RESPONSABILITA' DISCIPLINARE DEL MEDICO PER PRATICHE NON SPERIMENTALI E PRIVE DI RISCONTRO SCIENTIFICO

( Cassazione - Sezione terza civile - Sent. n. 5885/2000 - Presidente F. Sommella - Relatore A. Segreto )

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

In data 17.10.1995 la Commissione medici chirurgici dell'Ordine di Torino avviava un procedimento disciplinare nei confronti del medico dr. A.D.R., con l'addebito di aver fornito la necessaria copertura, affinché G.S.S., eseguisse nei confronti di pazienti affetti da patologie oncologiche terminali pratiche terapeutiche, o asseritamente dichiarate tali, non sperimentate e prive di adeguato riscontro scientifico, a scopo di lucro.
All'esito l'organo di disciplina infliggeva al dr. D.R. la sanzione della radiazione dall'Albo.
Avverso detta decisione, il dr. D.R. proponeva ricorso alla Commissione Centrale per gli esercenti professioni sanitarie.
Questa, con decisione depositata l'8.4.1999, rigettava il ricorso.
Riteneva la Commissione che non era contestato in punto di fatto che l'inquisito aveva svolto congiuntamente ad un soggetto non sanitario un'attività, che per quanto non terapeutica, come accertato in sede penale, poteva ingenerare nei pazienti il convincimento di un metodo, se non curativo, sicuramente palliativo del dolore.
Riteneva la Commissione centrale che, a prescindere dalla qualificazione di prestanomismo data al comportamento del sanitario, il giudice disciplinare aveva inteso sanzionare il rapporto di collaborazione tra il ricorrente ed un soggetto non medico, tanto più grave perché, come riconosciuto in sede penale ed invocato dal ricorrente a sua giustificazione, l'attività posta in essere nei confronti degli ammalati non aveva natura di atto medico per cui, tenuto conto che lo stesso incolpato ammetteva di non avere conoscenze tecniche del funzionamento dell'apparecchio, il cui utilizzo era riservato al G., non si comprendeva per quale motivo il ricorrente partecipava a tale attività. Secondo la Commissione era riscontrato anche il fine di lucro del D.R., per cui attesa la gravità della violazione, risultava commisurata ad essa la sanzione della radiazione.
Avverso detta decisione proponeva ricorso per Cassazione il D.R.
Resistevano con controricorsi il Ministero della Sanità e l'Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri di Torino. Il ricorrente ha presentato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente vanno esaminati i motivi terzo e quarto del ricorso, attenendo a questioni pregiudiziali.
Con il terzo motivo del ricorso, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 3, 24, 35, 41 e 97 Cost..
Ritiene il ricorrente che sanzioni gravi, quali la sospensione o la radiazione, non possono essere affidati ad una giurisdizione domestica (costituente tra l'altro giurisdizione speciale che a norma dell'art. 102 Cost. e VI disp. transitorie avrebbe dovuto essere soppressa), senza un successivo integrale riesame nel merito da parte del giudice ordinario, come è previsto dagli ordinamenti della professione di psicologo, di dottore agronomo, dottore forestale e dei notai.
A parere del ricorrente ciò già costituisce un contrasto con l'art. 3 Cost..
In ogni caso, secondo il ricorrente, l'autodichia in materia disciplinare, prevista dal d.p.r. n. 221/1950 confligge con il diritto di agire in giudizio e con il diritto di difesa (art. 24 Cost.); con il principio secondo il quale la tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti (art. 113 Cost.); con il principio dell'imparzialità o terzietà del giudice sancito dall'art. 97 Cost..
Pertanto il ricorrente richiede che le S.U. di questa Corte, previa disapplicazione dell'art. 68, c. II, d.p.r. n. 221/1950 "pronuncino sulla giurisdizione" dichiarando che avverso la decisione della Commissione centrale è ammessa l'impugnativa davanti al tribunale ordinario, ovvero sollevino questione di illegittimità costituzionale dell'art. 19 d.l.g.s. cps. n. 233/1946, nella parte in cui preclude al sanitario l'impugnativa della decisione della Commissione centrale al tribunale ordinario.
2.1. Questa Corte, anzitutto, osserva che sulla natura giurisdizionale della Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie non può esservi dubbio, siccome risultante dalla previsione, nell'art. 19 del d.lg.c.p.s. n. 233/1946, del ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ai sensi dell'art. 362 c.p.c., contro le decisioni di essa; previsione che non poteva essere (e non fu) vanificata dalle disposizioni di un regolamento, il D.P.R. n. 221 del 1950, specie perché emanato per l'esecuzione di detta legge (Cass. S.U. 18/04/1988, n. 3032). Anche la successiva giurisprudenza di questa Corte dà per punto pacifico la qualità di organo giurisdizionale rivestito dalla commissione centrale (Cass. S.U. 8.1.1993, n. 131; 23.12.1997, n. 13016).
Una volta affermata la natura giurisdizionale delle decisioni di detta commissione, contro le stesse è ammissibile, a norma dell'art. 111, c. 2°, Cost., il ricorso per cassazione per violazione di legge.
Sennonché la disposizione di cui all'art. 19 d.lg.c.p.s. 13.9.1946, che prevede il ricorso alle sezioni unite della cassazione, a norma dell'art. 362 c.p.c., è attributiva di competenza limitatamente ai ricorsi con i quali si pongono questioni di giurisdizione, secondo il principio generale di cui all'art. 374 c.p.c., ma non esclude, in difetto di espressa disposizione derogativa (come ad es. art. 56, c. 3°, r.d.l. 27.11.1933 n. 1578, in tema di ordinamento della professione di avvocato), la competenza delle sezioni semplici per i ricorsi che tale questione non pongono (Cass. S.U. ord. 18.6.1998, n. 611).
Con detto riscorso ex art. 111, c. 2°, Cost. si possono denunziare soltanto le "violazioni di legge", siano esse violazione di legge sostanziale o violazione di legge processuale.
2.2. Sennonché le questioni attinenti alla giurisdizione che rientrano nella cosiddetta "competenza" delle S.U., a norma dell'art. 374 c.p.c., sono esclusivamente quelle di cui all'art. 360 n. 1 e 362 c.p.c..
Escluso che nella fattispecie si verta in ipotesi di "conflitti" di cui all'art. 362, c. 2°, c.p.c., i "motivi attinenti alla giurisdizione", cui si riferiscono gli artt. 360 n. 1 e 362, 1° c., c.p.c., sono esclusivamente tutti i tipi di vizio della sentenza derivanti da violazione delle regole sulla giurisdizione e cioè: l'invasione della sfera di discrezionalità della p.a., l'invasione della sfera giurisdizionale del giudice ordinario o di un giudice speciale, l'erronea declinatoria della giurisdizione, la violazione delle norme che regolano la giurisdizione nei confronti dello straniero.
Inoltre la deduzione, come motivo di ricorso per Cassazione, di una questione riguardante la giurisdizione (come per la competenza) non può farsi se non sotto il profilo della violazione delle norme che regolano tale presupposto (Cass. S.U. 14.10.1977, n. 4369).
2.3. Nella fattispecie non sussiste alcuno dei presupposti suddetti.
Infatti, manca nella fattispecie un provvedimento declinatorio della giurisdizione ovvero di invasione della giurisdizione del giudice ordinario o speciale.
In altri termini, per poter sollevare la questione di giurisdizione secondo l'interpretazione normativa da lui propugnata, avrebbe dovuto il ricorrere impugnare non davanti a questa Corte ma davanti al tribunale la decisione disciplinare, sollevando le questioni di costituzionalità dell'art. 19 del d. lgs. c.p.s. n. 233 del 1946, ovvero di disapplicazione dell'art. 68, c. 2°, d.p.r. n. 221/1950, e, ove il tribunale avesse declinato la propria giurisdizione, avrebbe potuto proporre regolamento di giurisdizione (Cass. S.U. 9.11.1992, n. 12077), per vizio attinente alla giurisdizione avverso la detta sentenza davanti alle S.U. di questa Corte, riproponendo le stesse questioni disattese dal giudice di merito.
In altri termini il ricorrente nella fattispecie non censura la decisione della Commissione centrale per vizio di giurisdizione, ma censura il sistema procedimentale disciplinare e cioè le norme del regolamento d.p.r. n. 221/1950 (chiedendone la disapplicazione) e l'art. 19 del d. lgs. c.p.s. n. 233 del 1946 (sollevando questione di legittimità costituzionale), che non permettono l'impugnazione di detta decisione davanti al tribunale.
Sennonché proprio perché non viene assunta una violazione delle norme sulla giurisdizione contenuta nella decisione della Commissione centrale, oggetto di questo giudizio, non sussiste nella fattispecie una questione di cd. "competenza" delle Sezioni Unite.
2.4. Per i motivi predetti, in relazione alle eccezioni di incostituzionalità, sollevate dal ricorrente, relativamente all'art. 19 del d. lgs. c.p.s. n. 233 del 1946, deve questa Corte osservare che le stesse sono prive di rilevanza.
Risulta pertanto superfluo rilevare che questa Corte ha già ritenuto manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal ricorrente, sia con riferimento all'art. 102 Cost. e VI disp. trans. Cost. (S.U. 6.11.1998, n. 11213), sia con riferimento agli artt. 104 e 97 Cost. (S.U. 7.8.1998, n. 7753), sia con riferimento all'art. 24 Cost., (S.U. 1.3.1988, n. 2153).
3. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 3, 24, c. 2°, e 113 Cost..
Assume il ricorrente che è stato violato il principio del contraddittorio, in quanto non gli è stata comunicata la data dell'adunanza e non gli è stata data l'opportunità di presentare le proprie deduzioni davanti alla Commissione centrale. Ritiene il ricorrente che erroneamente l'art. 62 d.p.r. n. 221 del 1950 riserva alla discrezionalità della Commissione il concedere l'audizione personale a richiesta del sanitario.
Secondo il ricorrente ciò contrasta con l'art. 3 Cost., tenuto conto che in altri procedimenti disciplinari (quello relativo agli avvocati) detta comunicazione dell'adunanza è prevista in ogni caso e contrasta, altresì, con il principio del contraddittorio di cui al 2° c. dell'art. 113 Cost.. Richiede, pertanto, il ricorrente la disapplicazione degli artt. 59 e 62 d.p.r. n. 221 del 1950, ovvero qualora si ritenesse di non poter disapplicare dette norme, solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 18 d. lgs. cps. n. 233/1946 nella parte in cui non rende obbligatoria la tempestiva comunicazione al ricorrente della data dell'adunanza e nella parte in cui non prevede che sia ammesso ad esporre davanti alla commissione le proprie ragioni.
4. Va, anzitutto, rilevata la manifesta infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale.
Infatti il predetto d. lgs. c.p.s. n. 233/1946 nulla prevede in merito "ai ricorsi ed alla procedura davanti alla Commissione centrale", se non che detta materia deve essere regolamentata con regolamento di esecuzione da parte del governo (art. 28).
Il regolamento di esecuzione fu approvato con d.p.r. 5.4.1950, n. 221.
Ne consegue che eventuali contrasti con le norme costituzionali indicate, in relazione al procedimento davanti alla Commissione centrale, non possono riguardare il d. lgs. c.p.s. n. 233/1946, che nulla dice in proposito se non rimettendo tutto al regolamento di esecuzione successivo.
Ovviamente detto regolamento di esecuzione, emesso dal governo nel 1950, doveva essere conforme ai principi costituzionali.
Quindi un eventuale contrasto con le norme costituzionali invocate sul punto, non è ipotizzabile nei confronti dell'atto avente forza di legge costituito del cit. d. lgs. c.p.s., con la conseguenza che la sollevata eccezione di incostituzionalità di tale atto è manifestamente infondata.
5.1. Detto contrasto potrebbe, in astratto, sussistere con le norme del regolamento. Sennonché, poiché detto d.p.r. n. 221/1950 ha natura regolamentare, non è suscettibile del sindacato di legittimità della Corte Costituzionale, essendo quest'ultimo relativo solo alle leggi ed agli atti aventi efficacia di legge, e pertanto, si sottopone alla verifica del giudice ordinario o speciale, anche sotto il profilo della verifica della sua legittimità costituzionale (Cass. S.U. 23.12.1997, n. 13016).
5.2. Ritiene questa Corte che gli artt. 59 e 62 d.p.r. n. 221/1950, sospettati di incostituzionalità del ricorrente, non violino gli artt. 3 e 24 Cost..
Infatti l'art. 59 cit. dispone che il sanitario interessato può richiedere alla Commissione centrale di essere udito personalmente, mentre l'art. 62 dispone che il segretario dà avviso dell'adunanza della Commissione.
Risulta dal fascicolo trasmesso dalla Commissione Centrale che il D. R., con telegramma del 17.12.1998, fu avvisato che la Commissione si sarebbe riunita il 18.1.1999 per esaminare il suo ricorso e che era ammessa la sua partecipazione e l'assistenza legale. Non risultando che il D. R. avesse richiesto di essere sentito dalla Commissione, questa non era tenuta a tanto.
5.3. Anzitutto va escluso quanto sostenuto dal ricorrente, secondo cui rientrerebbe nei poteri discrezionali della Commissione disporre l'audizione del sanitario interessato. Ciò è vero solo nel caso in cui il sanitario non abbia fatto espressa richiesta di essere sentito, ma il sentire la parte a chiarimenti costituisca atto di iniziativa della commissione (art. 62, c. 2°, reg.).
Ove invece il sanitario abbia richiesto di essere sentito, sfugge al potere discrezionale della commissione udirlo o meno, essendo, la stessa obbligata all'audizione.
5.4. Premesso ciò, va rilevato che tale sistema procedimentale non viola l'art. 24 Cost., in quanto anzitutto l'esercizio del diritto di difesa, tutelato dall'art. 24 Cost., non comporta che esso debba necessariamente essere svolto in forma scritta ed orale, risultando tutelato detto diritto anche con la sola possibilità della difesa scritta (o di quella orale).
In ogni caso nel procedimento in questione è attribuita al sanitario la facoltà di richiedere alla Commissione di essere sentito personalmente, per cui, se egli non intende esercitale tale facoltà, ciò dipende da una sua scelta di strategia processuale, che costituisce essa stessa una modalità di difesa.
5.5. Egualmente manifestamente infondata è l'eccezione di incostituzionalità delle norme in questione per violazione dell'art. 3 Cost., in relazione ad una presunta disparità di regolamentazione tra questo procedimento e quello in sede disciplinare dinanzi al Consiglio nazionale forense.
Infatti, fatti salvi i principi costituzionalizzati in tema di procedimenti (art. 24 e segg. ed art. 111 e segg. Cost., nella specie rispettati, come sopra riferito), non è detto che tutti i tipi di procedimenti debbano avere le stesse formalità, rientrando nei poteri discrezionali del legislatore la valutazione in ordine all'opportunità delle stesse e delle concrete modalità attuative.
5.6. Priva di fondamento è anche l'eccezione di violazione dell'art. 113, c. 2°, Cost., perché il predetto regolamento non prevede la possibilità di impugnare davanti ad altro giudice di merito, la decisione della Commissione centrale, ma solo con il ricorso per Cassazione.
Ribadita la natura giurisdizionale della decisione della Commissione Centrale, va, all'uopo, osservato che il principio del doppio grado di merito non trova fondamento costituzionale, neppure nel procedimento disciplinare, rientrando anch'esso nell'ambito delle valutazioni discrezionali del legislatore, come già rilevato in altri settori dell'ordinamento (Cass. 2.6.1992, n. 6678).
6. Passando ad esaminare nel merito il ricorso, va rilevato che con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 653 c.p.p. e dell'art. 44 d.p.r. 5.4.1950, n. 221, nonché la nullità della decisione per difetto di motivazione su punti decisivi della controversia.
Ritiene il ricorrente che, secondo le due citate norme, la sentenza penale che l'abbia prosciolto per insussistenza del fatto o per non averlo commesso ha efficacia preclusiva dell'azione disciplinare; che nella fattispecie egli era stato assolto dal Pretore di Torino, con due successive sentenze del 22.1.1988 e del 27.6.1996, dal reato di concorso in esercizio abusivo della professione sanitaria con il G., sul rilievo che essi non avevano compiuto alcun atto terapeutico riconducibile all'attività medica in senso stretto, trattandosi di applicazioni aventi effetti meramente antalgici e che il G. aveva operato quale tecnico sotto la direzione del dr. D.R., senza abusare del titolo di medico. A parere del ricorrente, quindi, egli non poteva essere ritenuto responsabile di aver permesso il compimento di atti terapeutici da parte di un non medico.
Lamenta il ricorrente che la decisione impugnata, capovolgendo l'impostazione della decisione del consiglio dell'ordine, l'ha ritenuto responsabile per aver compiuto insieme al G. atti che, proprio perché non terapeutici, denoterebbero un intento sostanzialmente fraudolento del professionista.
Inoltre secondo il ricorrente sussiste l'erroneità di motivazione, allorché si afferma ciò, in quanto, come provato dalla perizia penale il trattamento non alimentava illusioni, ma aveva effetti benefici nel lenire il dolore ed è altrettanto un travisamento del fatto affermare che egli non aveva conoscenza del funzionamento dell'apparecchio del G., in quanto insieme a quest'ultimo aveva scritto numerosi saggi su detto trattamento e aveva comunicato informazioni anche all'ordine provinciale, come risultava agli atti.
Quanto all'intento di lucro, osserva il ricorrente che solo una piccola parte dei compensi era da lui percepita.
7.1. Il motivo è infondato e va rigettato.
L'art. 653 c.p.p. statuisce che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione, pronunciata a seguito di dibattimento, ha efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o che l'imputato non l'ha commesso.
Principio analogo emerge dall'art. 44 d.p.r. n. 221/1950. Va, anzitutto, rilevato che la sentenza penale del 22.1.1988 attiene a fatti anteriori al 5.4.1986, e quindi, temporalmente diversi da quelli oggetto di questo procedimento disciplinare, decorrenti dal dicembre 1990 (pag. 1 della decisione impugnata).
Quanto alla sentenza del 25.6.1996, l'assoluzione del D.R. era stata pronunziata non a norma dell'art. 530, c. 1, c.p.p., ma a norma del comma secondo di detto articolo ("Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste...").
Ne consegue che detta sentenza penale non può avere l'efficacia di giudicato, assunta dal ricorrente, nel procedimento disciplinare, a norma dell'art. 653 c.p.p., poiché detta efficacia attiene solo all'accertamento positivo dell'insussistenza del fatto (o che l'imputato non l'ha commesso) e non alla diversa ipotesi assolutoria, che manchi la prova o la stessa sia insufficiente o contraddittoria.
7.2. In ogni caso, nella fattispecie la decisione impugnata, dopo aver dato atto che l'addebito originario era costituito dall'aver fornito l'originaria copertura, affinché il G. eseguisse nei confronti dei pazienti affetti da patologie oncologiche terminali pratiche terapeutiche, o asseritamente dichiarate tali, non sperimentate e prive di riscontro scientifico, a fine di lucro, ha osservato che il fatto che dette pratiche non avessero carattere terapeutico e che quindi non costituissero esercizio abusivo dell'attività medica da parte del G., come accertato dal Pretore, non escludeva il carattere della violazione disciplinare a carico del D.R., per la collaborazione prestata con il G., proprio perché l'attività posta in essere da detto medico nei confronti dei malati terminali non aveva alcuna natura di atto medico.
Stante detta impostazione, non sussiste alcuna violazione delle norme lamentate. Infatti la Commissione non ha ritenuto sussistente il fatto di concorso in esercizio abusivo della professione di medico, escluso dal pretore, poiché l'attività posta in essere dal G. non era terapeutica, ma ha solo sanzionato il rapporto di collaborazione tra il ricorrente ed il soggetto estraneo alla professione medica, nei confronti di malati terminali, ritenendo che, proprio perché attività non terapeutica, ma determinata da fini di lucro, costituiva atteggiamento improntato alla massima leggerezza e superficialità in campo oncologico, che invece, richiede particolare attenzione e sensibilità per evitare aspettative non giustificate.
8.1. Quanto alla doglianza che la Commissione centrale abbia completamente ribaltato l'impostazione seguita dall'Ordine provinciale, va a tal fine osservato che certamente anche in materia disciplinare (Cass. 18.5.1994, n. 4866, in tema di procedimento disciplinare a carico dei notai) vige il "principio della correlazione tra accusa e sentenza", che, per quanto fissato in questi termini in materia penale dall'art. 521 c.p.p., non è altro che la corrispondenza tra il chiesto (in sede disciplinare: la pretesa punitiva per un determinato fatto) ed il pronunziato, previsto dal codice di rito civile (art. 112 c.p.c.), le cui norme presiedono al procedimento disciplinare, in quanto compatibili ed in quanto non diversamente disposto.
8.2. Sennonché, a parte il problema che detta mancata corrispondenza in sede penale dà luogo a nullità rilevabile d'ufficio (art. 522 c.p.c.), mentre in sede disciplinare, detta nullità si converte in motivo di impugnazione, per cui se non espressamente proposto, non è rilevabile d'ufficio, in ogni caso l'interpretazione di quale fosse la pretesa punitiva, e quindi il fatto addebitato (come l'interpretazione di ogni domanda nel procedimento civile) compete al giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivata.
Nella fattispecie la commissione centrale ha ritenuto che era stato addebitato al ricorrente in sede di incolpazione non il prestanomismo in sede di esercizio abusivo di professione, ma il rapporto di collaborazione con il G. nei confronti dei malati terminali nei termini sopraddetti.
9. Inammissibile è la censura con cui il ricorrente lamenta il vizio motivazionale in relazione al punto che il trattamento in questione alimentasse solo illusorie speranze degli ammalati e che egli avesse agito per fine di lucro, ovvero che egli non conoscesse il funzionamento dell'apparecchiatura del G..
Infatti, come sopra detto, la ricorribilità per Cassazione del provvedimento in questione trova il proprio fondamento nell'art. 111, 2° c., Cost., per cui le relative censure devono rispettare ben precisi limiti.
L'inosservanza dell'obbligo della motivazione su questioni di fatto integra violazione di legge, e come tale è denunciabile con ricorso per cassazione a norma dell'art. 111, c. 2°, Cost., quando si traduca in una mancanza di motivazione stessa (con conseguente nullità della pronunzia per difetto di un requisito di forma indispensabile), la quale si verifica nei casi di radicale carenza di essa, ovvero del suo estrinsecarsi in argomentazioni non idonee a rivelare la "ratio decidendi" (cosiddetta motivazione apparente), o fra loro logicamente incompatibili o obiettivamente incomprensibili, e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in se, restando esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima in raffronto con le risultanze probatorie (Cass. S.U. 16.5.1992, n. 5888; Cass. S.U. 8.3.1993, n. 2754; Cass. 30.10.1996, n. 8064).
Nella fattispecie la sentenza impugnata motiva dette sue affermazioni, con riferimento sia agli accertamenti penali che alle stesse affermazioni a discolpa del ricorrente, per cui non sussiste ne mancanza ne apparenza di motivazione.
10. Quanto alla censura del travisamento del fatto, essa è egualmente inammissibile.
Infatti il travisamento del fatto non può costituire motivo di ricorso per cassazione, poiché, risolvendosi in un'inesatta percezione da parte del giudice di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento, in contrasto con quanto risulta dagli atti del processo, costituisce un errore denunciabile con il mezzo della revocazione ex art. 395, n. 4, c.p.c.. (Cass 15.5.1997, n. 4310; Cass. 2.5.1996, n. 4018), davanti alla stessa Commissione centrale nel procedimento penale in questione.
11. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 40 d.p.r. n. 221/1950 nonché la nullità della sentenza per difetto di motivazione in merito alla sanzione irrogata della radiazione.
Osserva il ricorrente che gli è stata irrogata la più grave delle sanzioni senza una motivazione adeguata e, segnatamente, senza che siano state considerate la personalità dell'incolpato e le concrete modalità del fatto.
12.1. Il motivo è infondato e va rigettato.
Infatti nel procedimento disciplinare a carico dell'esercente la professione sanitaria, l'individuazione della sanzione da irrogare è rimessa alla discrezionale valutazione del giudice disciplinare, purché dia conto della sua scelta con adeguata motivazione.
La mancata tipizzazione degli illeciti (art. 38 d.p.r. n. 221/1950) comporta che le sanzioni, tipicamente previste (art. 40 d.p.r. n. 221/1950), non siano correlate a specifiche figure di illeciti commessi, per cui ad una medesima mancanza può corrispondere anche l'applicazione alternativa di sanzioni di diversa gravità, purché risulti un apprezzamento equo e prudente del giudice disciplinare, sugli elementi soggettivi ed oggettivi del caso concreto. Nella scelta della sanzione da applicare, il giudice non è tenuto a seguire l'ordine previsto dall'art. 40 del regolamento, ma deve soltanto commisurare l'entità effettiva della sanzione alla gravità della mancanza accertata.
12.2. Ai fini dell'assolvimento dell'obbligo della motivazione relativamente alla sanzione, il giudicante non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall'incolpato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l'uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l'indicazione delle ragioni ritenute di preponderante rilievo (egualmente è stato statuito in sede penale: Cass. pen. 31.3.1994, Spallina).
Pertanto adempie all'obbligo della motivazione la decisione che si richiami, come nella fattispecie, alla particolare gravità del fatto (nella cui precedente ricostruzione aveva anche individuato l'intento di lucro), svalutando implicitamente il significato dell'incensuratezza dell'incolpato o altri elementi relativi alla sua personalità.
-13. Il ricorso va, pertanto, rigettato ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali sostenute dai resistenti e liquidate come in dispositivo.
PER QUESTI MOTIVI
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese sostenute dall'Ordine provinciale dei medici di Torino, liquidate in L. 393.000 (trecentonovantatremila) oltre L. tremilionicinquecentomila per onorario di avvocato, e dal Ministero della Sanità, liquidate in L. 20.500 (ventimilacinquecento) oltre L. tremilioni, per onorario di avvocato.