthur Margolin, ricercatore in psichiatria presso la Yale School of Medicine e coordinatore dello studio, sottolinea il basso costo dell’agopuntura e la pressoché totale assenza di effetti collaterali e si augura che questo tipo di ricerche si diffonda sempre più. Visto che l’agopuntura e altre forme di medicina non convenzionale stanno diventando molto popolari anche nei paesi occidentali, è importante che siano sottoposte a verifiche e trial clinici rigorosi.
«Il nostro studio» sostiene Margolin mostra che l’uso dell’agopuntura nel trattamento delle dipendenze da cocaina risulta consigliabile e che le terapie alternative possono essere combinate con gli strumenti della medicina convenzionale. Questo promettente risultato suggerisce l’utilità di ulteriori ricerche sull’agopuntura».
Renato Torlaschi  
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Trapianto di testa: horror o realtà?
La stampa non specializzata ha riportato con clamore alcune "previsioni scientifiche" effettuate durante un importante convegno. Al Congresso Mondiale sulle Biotecnologie e i Trapianti, svoltosi a Roma nel mese di Agosto 2000, e' stato infatti messo l' accento su alcune delle frontiere che, apparentemente fantascientifiche, possono essere invece superate dalla scienza in un periodo di tempo definito, valutabile in una decina d' anni.
Tra questa ha fatto scalpore l' ipotesi del trapianto di testa su un nuovo corpo o meglio, come hanno precisato gli scienziati, "trapianto di un corpo su una testa.
Ne ha parlato il prof. Ortensi, secondo il quale cio' e' materialmente possibile e, pur richiedendo una estrema precisione tecnica, e' realizzabile in una decina d'anni.
Il trapianto della testa prescinde, pero', da quello del midollo, per il quale gli studi sono ancora in corso e non e' ancora dato sapere se le due tecniche saranno compatibile o facilmente integrabili.
Altro genere di problematica e' quella etica, dai risvolti facilmente visibili e su cui i ricercatori hanno preferito sorvolare.
DZ. Riportato da Il Messaggero di Roma e altra stampa non specializzata
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Funzionerà l'arma biologica contro la zanzara tigre?
E' stato annunciato che in Florida sarebbe stata scoperta una nuova specie di zanzara con particolari caratteristiche: innanzitutto non e' ematofaga ma si nutre solo di nettare vegetale; inoltre tende a stanziarsi dove crescono le piante bromeliacee (le stesse predilette dalle zanzare-tigre) e tende percio' a contendere l'habitat agli individui dell' altra specie. Sembrerebbe in grado di limitarne grandemente le diffusione per cui molte speranze sono sorte sull' uso di questa potenziale arma biologica. Il fatto pero' che questa prediliga climi molto caldi e umidi (come quello della Florida, appunto) ha fatto sorgere dubbi sulla possibilta' di un acclimatamento alle nostre latitudini.
(DZ. Fonte: Il Messaggero di Roma).
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Anti IgE promettenti per I bambini asmatici
di Karla Harby
New York, 23 agosto (Reuters Health) – Un anticorpo monoclonale anti-IgE, chiamato omalizumab o rhuMAb-E25, sembra essere sicuro e può essere efficace in bambini con asma, secondo una relazione presentata qui alla consensus conference sponsorizzata dall’American College of Allergy, Asthma and Immunology (ACAAI) e dal St. Luke’s-Roosevelt Hospital Center.
”In uno studio randomizzato su 334 ragazzi di età dai 6 ai 12 anni con asma da moderato a severo, il 55% di quelli che ricevevano omalizumab è stato in grado di sospendere completamente l’utilizzo di cortisonici, contro il 39% di quelli che ricevevano placebo”, ha detto il dr Bob Lanier, un allergologo di Fort Worth, Texas, vice-presidente dell’ACAAI.
”Alcuni ragazzi sono ora senza terapia, neanche inalanti”, ha riferito il Dr Lanier. “O abbiamo avuto una quota massiccia di remissioni spontanee, o questo farmaco ha realmente fatto la differenza”.
L’anti-IgE viene sviluppato da Genentech, Inc., of South San Francisco, California; Novartis Pharmaceuticals, of East Hanover, New Jersey; e Tanox, Inc., of Houston, Texas. Il dr. Lanier ha puntualizzato che esso sembra meno efficace nei pazienti con asma severo che in quelli con malattia moderata. Ha inoltre attribuito il ridotto uso di steroidi nel gruppo placebo alla gestione intensa alla quale i soggetti sono stati sottoposti durante lo studio, tra cui controlli clinici settimanali.
A causa del suo meccanismo d’azione (interferenza con le IgE) si ritiene che l’omalizumab non possa provocare anafilassi. Il dr Lanier ha detto di non aver osservato significativi effetti collaterali correlati al trattamento.
Con una iniziativa insolita, a tutti i soggetti dello studio è stato garantito che potranno ricevere l’omalizumab una volta concluso lo studio.

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Caffè: mal di testa in agguato se si “abbandona” nel weekend
Roma, 29 agosto (Adnkronos) - Privarsi della tazzina di caffe' o ridurne drasticamente il numero durante il fine settimana, cancellando cosi' l'abitudine quotidiana, aumenta il rischio di soffrire del cosiddetto ''mal di testa del weekend''. Un malessere che si manifesta proprio quando ci si vorrebbe rilassare e che nel 34% delle persone che gia' soffrono di emicrania si presenta puntuale durante il sabato e la domenica. E' quanto si legge sulla rivista ''deCoffea'', a cura del gruppo di studio sul caffe' della Fondazione per lo studio degli alimenti e della nutrizione, che ricorda in proposito alcuni studi sul tema.

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Successo della terapia genetica per l’ischemia miocardica cronica
Lancet, 2 settembre 2000. Ricercatori U.S.A. questa settimana riferiscono di aver avuto successo utilizzando la terapia genetica per stimolare un’angiogenesi terapeutica in pazienti affetti da ischemia miocardica cronica. “C’è stata grande preoccupazione riguardo il dubbio che la terapia genetica funzioni. Questa è una prova molto solida della sua efficacia”, ha detto il ricercatore senior del gruppo Jeffrey Isner (Tufts University School of Medicine, Boston, MA, USA).
Hanno partecipato allo studio 13 pazienti coronaropatici nei quali la terapia farmacologica standard e gli interventi avevano fallito. Il gruppo di Isner ha utilizzato il fattore di crescita endoteliale (phVEGF 165) iniettandolo direttamente nel miocardio nel corso di una toracotomia. Successivamente il gruppo ha valutato gli effetti del fattore di crescita non solo mediante la tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT), ma anche mediante una mappatura elettromeccanica del ventricolo sinistro.
Sessanta giorni dopo l’applicazione del fattore di crescita, l’area media di miocardio ischemico si era ridotta da 6.45 cm2 a 0.95 cm2, un dato che corrispondeva alla migliorata perfusione calcolata tramite la SPECT. Tutti i pazienti erano vivi al sesto mese di follow-up, e nessuno aveva avuto complicazioni serie. C’erano anche riduzioni significative degli episodi di angina e del consumo di nitroglicerina.
”Sebbene questo sia uno studio molto elegante, la necessità della toracotomia significa che la tecnica non è molto ‘amichevole’ verso il paziente” commenta Freek Verheugt (University Hospital, Nijmegen, Netherlands). “Ciò che è necessario”, egli aggiunge, “è la possibilità di applicare il fattore di crescita tramite catetere, in modo che si possano trattare più pazienti, e si possa fare un trial randomizzato e controllato.

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Il sonno rivelatore
Ricercatori statunitensi hanno scoperto che un primo deterioramento del sonno negli uomini avviene fra 25 e 45 anni
04.09.2000 Le Scienze
Qual'è il segno dell'età che avanza nell'uomo? I capelli bianchi, i muscoli meno pronti, i problemi sessuali? No, secondo ricercatori dell'Università di Chicago è il sonno il miglior rivelatore dello stato di avanzamento dell'invecchiamento. La dottoressa Eve van Cauter e i suoi colleghi hanno studiato il sonno di 149 uomini fra i 16 e gli 88 anni per un periodo di tempo che è andato dal 1985 al 1999, controllandone anche i livelli ematici degli ormoni legati al sonno. I ricercatori statunitensi hanno scoperto che un primo deterioramento del sonno negli uomini avviene fra l'età di 25 e 45 anni. Non si tratta di un calo nella quantità totale di sonno, ma di un peggioramento nella sua qualità. In particolare la fase di sonno profondo, che in un giovane adulto occupa circa il 20 per cento del totale del sonno, dopo i 35 anni scende a circa il 5 per cento. Dopo i 45 anni gli uomini non hanno praticamente più fasi di sonno profondo. Dato che l'ormone della crescita viene prodotto nel cervello proprio durante la fase di sonno profondo, non c'è da sorprendersi che il livello di questo ormone nel sangue calino fra i 16 ed i 40 anni di oltre il 75 per cento. Nonostante il nome questo ormone è utile anche quando la crescita è ormai terminata da un bel pezzo, gli anziani che soffrono di deficienza di questa sostanza tendono a soffrire di obesità, perdita di massa muscolare e scarsa resistenza alla fatica. Le terapie integrative con questo ormone non sembrano però funzionare molto. La ricerca dei medici di Chicago sembra essere in grado di spiegare il perché di questa inefficacia terapeutica, la carenza ormonale inizia ben prima dell'età in cui normalmente essa manifesta i suoi effetti patologici e 20 anni di insufficiente livello dell'ormone della crescita, probabilmente, rendono insensibile il corpo alla sua integrazione. Questo, secondo van Cauter e colleghi, potrebbe suggerire due possibili strategie terapeutiche, la prima è quella di iniziare l'integrazione di ormone della crescita intorno ai 40 anni, appena se ne manifesta la carenza, la seconda è quella di individuare farmaci in grado di ripristinare la fase di sonno profondo negli uomini che ne sono ormai privi, in modo che i livelli di ormone della crescita si ripristino naturalmente. La ricerca condotta a Chicago ha poi individuato una seconda fase di deterioramente del sonno che avviene negli uomini intorno ai 60 anni, in questo caso si tratta di un calo nella durata totale del sonno e di una riduzione della fase REM, quella in cui avvengono i sogni. Questo deterioramento progressivo del sonno (circa mezz'ora di sonno in meno ogni 10 anni e il dimezzamento del tempo dedicato ai sogni) sembra allo stesso tempo causare ed essere causata dall'aumento dei livelli di cortisolo, l'ormone dello stress, nel sangue. La mancanza di sonno REM incrementa infatti i livelli di cortisolo e ne impedisce il normale calo nei livelli ematici che si ha nelle ore serali, l'eccesso costante di cortisolo, a sua volta, riduce il sonno, in un meccanismo che si autoalimenta. Ma l'eccesso di cortisolo produce anche altri disturbi, come insensibilità all'insulina, una condizione che conduce al diabete e cali di memoria, due delle patologie più frequenti durante la vecchiaia. Secondo van Cauter e colleghi, quindi, questa è un'altra possibile relazione fra il deterioramento del sonno e i disturbi tipici della terza età.

Alessandro Saragosa
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Malattie polmonari indotte dai medicinali
Centinaia di medicine, comunemente prescritte dai medici, possono provocare malattie a carico dell’apparato respiratorio
11.09.2000  Le Scienze.
L’occasione è importante, il primo congresso mondiale dedicato alle malattie polmonari e respiratorie che si è appena concluso a Firenze, e l’annuncio è davvero allarmante: 310 medicinali in circolazione, regolarmente prescritti dai medici, possono danneggiare i polmoni.
Una documentazione ricchissima è stata raccolta da Philippe Camus, del centro medico universitario di Digione, membro dell’«European Respiratory Society» e organizzatore del congresso. Camus elenca 4200 riferimenti bibliografici a testimonianza delle sue affermazioni e ha allestito un sito internet (http://www.pneumotox.com) che può costituire un agile strumento, soprattutto per quei medici che a volte prescrivono medicinali con troppa leggerezza. Nel sito, le sostanze vengono classificate in tre categorie a seconda di quanti casi di effetti iatrogeni risultano documentati nella letteratura specialistica. E non mancano le sorprese: alcuni principi attivi di uso estremamente ampio compaiono nella lista, come l’acido acetilsalicilico - la comunissima aspirina - e il paracetamolo. Quest’ultimo, usato comunemente come analgesico, è stato per esempio oggetto di un recente studio condotto in Gran Bretagna, da cui risulta che un’assunzione settimanale della sostanza aumenta dell’80 per cento le probabilità di attacchi asmatici rispetto a chi non ne fa mai uso. In totale, oltre 50 malattie respiratorie o polmonari, dal banale raffreddore fino ad asma e pleurite, sarebbero aggravate o provocate dall’assunzione di farmaci.
Al congresso di Firenze, nuovi apporti a sostegno delle tesi di Camus sono stati forniti da altri ricercatori: un gruppo dell’Università di Oslo, uno dall’Università del Cairo e una delegazione di medici spagnoli hanno presentato relazioni che documentano effetti collaterali nocivi e spesso sottovalutati a carico dell’apparato respiratorio di medicinali largamente usati per il trattamento di altre patologie.
Camus ritiene che questi problemi possano essere ampiamente prevenuti, a patto che ci sia una maggior attenzione da parte dei pazienti e soprattutto dei medici; ma «anche in campo epidemiologico sono necessari molti cambiamenti, perché queste casistiche devono essere trattate in modo opportuno e non come accidenti terapeutici».
Renato Torlaschi

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Semi di anice per stimolare la digestione
Roma, 15 set. (Adnkronos) - Semi di anice (Illicium verum L.) per stimolare la digestione ed eliminare l'aria dall'addome. A renderli 'preziosi per lo stomaco' e' l'olio aromatico molto intenso, impiegato per fare profumi, dolci e medicinali. Si pensa che Linneo, quando classifico' la pianta, gli attribui' il nome Illicium per il suo sapore e profumo, un nome che deriva dal latino illicere, cioe' sedurre.
L'anice contiene olio essenziale costituito principalmente da anetolo ed estragolo ed anche terpeni ciclici e fenolici. Proprio questi principi attivi conferiscono alla droga una forte azione carminativa, stomachica, antispasmodica e stimolante della peristalsi, antisettica ed antifermentativa.

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Rischio di m. di Hodgkin aumentato nei pazienti affetti da colite ulcerosa
di Sherry Kahn
Westport, 18 settembre (Reuters Health) – I pazienti con colite ulcerosa hanno un rischio aumentato di più di nove volte rispetto alla popolazione generale, secondo quanto è riportato nel numero di settembre di Gastroenterology.
Ma, ha detto il dr Domenico Palli alla Reuters Health, “i messaggi allarmistici vanno evitati. Il morbo di Hodgkin è relativamente raro e, anche con l’indice di rischio aumentato, la possibilità che un paziente con colite ulcerosa sviluppi un linfoma di Hodgkin in 10 anni di follow-up è inferiore all’1%. Abbiamo anche riscontrato che il morbo di Hodgkin non compare in pazienti trattati con farmaci immunosoppressivi.”
Il dr Palli, del Centro per lo Studio e la Prevenzione Oncologica di Firenze, Italia, insieme con un gruppo di studio multicentrico ha seguito 689 pazienti con colite ulcerosa e 231 con morbo di Crohn identificati nell’area di Firenze tra il 1978 e il 1992. In questo periodo sono stati diagnosticate 64 nuove neoplasie in questo gruppo di pazienti. I ricercatori hanno riscontrato che, sebbene il tasso generale di incidenza del cancro non fosse aumentato, c’era un tasso di incidenza del 9.3% del morbo di Hodgkin nei pazienti con colite ulcerosa. “I tumori del tratto respiratorio erano significativamente ridotti a un quarto del tasso atteso nei pazienti con colite ulcerosa, ma tendeva ad essere aumentato nei pazienti con morbo di Crohn, che avevano un rischio più alto del 50% di cancro per tutte le localizzazioni.” I ricercatori riferiscono inoltre che “è stato osservato un rischio di cancro colorettale solo modestamente aumentato, non significativo” nei due gruppi.
”L’associazione che noi abbiamo trovato fra colite ulcerosa e morbo di Hodgkin potrebbe essere una caratteristica specifica dei popoli mediterranei, dal momento che non sono stati riferiti risultati simili in studi nordeuropei più ampi”, ha detto il dr Palli.
Gastroenterology 2000;119:647-653

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Toxoplasmosi: un verdetto di assoluzione per i gatti
Una malattia insidiosissima per il feto se contratta durante la gravidanza. Ma la vicinanza dei felini domestici, spesso additata come tramite principale, non ne è responsabile
18.09.2000 Le Scienze. Le donne gravide possono smettere di temere i gatti per ciò che riguarda il rischio di contrarre la toxoplasmosi. Dovrebbero preoccuparsi piuttosto delle carni ingerite, della pulizia delle proprie mani e in generale delle condizioni igieniche ambientali, soprattutto se in visita in paesi esteri. Lo dice una ricerca condotta in sei città europee (Napoli, Losanna, Copenaghen, Oslo, Bruxelles e Milano) su oltre mille donne gravide, (252 infette e 858 di controllo) i cui risultati sono stati pubblicati recentemente sul «British Medical Journal» (BMJ 2000;321:142-147). «La toxoplasmosi non è nociva per la madre, ma può essere trasmessa al feto e danneggiarlo - ricorda Augusto Enrico Semprini, ginecolo e infettivologo che ha partecipato alla ricerca - il rischio di trasmissione al feto è del 33 per cento e un feto infetto su dieci sviluppa danni importanti».
Per infettarsi con il Toxoplasma gondii occorre ingerirne le oocisti, che possono essere presenti nelle feci di gatti a loro volta infetti. Di per sé vivere tra i gatti non comporta quindi rischi particolari di contrarre la malattia; basta adottare un minimo di precauzioni quando si tocca la loro cassettina igienica. A proteggere dalla trasmissione oro-fecale sono più che sufficienti le normali regole igieniche: usare i guanti, lavarsi le mani. Inoltre, il gatto può liberare cisti di toxoplasma con le feci solo se si trova in fase di infezione acuta, che dura circa due-tre settimane, un'unica volta nella sua vita. Scartato dunque il micio, rimangono le vere possibili origini di infezione. Secondo questa ricerca, sono in primo luogo le carni (dal 30 per cento al 63 per cento dei casi). Non soltanto la carne cruda nella tipica forma del carpaccio, come è abbastanza noto, ma tutta la carne cruda o poco cotta (bovina, ovina, cacciagione eccetera), dalla bistecca al sangue, alle salsicce, i salumi, la bresaola o il prosciutto crudo e le carni precotte, il cui consumo si sta diffondendo. Anche toccare il terriccio per esempio facendo giardinaggio, espone al contatto con le cisti del protozoo (dal 6 al 17 per cento dei casi esaminati; con il 6-7 per cento dell'Italia, dove evidentemente il giardinaggio non è molto praticato, e il 17 per cento degli altri paesi). Pure in questo caso sono utili semplici norme igieniche: di nuovo, usare i guanti e lavarsi le mani. Tra gli altri rischi evidenziati dallo studio c'è il soggiorno in paesi con scarso livello di igiene e, meno frequentemente, il consumo di latte non pastorizzato. Le verdure poco lavate possono essere una fonte di infezione, ma lo studio non ha esaminato questo aspetto.
La ricerca ha anche valutato il livello di informazione su questa malattia, verificando che molte donne citano il gatto come fattore di rischio e poche conoscono correttamente le varie possibilità di infezione. Gli autori invitano dunque le autorità sanitarie a informare esaustivamente su questo argomento, ricordando che è aumentato il numero di donne che arrivano alla gravidanza senza avere avuto l'infezione in precedenza (probabilmente a causa delle migliorate condizioni igieniche generali). Come succede ai gatti, anche gli esseri umani si infettano una sola volta nella vita e dunque bisognerebbe controllare gli anticorpi al Toxoplasma gondii prima del concepimento, per evitare in questo modo ansie durante la gravidanza. Anche le precauzioni igieniche e alimentari andrebbero messe in pratica sin da quando si decide il concepimento.
Anna Mannucci

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APPROFONDIMENTI

Il DNA non è solo quello nucleare: le malattie mitocondriali
Da quando e’ partito il progetto "genoma" e da quando si e’ realizzata la conoscenza piu’ approfondita dei loci del DNA umano molta attenzione e’ stata posta a questa molecola ma ci si e’ dimenticati un altro aspetto molto importante che e’ quello del DNA mitocondriale. Infatti, mentre e’ vero che la maggior parte degli enzimi che costituiscono la catena respiratoria cellulare sono codificati dal DNA nucleare, esiste pero’ un gruppo che utilizza come stampo il DNA mitocondriale per cui una mutazione o un deficit a questo livello verra’ trasmessa da una cellula alle cellule figlie con conseguenze piu’ o meno gravi per l’organismo.
In genere le mutazioni del DNA mitocondriale colpiscono solo alcune copie risparmiandone altre vale a dire che nello stesso individuo possono esistere cellule sane e cellule malate o addirittura la stessa cellula puo’ essere portatrice di DNA sano e di DNA alterato. Il rapporto proporzionale della quantita’ di DNA sano e la quantita’ di DNA mutato puo’ dar ragione delle alterazioni che si possono verificare nei diversi organi o apparati nonche’ del fatto che persone con la stessa mutazione possono avere un quadro clinico molto diverso in quanto puo’ colpire organi differenti. Inoltre le mutazioni mitocondriali tendono ad aumentare con il tempo per cui possono accumularsi con l’eta’ contribuendo ad alterazioni sempre maggiori dell’organismo ospite. Alcune malattie mitocondriali possono essere trasmesse dalla madre al figlio, altre volte queste non si ereditano perche’ la mutazione puo’ avvenire dopo la nascita. Infatti nei primi mesi di vita extrauterina si assiste nei neonati sani a un incremento enorme della quantita’ di DNA mitocondriale che sara’ la base del successivo sviluppo del neonato. Questo meccanismo e’ controllato dal DNA nucleare e, in caso di alterazioni, il neonato puo’ rimanere ipotrofico, cerebropatico e a rischio di vita. Sono centinaia le malattie in cui e’ stato riscontrato un difetto del DNA mitocondriale. Alcune sono rarissime altre assai comuni come il diabete, il morbo di Parkinson, il morbo di Alzheimer e il cancro. L’identificazione dei soggetti a rischio puo’ avvenire con una serie di accertamenti strumentali e di laboratorio: nel 40% dei pazienti si riscontra un aumento di creatinfosfochinasi sierica e in quasi tutti vi sono livelli di acido lattico molto alti sia al riposo che dopo sforzo. L’esame piu’ dirimente e’ quello microscopico: nelle cellule interessate i mitocondri sono enormi oppure in numero molto superiore alla media. Nella biopsia muscolare sono rilevabili quelle che vengono chiamate le "fibre stracciate" o "ragged red", molto caratteristiche. La diagnosi puo’ essere completata da una analisi genetica. La prospettiva di una terapia genetica nell’ambito delle malattie mitocondriali e’ piuttosto prematura in quanto e’ gia’ difficile sostituire un gene difettoso in una singola copia all’interno del nucleo ma tentare di farlo nei mitocondri e’ praticamente impossibile per il numero dei cambiamenti e delle sostituzioni che bisognerebbe fare. Non e’ ancora chiaro oltretutto se il difetto genetico che determina la malattia mitocondriale non possa avere anche un legame con alterazioni del genoma nucleare.
Alcune malattie in cui vi e’ stato dimostrato un difetto del DNA mitocondriale:
- Sindrome di Leigh: malattia infantile spesso letale contraddistinta dalla progressiva degenerazione delle difficolta’ visive, uditive e uditorie.
- Encefalomiopatia mitocondriale, acidosi lattica e apoplessia (EMALA o MELAS) disfunzione di alcune aree cerebrali che causa epilessia, perdita dell’udito, ritardo nello sviluppo, paralisi regionale transitoria e demenza insieme ad accumulo di acido lattico.
- Epilessia a fibre stracciate: epilessia, tassia, sordita’ e demenza.
- Sindrome di Kearn-Sayre: tipica dell’ eta’ giovanile comporta perdita progressiva della vista a causa di danni al nervo ottico, ritardo mentale, diabete e insufficienza renale.
(Daniele Zamperini - fonte G. Comi " Il Policlinico di Milano", 15 Aprile 2000)
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Pillole di buonumore

Dieta: una vita da malati per morire finalmente sani!


MEDICINA LEGALE E NORMATIVA SANITARIA 
  Rubrica gestita dall' ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale Universita' Cattolica

  Il silenzio della P.A. può essere reato (Sentenza)

Se la P.A. non risponde ad una richiesta, il suo silenzio puo' configurare reato.
La Cassazione (VI sez. penale, sentenza 6778/2000) ha respinto il ricorso di due amministratori di ASL condannati nei gradi di merito all'interdizione ai pubblici uffici per un anno ed a una sanzione pecuniaria di un milione.
Il fatto: un medico, licenziatosi dall'Ospedale, aveva poi sollecitato per iscritto la sua riassunzione. A tale richiesta non seguiva alcuna risposta da parte della P.A. per cui il medico si era rivolta all'Autorita' Giudiziaria.
Gli Amministratori della ASL avevano sostenuto, a difesa

Condannati in primo grado e in appello per omissione d'atti d'ufficio, la Cassazione ha confermato la condanna affermando che le ragioni di fatto, quali eventuali difficolta' dovute alla mole di lavoro, non valgono come scusanti, ne' vale "la pretesa personale convinzione di non dover dare risposta". Anche l'impossibilita' di riassunzione nulla toglie all'obbligo di dare una risposta, seppure negativa, anche al fine di permettere all' ex dipendente di far valere suoi eventuali diritti. Se anche il ritardo della risposta fosse stato inevitabile, secondo i Magistrati, La USL avrebbe dovuto almeno esporre all' interessato i motivi della mancata sollecita risposta. I Magistrati hanno sottolineato che la conoscenza di una richiesta rivolta all'ente di cui si e' responsabile, e' "presunta" fino a prova contraria.
DZ: fonte: Biologi Italiani, n. 7, 2000
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Pillole di buonumore

Perche' non si devono mettere le pastiglie di Viagra nel minestrone? Perche' se no i piselli rimangono duri...